«E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male»


Carmine Di Sante

(NPG 1996-09-5)


La preghiera del «Padre nostro» si conclude con una invocazione di fiducia e di speranza: «Ma liberaci dal male»; o, secondo un'altra probabile traduzione: «dal maligno», potendo significare il termine greco sia l'uno (male) che l'altro (maligno). Con questa invocazione l'orante esprime la certezza che il male, per quanto radicale, non appartiene all'ordine naturale e irreversibile ma a quello contingente e, per questo, superabile.
A questa invocazione di fiducia se ne accompagna però un'altra che sembra contraddirla: «Non ci indurre in tentazione». Come è possibile pensare a Dio come a colui che «induce in tentazione»? Non è blasfema l'idea di un Dio «tentatore», se il «tentatore», nella bibbia, è il nemico di Dio, serpente o demonio che sia? E un Dio «tentatore» non contraddice l'affermazione di Dio che vince il male e il cui tratto costitutivo è il suo essere amore radicale?

Il mistero della libertà

Una prima chiarificazione viene da una traduzione più fedele all'originale greco (e, soprattutto, al suo supposto sfondo aramaico) che dovrebbe suonare diversamente: «Non lasciarci cedere alla tentazione», letteralmente: «non farci entrare», oppure «non introdurci» nella tentazione. Si tratterebbe così non di un Dio responsabile della «tentazione» bensì di un Dio chiamato in causa contro di essa. Lungi dall'essere «tentatore», Dio è colui che è invocato per vincerla.
Ma la chiarificazione più dirimente può venire solo da una fenomenologia attenta al senso della tentazione biblica che nel racconto del serpente tentatore ha trovato la sua traduzione esemplare (Gn 3, 1ss). Se, stando al livello narrativo del testo, l'introduzione del male viene fatta risalire al serpente, una lettura attenta al dinamismo interno del racconto non tarda a scorgere, nel simbolismo dell'animale edenico, una finzione e funzione letteraria introdotta non per spiegare l'origine del male - essendo questo l'evento, imprevedibile e imprevisto, della libertà umana - ma per mostrare la reale, e non illusoria, possibilità che l'uomo ha di negarsi a Dio disarticolando il proprio volere dal suo: una possibilità non solo oggettiva ma anche oggettivamente «appetibile»: una possibilità, cioè, che in tanto emerge come tale nella coscienza umana in quanto percepita come «positiva», «bella» e «buona» («bello da vedersi» e «buono da mangiarsi»: cf Gn 3,6).
Il significato del serpente biblico del racconto creazionale è di essere, pertanto, la traduzione simbolica e narrativa del fascino che la trasgressione del comandamento divino esercita sulla coscienza umana. Esso dice che negarsi a Dio non solo è possibile ma è desiderabile; o, ancora più precisamente, che in tanto è possibile in quanto è desiderabile, in quanto rientra nell'orizzonte della desiderabilità. Il serpente, nella logica del racconto, non è la personificazione di una forza malevola che viene da fuori e che è contro l'uomo, ma l'oggettivazione della radicale struttura ed altezza della libertà umana la quale, per essere veramente tale, non può non passare attraverso la suadente e persuasiva possibilità contraria. Senza tale possibilità l'uomo, invece che libero di fronte a Dio, ne potrebbe essere solo, come nell'eros platonico, irrimediabilmente sedotto e attratto, non diversamente da chi, di fronte a due donne, sceglierebbe, e non potrebbe non scegliere, la più bella.

L'evento del male

Ma Dio è Dio, per la bibbia, perché, lungi dal se-durre (portare a sé) l'uomo attraendolo con la forza dell'eros e del suo determinismo, lo costituisce così radicalmente altro da sé da poterglisi negare. La voce del serpente che si insinua entro le pieghe della coscienza umana è la personificazione di questa radicale alterità umana capace, nella sua libertà, di negarsi realmente e drammaticamente a Dio; ed è anche, contemporaneamente, la personificazione di questa radicale alterità che, di fatto, e non solo per principio, si è negata a Dio, introducendo nel mondo il male: «La dimensione in cui il problema del male può essere trattato in modo filosofico e sensato è quello della libertà umana. A differenza del male fisico e psichico... il male morale esiste soltanto dov'è libertà e quindi responsabilità. Questa tesi va contro tutti i tentativi volti a risolvere il problema del male appellandosi unicamente alle legalità obiettive, strutture, disposizioni, modi di comportamenti ereditati, condizioni ambientali e simili (...). L'eliminazione sostanziale della categoria del male, considerata come una categoria etica, in ultima analisi mette in moto un grandioso meccanismo di discolpa, che è antiumano, poiché nega la responsabilità e l'autodeterminazione, degradando l'uomo ad oggetto. Qualsiasi discussione sul fenomeno del male, se non intende eludere a priori il fenomeno stesso, dovrà quindi partire dal punto fisso della libertà» (W. Kasper).

La vittoria sul male e la potenza di Dio

Per il Nuovo Testamento la sostanza dell'evangelo è che, con la morte e la risurrezione di Gesù, il male è stato vinto e che i «principati» e le «potestà» (Rom 8,38; 1 Cor 15,24; Ef 1,21; 3,10; 6,12; Col 1,16; 2,10.10) sono stati sconfitti, depotenziati e svuotati di ogni influsso reale e che l'uomo, come per incanto, non per forza endogena ma per un evento/dono proveniente da fuori, può sovrastarne la forza, «ridicolizzandoli» e riducendoli a fantasmi: «[Gesù] ne costituì Dodici che stessero con lui... perché avessero il potere di scacciare i demòni» (Mc 3,14; cf Mc 6,7 e passi paralleli).
Il Nuovo Testamento è la narrazione di come, nella morte di Gesù e nel fallimento seguito ad essa, gli apostoli - e, sul fondamento degli apostoli, la comunità dei credenti - hanno sperimentato la potenza di Dio (cf Ef 1, 19) vittoriosa del male: vivendo un'esperienza, non autoprodotta ma evento e dono, nella quale quella morte e quel fallimento, invece di chiuderli nel cerchio inesorabile della di-sperazione e della inattività, ha dischiuso ad essi la possibilità di reagirvi con un «di più»: il «di più» della fiducia e dell'amore e così vincendo il male.
Si tratta di un'esperienza che, come ogni esperienza, dischiude un'intelligenza prima e originaria che, per questo, non può essere fondata o provata, essendo fondamento e contenuto di ogni ulteriore intelligenza. L'unica prova - se di prova si vuol parlare - è la testimonianza di chi, in situazioni di male, risponde ad esso non con il male ma con il bene. Dove questo avviene, si rivela, per la bibbia, la potenza di Dio, come appello che istituisce l'uomo capace di vincere il male non con il male ma con il bene.
Con la preghiera del «Padre nostro», l'orante invoca ed accoglie questa «potenza di Dio» che istituisce il soggetto umano capace di vincere il male con un di più bene: la potenza del perdono.