Gianluigi Venditti
(NPG 1997-05-54)
La pioggia scendeva fitta e Roberto si avviò verso il lido della città. La spiaggia era triste e desolata, le uniche persone che passavano erano quelle che abitavano al mare anche d’inverno. Il sole era ormai tramontato. Stanco, si sentiva appagato da quel silenzio. Si stese sulla panchina di un parco, a pochi metri dal mare. Tirò fuori dalla tasca del tabacco e rollò uno spinello. Poi entrò in un bar, mangiò un panino e bevve una bottiglia di birra accostando le labbra all’imboccatura. Guardava il cielo e si sentiva solo, privo di affetti, disperato..... Quel continuo spostarsi da un luogo all’altro lo demotivava. Tornato a casa cadde pesantemente sul letto e si addormentò.
All’alba del giorno successivo si recò alla stazione. Dopo aver conversato con le zingare, pronte a leggere la mano sul ciglio della strada, si recò a mendicare. Mentre si stava avviando verso l’uscita scorse nel vagone un altro mendicante che domandava tra i passeggeri denaro.
Si chiamava Alcide, aveva all’incirca sessanta anni e per sua scelta aveva deciso di fare il «clochard». I suoi occhi brillavano di una strana malizia e il ragazzo lo notò subito. C’era qualcosa che li accomunava. Nei giorni successivi decisero di condividere le esperienze di quella vita vagabonda. Presto i due divennero inseparabili, si completavano a vicenda. Un giorno, mentre stavano parlando, Roberto notò che il volto del vecchio si riempì di tristezza. Anche lui aveva avuto un figlio che si era perso nel tunnel della droga. Guardava con occhi spenti le siringhe tra i binari, ma i suoi occhi non esprimevano giudizi, solo rimpianto e nostalgia. Dopo una nota di silenzio prese la mano di Roberto, forse avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma si limitò a salutarlo. Il ragazzo continuò a mendicare, aveva ancora il volto del vecchio impresso nella mente, pensava a suo padre, forse anche lui un giorno avrebbe...
Mentre lo assalivano questi pensieri, stanco si avviava verso casa. Nei giorni che seguirono la testa gli doleva e un forte dolore alla tiroide gli ostacolava la deglutizione. Si recò all’ospedale, il medico gli prescrisse una forte cura ormonale. Stava per uscire, quando scorse sulla strada Alcide. Aveva appena dipinto un bel quadro e voleva regalarlo al ragazzo. Percorse dunque la strada e venne a sedere.
«Dipingi?» domandò Roberto. Alcide si portò la bottiglia di vino alle labbra e cominciò a sbronzarsi.
«Quando cominciai a dipingere avevo all’incirca la tua età, ero pieno di sogni, ma con il passare degli anni mi accorsi che la realtà che circondava gli artisti non era poi così raggiante...» Il ragazzo non lo degnò di una risposta, finse di non aver capito. Portava rancore agli artisti perché gli ricordavano il padre. Un uomo incapace d’esprimere sentimenti. Solo il tempo gli avrebbe permesso di comprendere che dietro l’insensibilità del genitore si celava una difficoltà comunicativa. Si spinsero attraverso la strada. Vagabondarono senza una meta precisa e finalmente trovarono un’osteria. Al «clochard» però non piacque e così si spostarono a «Campo di Fiori». Alcide andò a parlare con un pittore. I quadri erano di una bellezza straordinaria. Un artista gli si avvicinò e domandò cosa volesse vedere. Roberto imbarazzato non rispose. Numerosi signori bevevano champagne seduti ai vari tavolini del ristorante. Ma dietro quell’apparente felicità si celavano i dolori della vita. Il ragazzo osservava ogni minimo particolare e poiché Alcide continuava a parlare decise di rincasare. L’indomani si recò alla stazione Termini. Alcide, con un bagaglio, scorreva frettolosamente la strada.
– Torno a casa!
– A casa?
– Sì, a Firenze! A presto.
Rimase sbigottito. Il ricordo e l’addio dell’artista gli strinsero il cuore. Percorse la via addormentata. Entrò in un bar e ordinò un caffè. Descrisse su un foglietto la solitudine interiore. Forse, i raggi delle sue parole l’avrebbero resa raggiante anche se per un solo istante.
Dopo la partenza di Alcide, Roberto cadde in depressione. Quando sentiva parlare del barbone e dei suoi quadri si rattristava, rammentando i momenti felici che avevano trascorso. Era profondamente deluso, non parlava con nessuno. Il timore gli impediva d’esternare i propri sentimenti. Si doleva d’essere nell’incapacità di manifestare palesemente passioni e emozioni chiuse dentro di sé. Rilevava con languore la limitatezza dei propri mezzi. Il silenzio era suo amico. Non riusciva a dipingere, non riusciva a parlare, ma sapeva scrivere. Oh!, se avesse potuto raccontare la storia del cuore! La storia del suo cuore! Non sarò mai un artista: pensava! Ma già da allora i suoi atteggiamenti manifestavano le caratteristiche interiori dell’animo, l’agitazione dei suoi pensieri. Negli ultimi tempi aveva riniziato a studiare. Dapprima un po’ di storia, poi il suo interesse si riversò esclusivamente sulla lettura.
Tornando a casa dalle lezioni accostava la porta e, guardando il quadro di Alcide, sul quale era appesa la sua foto, diceva: «Devo farcela». In ogni notte illuminata di rabbia cominciava a scrivere, scriveva ore intere. Fuori era inverno e la neve si poggiava sul davanzale dalla finestra. Non voleva sopravvivere, desiderava vivere! Scriveva... le parole più belle sono quelle che nascono dal cuore.
La scrittura divenne per lui l’unico mezzo per esprimersi affettivamente. Leggeva molto. Riteneva indispensabile imparare a leggere in modo da poter scrivere e trasmettere agli altri quello che non riusciva a comunicare verbalmente. E fu così che scrisse la fiaba del «piccolo scrittore» che non divenne mai barbone ma scrittore.