Lettera aperta alle vecchie generazioni
Gioia Quattrini
(NPG 1996-09-2)
Vi sia lieve la terra sotto la quale giacete... - il giovane accanto a me lo sussurra una volta, ed ancora e poi di nuovo ad ogni passo, pensiero scabro, come tenera cartilagine, in questo luogo dove non c'è posto per la retorica.
«Vi sia lieve la terra sotto la quale giacete...» era il delicato augurio che gli antichi incidevano sulla pietra sepolcrale dei propri cari, ed Antonio pieno di emozione ce la rammenta davanti a quelle strazianti fosse comuni.
A Dachau l'orrore si impone assoluto, senza colori né voce. Il fragore del silenzio non conosce attenuazione, eppure siamo tanti, come certamente numerose erano le truppe americane che il 25 aprile 1945 mettevano piede qui, ad appena 25 Km da Monaco. Numerosi come noi i soldati e come noi, di certo, ammutoliti. Su un tavolo, abbandonato, un ordine di Himmler che stabiliva: «Il campo deve essere distrutto, nessun detenuto deve cadere vivo nelle mani del nemico, l'infermeria deve essere bruciata». Non fecero in tempo. Qualcuno ci racconta che questo lager era pure il laboratorio preferito per gli esperimenti medici del sinistro professor Heyde.
«Quanto resiste un uomo nell'acqua gelata prima di morire assiderato?», si domandava con curiosità il luminare del Terzo Reich, convinto che il giuramento di Ippocrate fosse solo un misero tentativo di screditare l'intelligenza tedesca da parte degli antichi greci, anche loro da sempre nemici della Germania.
Ci siamo incontrati qui, giovani da tutte le parti d'Europa, e con le nostre giacche colorate ci muoviamo lenti sullo sfondo bianco-grigio degli edifici massicci. Sangue di nuovo ossigenato che scorre con vigore in vene sclerotizzate dall'età e dal fumo. Mi ritorna alla mente la bimba con il cappotto rosso nel film in bianco e nero di Spielberg: Schindler's list. Siamo tanti per una celebrazione che ci vedrà assieme, mani con le mani, vicini nella preghiera per i martiri innocenti; ma ora ciascuno di noi è solo, davanti alla propria coscienza, davanti alla propria responsabilità verso un passato troppo prossimo per non riguardarci.
Prima di entrare, un enorme cartello invitava ognuno a pronunciare le parole MAI PIÙ, una promessa perché l'orrore già accaduto non si ripeta. Con entusiasmo lo abbiamo gridato; fermi gli occhi negli occhi dei nostri vecchi. Sono stati loro a convocarci qui per tenderci con scarne braccia il testimone: un numero impresso col fuoco. Non è vendetta che ci chiedono ma memoria, che è altra cosa dal perdono. Essa ha bisogno della verità. Sul cancello di ferro battuto di questo e di tutti gli altri lager, una scritta domina con sferzante ironia: ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi. A renderci liberà sarà solo la verità.
Mi guardo intorno: siamo giovani insegnanti, avvocati e medici della nuova guardia, magistrati che sognano la trincea più esposta; eppure non siamo preparati. Mille gli interrogativi e mille i dubbi su ciò che accadde e sui perché. Il resto del mondo sapeva? E se sapeva, perché tacque? Il silenzio non è mai protesta, è sempre complicità.
Quali sono le responsabilità del nostro paese? Qualche anziano appena accennava, audace, che anche noi ne avevamo in alta Italia. Ne avevamo di cosa? Perché questa vaghezza? Come potremo essere i garanti della giustizia, della libertà, i guardiani del mostro, se l'imbarazzo e la vergogna impediscono che ci venga detta la verità? Le vecchie generazioni, nonni, padri, insegnanti ci spieghino con umiltà e coraggio dove, come e quali furono le condizioni che li portarono a sbagliare. Noi ascolteremo con lo stesso coraggio e la stessa umiltà.
Solo così ci sorriderà un futuro che vedrà finalmente realizzata la promessa fatta con cuore puro, in un terso mattino di aprile, a Dachau: MAI PIÙ.