Lorenzo Chiarinelli
(NPG 1996-08-84)
Una «ciliegia tra i denti contiene più mistero di tutta la metafisica idealistica» (J. Maritain, Les degrés du savoir, p. 666). L'espressione maritainiana, al di là della sua immediata referenzialità polemica, mi pare suggestiva e provocatoria. La colgo qui come ulteriore sollecitazione ad assumere e a tematizzare l'esperienza cristiana dei giovani.
Questo intervento suppone e dà per acquisita la complessa, articolata e approfondita riflessione elaborata negli studi che precedono. Tre brevi annotazioni indicano la sua collocazione.
- Oltre la fenomenologia.
La molteplicità delle ricerche e la varietà delle analisi (indispensabili come punto di partenza) reclamano e devono condurre ad una ineludibile progettualità: è questa l'attesa, l'urgenza e la sfida di ogni realistico e serio discorso sui giovani (sia a livello culturale che politico e religioso).
- Oltre il conversazionalismo.
Il termine, alquanto ostico, è del Lyotard (cf Note di pastorale giovanile, 1/1992, p. 53). Per molta filosofia contemporanea - afferma il filosofo del post-moderno - tutto si risolve nella conversazione e nella contrattazione. In realtà, precisa, «non si tratta di dissolvere l'opacità e l'alterità a cui è sospesa la nostra esistenza, bensì di renderla testimonianza».
- Oltre l'ovvio.
La cultura dell'omologazione, che assume il già dato, lo scontato, l'ovvio, appunto, è cultura chiusa, senza respiro, senza futuro. «Noi, invece, siamo futuro» (L. Boros). La novità è l'orizzonte della identità umana: l'homo novus è l'homo absconditus chiamato a svelarsi di giorno in giorno, fino alla pienezza. E per i credenti questa pienezza è Gesù Cristo.
Entro tali coordinate, di metodo e di contenuto, mi pare utile qualche rapido cenno (che è soprattutto «memoria») circa i nodi tematici posti a titolo: giovani-comunità ecclesiale-esperienza cristiana.
I NODI DELLA QUESTIONE
I giovani
«Il futuro del mondo e della Chiesa appartiene alle giovani generazioni, che, in questo secolo, saranno mature nel prossimo, il primo del nuovo millennio» (TMA, 58).
Ma che cos'è la giovinezza? Chi sono i giovani? Chi sono questi giovani?
La giovinezza «non è soltanto un periodo della vita corrispondente a un determinato numero di anni, ma è, insieme, un tempo dato dalla Provvidenza a ogni uomo e dato a lui come compito. Durante il quale egli cerca, come il giovane del Vangelo, le risposte agli interrogativi fondamentali; non solo il senso della vita, ma anche un progetto concreto per iniziare a costruire la vita» (Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, p. 147).
Sui giovani molto si è detto, molto si è scritto.
La ricerca che fa da supporto a questo dossier indica molti elementi a cui rimando.
Ai giovani, del resto, il recente Convegno ecclesiale di Palermo ha dedicato uno specifico «ambito» di riflessione. Proprio in questi giorni un'altra ampia indagine in particolare circa gli adolescenti viene pubblicata da Famiglia Cristiana (n. 2/1996).
Qui basti richiamare quanto si è detto in un documento della CEI (Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 44): «Il mondo dei giovani vive e sperimenta, con intensità tutta particolare, le contraddizioni e le potenzialità del nostro tempo. Subendo le forti pressioni della società dei consumi, non di rado i giovani si mostrano fragili e incostanti, incapaci di dare un senso al proprio vivere, prigionieri del 'tutto e subito', spinti talvolta verso forme di emarginazione psicologica, sociale ed economica.
Anche dal punto di vista dell'evangelizzazione assistiamo al crescere di fenomeni come l'indifferenza e la difficoltà di accedere all'esperienza di Dio, oppure la forte soggettivazione della fede e l'appartenenza ecclesiale condizionata, nonché una sorta di endemico deperimento del consenso intorno ai principi etici.
Ma, nonostante il diffuso disagio giovanile, a volte manifesto, altre volte soffocato, i giovani esprimono anche oggi le attese dell'umanità e portano in sé gli ideali che si fanno strada nella storia: il rispetto della libertà e dell'unicità della persona, la sete di autenticità, un nuovo concetto e stile di reciprocità nei rapporti fra uomo e donna, il riconoscimento dei valori della pace e della solidarietà, la passione per un mondo unito e più giusto, l'apertura al dialogo con tutti, l'amore per la natura...».
La comunità ecclesiale
È ormai convinzione diffusa - almeno sul piano teorico - che il soggetto adeguato dell'azione pastorale, di ogni azione pastorale, è la comunità ecclesiale. Questa «soggettività» deve ancora maturare, deve assumere il suo volto concreto, deve esprimersi in protagonismo corale. La comunità ecclesiale è, allora, spazio vitale e contesto fecondo per la crescita dei credenti in un percorso continuo e organico di maturazione, di testimonianza e di missione. I giovani non sono «ospiti» della comunità ecclesiale; le esperienze giovanili non sono «l'altra faccia» della comunità ecclesiale; le comunità ecclesiali non sono monopolio riservato di categorie cronologiche e sociologiche. Una comunità a «pelle di leopardo», ancorché folclorista, non può dirsi comunità ecclesiale.
È da una cattiva e inadeguata visione ecclesiologica delle comunità che hanno origine, poi, i gravi problemi dell'appartenenza, della condivisione, della progettualità. Ci sono rischi e riduzioni che minacciano continuamente la vita e l'azione delle nostre comunità ecclesiali. Ne ricordiamo alcuni.
L'anonimato
Una sorta di «fondamentalismo» sembra spesso condizionare l'essere e l'agire delle Chiese, la «localizzazione» è disattesa; manca il radicamento nel territorio; le scelte e i piani pastorali sembrano scivolare sui problemi reali. Allora il quadro comunitario resta indefinito, generico, astratto: i tratti specifici di un volto reale fanno fatica ad emergere, l'esperienza di Chiesa sembra priva di «corposità». Eppure se il dato della «località» comporta una presenza nella Chiesa locale di caratteristiche di cultura, di costumi, di ambienti, di storia, di comportamenti determinati di una popolazione e di una geografia, l'essere in un territorio o in altro, in un contesto sociale agricolo o industriale, in una zona di espansione produttiva o di crisi economica non può non segnare i tratti specifici della comunità ecclesiale, lì posta come «segno».
La frammentazione
Senza dubbio la coscienza comunionale della Chiesa è cresciuta e il piano pastorale della CEI Comunione e comunità negli anni 80 è stato un forte stimolo al cammino. Ma sarà utile verificare quanto la «comunione» si traduce in «comunicazione» che investe «le ricchezze spirituali», gli operai apostolici e gli aiuti materiali (LG, 13) tra Chiesa e Chiesa. L'esperienza felice realizzata in merito dalla Chiesa dei primi secoli non potrà diventare costume ecclesiale? È infatti innegabile che l'insufficienza di comunicazione reale tra la Chiesa e all'interno delle Chiese favorisce o almeno non disturba le reciproche indifferenze, le incomprensioni di fatto, le separazioni silenziose, le esperienze parallele, le distanze inverificate. Rivisitare i testi di Ignazio di Antiochia, di Cipriano di Cartagine, di Paolino da Nola... sollecita a riscoprire il «tutto nel frammento» e «il frammento nel tutto» e a rinnovare o a reinventare una prassi.
L'evasione
L'apertura al futuro, il respiro universale, l'attesa dell'inedito fanno parte indubbiamente dello statuto della fede cristiana. Non di questo si tratta, qui. Parlando di evasione, si tratta, invece, di avvertire una tentazione diffusa e un pericolo sempre incombente dentro le Chiese locali, da parte dei singoli o di gruppi.
È un sentirsi «altro», un ritrovarsi «altrove» che può anche comportare l'essere «in nessun luogo». Si incontrano così persone, gruppi, movimenti «decontestualizzati» ecclesialmente, quasi «stranieri in patria» quanto a spiritualità e quasi «liberi battitori» quanto a impegno pastorale (G. Scabini).
Ma la Chiesa non è un'astrazione. Vivere la Chiesa è accogliere la concretezza della «carne di Cristo», con il mistero della sua kenosis e con la sua croce, che si svela anche nello scarto tra la povertà della realizzazione e la sovrabbondante ricchezza della comunità dei santi. Vivere la Chiesa è accogliere lo Spirito nella Chiesa e della Chiesa, senza presumere di confinare l'entusiasmo del carisma da una parte e l'opacità dell'istituzione dall'altra. È nella ferialità della vita e nella concretezza dei luoghi e dei tempi che Dio si fa prossimo a noi come salvatore.
Esperienza cristiana
Il concetto di esperienza (e quello di vissuto umano, preso nella sua globalità e integralità) è uno dei più complessi, difficili e discussi della tradizione occidentale» (M. Micheli). Ma alla complessità scientifica della categoria esperienza si accompagna, indubbiamente, la sua attualità e la sua grande forza evocativa.
Essa si presenta come una esigenza psicologica. «Cerco fatti di Vangelo» intitola Luigi Accattoli, vaticanista de Il Corriere della Sera, una sua suggestiva inchiesta sui cristiani in Italia in questa fine di millennio (ed. SEI, 1995).
Essa è una esigenza intellettuale, che muove dalle sfide del trapasso culturale che ha fatto riemergere con forza la domanda sull'uomo. L'esperienza della sofferenza del mondo messa a nudo dal crollo delle risposte presuntuose delle ideologie e resa tragica dalle posizioni negative e rinunciatarie del nihilismo, ripropone con serietà «l'incontro fra l'identità del soggetto storico e il suo limite trascendente, fra il protagonismo dell'uomo e la differenza, che lo misura e lo supera» (B. Forte, L'eternità nel tempo, Ed. Paoline 1993, p. 35).
Essa, inoltre, è anche una esigenza (e una sfida) religiosa. «Il cristiano del futuro - ha scritto K. Rahner - o sarà un 'mistico', vale a dire uno che ha 'sperimentato' qualcosa, o non sarà cristiano».
In sintesi, faccio mio quello che è indicato in altri studi di questo dossier: «Il nucleo centrale dell'esperienza religiosa consiste nella percezione, riflessa e interiorizzata, di essere sostenuti da un fondamento che dà senso e orientamento alla propria esistenza, una ragione (spesso misteriosa e indicibile) che ci costituisce come viventi, proprio nel momento in cui si coglie la limitatezza della propria vita.
Per questo, esperienza religiosa indica l'insieme dei comportamenti (a prevalente natura rituale) e degli atteggiamenti con cui una persona percepisce, in modo sufficientemente riflesso, che ciò che dà senso al suo vivere e operare e consistenza al suo sperare è collocato oltre la propria esistenza quotidiana sperimentabile: un dono sperato e almeno inizialmente sperimentato. Nasce dall'interno del suo mondo soggettivo, perché si tratta di sperimentare ciò che fonda la propria esistenza e ne motiva le esigenze, specialmente di natura etica che l'attraversano. Si sporge però oltre la propria soggettività, perché la persona ha sperimentato quanto sia insufficiente fondare senso e responsabilità solo all'interno del proprio quotidiano vissuto.
Questa esperienza si esprime dentro un contesto culturale religioso molto preciso. Per questo è già connotata (nel nostro caso cristianamente) e, in qualche modo, è resa possibile e sostenuta dalla presenza di testimoni che vivono, secondo precise direzioni storiche, la stessa ricerca e esperienza.
In questa logica, l'esperienza religiosa, non è riducibile ad una delle tante esperienze che riempiono la vita di una persona. Essa rappresenta invece, di natura sua, quasi il tessuto connettivo di tutte le esperienze di vita: quasi una nuova radicale esperienza che interpreta e integra le esperienze quotidiane in un qualcosa di nuovo, fatto di ulteriorità cosciente e interpellante. Per questo, occorre riconoscere all'esperienza religiosa una funzione determinante nella riunificazione di personalità. Essa è significato globale della vita e radice del senso e della speranza che la percorre.
E quanto all'esperienza religiosa cristiana, essa è l'insieme dei modi di credere e delle rappresentazioni (immaginario), dei tipi di rapporto, delle emozioni e dei sentimenti, delle dinamiche motivazionali, dei gesti rituali e dei comportamenti con i quali il cristiano o la cristiana vive e costruisce il suo rapporto con lo Spirito di Dio, creduto e accolto come presente e operante nella propria vita ed azione, e cerca di dar voce e linguaggio a tale vissuto. In breve, è esperienza di comunione di fede, di speranze e d'amore con il Dio di Gesù Cristo ad opera del suo Spirito, vissuta e resa operante con l'attuare il progetto di vita proposto dal vangelo».
LE INTERPELLANZE DEI GIOVANI ALLA PASTORALE
«Dove va il pianeta giovani?» si chiedeva uno studio di commento a un'indagine condotta in Spagna (Settimana n. 23/11 giugno 1995, p. 13).
La domanda continua a risuonare alta ed esigente.
Alle domande è dovere dare delle risposte. Ed è questo un assillo e un compito che interpella la comunità ecclesiale nel suo insieme. Al riguardo bisogna fare appello, con creatività e coraggio, a tutte le risorse.
«Chi dedica le giornate e gli anni a pensare a problemi e progetti di pastorale giovanile, ogni tanto se li sogna anche di notte. Può valere per l'oggi e, forse, per un domani non troppo lontano. Come capita in ogni sogno, gli elementi si confondono e le prospettive sono sovrapposte. Si intrecciano indicazioni già realizzate, di immediata costatazione, e punti che sono molto lontani dall'essere realtà» (R. Tonelli, Note di pastorale giovanile n. 1/1992, p. 27).
Sogno ed esperienza vanno coniugati insieme. Ed è proprio fotografando l'esistente nelle nostre comunità ecclesiali che Sigalini, coordinatore del «Servizio Nazionale CEI per la pastorale giovanile», annota: «Una prima percezione, forse non del tutto dimostrabile con ricerche, rilievi statistici e inchieste, è la sensazione di essere di fronte a una pastorale giovanile a due velocità: da una parte il consolidamento di alcuni elementi indispensabili che costituiscono l'ossatura necessaria, dall'altra il tentativo missionario di proporsi a tutto il vasto mondo giovanile che non incrocia i percorsi parrocchiali. Definisco l'assemblaggio di questi due modelli 'una pastorale a due velocità'. L'immagine fa pensare a un certo scompenso che alla lunga può essere dannoso. Infatti i due momenti possono essere ritenuti alternativi, si salta dall'uno all'altro senza progetto, ci si illude di star bene nell'uno o nell'altro senza confronto e compresenza, si abbandona la formazione per la missione o si ritiene la missione qualcosa che si può fare solo a certe condizioni e in un eterno secondo tempo che non matura mai» (cf Settimana, n. 30, 4 settembre 1994, p. 1).
Queste, e altre pertinenti valutazioni, evidenziano la problematicità e, nello stesso tempo l'urgenza della pastorale giovanile. Ma proprio al riguardo scriveva Juan E. Vecchi per i 25 anni di Note pastorale giovanile: «Forse il concetto medesimo di pastorale giovanile ha bisogno di ulteriore approfondimento. Da non pochi l'aggettivo o genitivo (giovanile, dei giovani) viene annesso al sostantivo pastorale senza onore né incidenza; un capitolo di applicazione, senza differenze sostanziali, all'interno di un trattato generale, l'indicazione di 'materialÈ di un'area o campo di lavoro. Anzi potrebbe pure essere ambiguo in quanto portatore di un giovanilismo che finisce per attribuire protagonismi ad una porzione della comunità o concepisce il soggetto cristiano come diviso in categorie diverse e, nei peggiori dei casi, contrapposte.
Sul versante teoretico l'ambiguità nascerebbe dalla pretesa, dichiarata o nascosta, di modificare lo statuto della pastorale, attribuendo un'importanza indebita alla vita dei giovani» (cf Note di pastorale giovanile, n. 1, 1992, p. 12).
È pertanto, proprio da queste provocazioni che bisogna muovere in profondità e in avanti.
La Chiesa Italiana ha coraggiosamente scelto un impegno organico verso il mondo giovanile, sulla forte spinta di Giovanni Paolo II.
I giovani costituiscono la prima delle tre «vie privilegiate» attraverso le quali il Vangelo della carità - scelta pastorale per gli anni 90 - è destinato a farsi storia tra la gente (cf ETC, nn. 43-46).
A Palermo il «quinto ambito» del Convegno ecclesiale è stato dedicato ai giovani. Al riguardo il card. C. Ruini, Presidente della CEI, nell'intervento conclusivo, ha detto: «Il Convegno ci ha sollecitato a saper offrire particolarmente ai giovani accoglienza nel corpo della Chiesa: un'accoglienza non priva di discernimento ma aperta in maniera sincera e cordiale alle novità che essi portano con sé, anche sul piano culturale. Non ci siamo nascosti le difficoltà che incontra oggi la pastorale giovanile, ma anche qui non abbiamo ceduto al pessimismo: non sono rari, anche tra i giovani di oggi, coloro che hanno paura della mediocrità più che della croce».
In verità la Chiesa italiana ha viva coscienza della sfida che in essa rappresentano i giovani. «Di fronte alla complessità e ai rapidi cambiamenti del mondo giovanile le nostre Chiese corrono il rischio di mostrarsi talvolta incerte e in ritardo. La pastorale giovanile, da realtà pacifica, collegata quasi spontaneamente con i modelli di socializzazione presenti nel nostro contesto culturale, è diventata oggi una realtà in profondo mutamento e alla ricerca di se stessa. Convivono proposte e modelli differenti, alcuni più riusciti ed equilibrati, altri non privi di unilateralità e di carenze. Il compito della trasmissione della fede alle nuove generazioni e della loro educazione a un'integrale esperienza e testimonianza di vita cristiana diventa quindi una essenziale priorità della pastorale» (ETC, 44).
«Una essenziale priorità della pastorale»: ma di quale pastorale si tratta?
UNA PASTORALE GIOVANE
Per delineare un orizzonte di riferimento e articolare impegni di azione, è doveroso muovere da alcune annotazioni di quadro e da qualche specifica sottolineatura.
* La pastorale, nell'ottica del Concilio Vaticano II, è il modo di essere della comunità ecclesiale. È, dunque, la ecclesiologia che la determina e la struttura.
A Palermo è stato detto: «Il cammino di questi ultimi anni spinge nella direzione di un profondo rinnovamento, anzi di una 'conversione pastoralÈ: che significa rilanciare con energia e stile nuovo la pastorale ordinaria e allo stesso tempo dare spazio a forme condivise e profetiche di creatività. L'esigenza unanime è di puntare all'edificazione di una comunità cristiana viva, adulta, accogliente, estroversa» (cf Relazione di P. Coda).
Ma, allora, bisogna, innanzitutto, convertirsi da concezioni inadeguate e riduttive della pastorale, quali:
- un'impostazione organizzativo-funzionale che considera la Chiesa alla stregua di una grande «azienda», nella quale va privilegiata l'efficienza, con l'impiego programmatico delle diverse energie, sullo schema della divisione «sociale» del lavoro;
- un'impostazione clerico-suppletiva secondo la quale la Chiesa è istituzione monopolisticamente clericale. Se e dove il clero diminuisce o è impari ai compiti da assolvere, allora lì si farà spazio ai laici, mediante deleghe, concessioni, supplenze intese a coprire i vuoti;
- omologazione pastorale: è il rischio che porta ad assorbire la pluralità delle esperienze ecclesiali e soprattutto la ricchezza delle realtà associative entro strutture onnicomprensive, dove le identità si scolorano e dove i carismi specifici si spengono.
* La pastorale giovanile, poi, esige anch'essa delle conversioni. Ci sono delle sfasature e delle tentazioni ricorrenti da superare. Ad esempio:
- la marginalizzazione dei giovani: la pastorale qualche volta usa verso i giovani un atteggiamento di tolleranza, di attesa, di sdrammatizzazione, quasi a dire: c'è un passaggio obbligato, che è la giovinezza; aspettiamo che passi e seguitiamo il cammino ordinario della vita;
- il messianismo giovanilistico: è la tentazione opposta che consiste nel vedere l'arco di età giovanile come il mondo dell'autenticità, della libertà, dell'evangelicità.
Conosciamo i grandi valori che l'età giovanile racchiude, ma il messianismo giovanilistico evidentemente non educa i giovani e non fa crescere la realtà che i giovani portano dentro un determinato contesto;
- una terza tentazione è quella della separatezza: la separatezza delle diverse esperienze tra di loro.
Sul piano della prassi quotidiana questo snerva energie che evidentemente non si possono sciupare» (cf L. Chiarinelli, in Note di pastorale giovanile, n. 1, 1992, p. 8).
* Ma a questo punto - per giungere ad una visione più ampia e in positivo - ritengo utile sintetizzare elementi molteplici, ormai largamente maturati.
Non mi soffermo ulteriormente su «costatazioni-compiti-progetti» in dettaglio. Desidero invece riassumere brevemente alcuni simboli, temi e modalità che fanno non tanto una pastorale giovanile o una pastorale per i giovani, ma una pastorale giovane, cioè un modo di essere Chiesa quale i giovani la vivono o la prefigurano o la attendono e nella quale si sentono a casa.
L'aggettivo «giovane» non sta ad indicare solo il destinatario né solo il soggetto della pastorale, ma ne definisce lo statuto e ne determina la qualità.
Luoghi simbolici
La condizione umana è sempre condizione di pellegrinaggio; lo è particolarmente la condizione giovanile (cf A. Napolioni, La strada dei giovani, San Paolo 1994). Oggi, però, il pellegrinaggio è assurto a più lucida consapevolezza. Esso segna questa stagione della storia e connota la vita della Chiesa alle soglie del terzo millennio.
Esso definisce la vita di fede e l'esperienza cristiana che è «sequela» di Cristo e cammino sempre aperto verso una pienezza, quella di «cieli nuovi e terra nuova» in cui avrà stabile dimora la giustizia.
Ebbene, tre luoghi mi sembrano ritmare questo cammino come pietre miliari di una pastorale giovane: Manila, Loreto, Palermo.
Manila
A Manila si è celebrata la X Giornata mondiale della gioventù (10-15 gennaio 1994). Essa rimane il luogo simbolo dell'andare. Manila - ha scritto Sigalini (cf Settimana, n. 1/1995, p. 45) - è un appello a uscire dal mondo ristretto e comodo in cui i giovani si trovano. Non sono fatti per vivere circoscritti. Sono cittadini del mondo, e vivere questa dimensione mondiale è necessario per il loro equilibrio. Nel cuore dei giovani deve battere il cuore di tutti i giovani del mondo.
Per il cristiano il problema non è di come poter vivere al meglio la propria vita, ma di come metterla a disposizione al meglio. È un appello a ricercare sempre più in profondità e ampiezza il senso della vita e il Signore della vita sulle strade che Dio indica e dove decide di farsi trovare».
Matura da qui la voglia di incontro e la disponibilità all'accoglienza, per una società multiculturale, multietnica e multireligiosa. E si colloca in questo contesto la gioia di essere crisitani e di incontrare Gesù Cristo nella sua Chiesa.
Loreto
A Loreto si è concluso il pellegrinaggio dei giovani d'Europa (6-10 settembre 1995) con una solenne veglia e l'incontro entusiasmante con il Papa. Loreto resta il simbolo del condividere. Lì è l'«icona» della casa di Nazareth; lì è il luogo emblematico della famiglia; lì è lo spazio di una esistenza, quella di Cristo, che assume le modalità e i ritmi quotidiani della condizione umana. E lì la condivisione delle tragedie e delle lacrime, la condivisione delle gioie e delle speranze (la «veglia» è stata chiamata Eurhope, Europa della speranza!) ha detto che le energie, le sinergie, dei giovani sono a disposizione per dare un volto nuovo al vecchio continente. In una stagione di frammentazione e di conflittualità è questa linfa giovane della condivisione che abbatte le barriere e ritrova la casa comune della cultura, della democrazia, della esperienza cristiana per configurare una nuova stagione della storia. «In cammino con Maria verso il 2000»: ecco un tracciato giovane della pastorale per ogni Chiesa e per tutta la Chiesa, così come i giovani lo propongono. «Il pellegrinaggio - scrive Sigalini - è diventato un modo intelligente di fare pastorale giovanile» (cf Note di pastorale giovanile, n. 6, 1995, p. 10). Lo sarà se diventa un «simbolo: quello del camminare insieme, della condivisione e dell'aiuto scambievole; quello dell'adattamento e del «sacco» leggero; quello della ricerca che muove verso una meta, che in verità è una Persona.
Palermo è la città del III Convegno ecclesiale d'Italia (20-24 novembre 1995). È una pastorale giovane, luogo simbolo dell'amore all'interno del tema: «Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia». La scelta di Palermo è stata un riconoscimento alla città e al Sud ed è una precisa scelta pastorale.
Due elementi vanno subito evidenziati.
- Questo terzo Convegno della Chiesa italiana segna una stagione che registra una più partecipata consapevolezza del passaggio dal regime di cristianità alla Chiesa missionaria, dalla «semplice conservazione dell'esistente alla missione», come ha detto il Papa.
- Entro il nuovo orizzonte emerge forte l'urgenza, l'attesa, l'attualità del «Vangelo della carità».
Questa nuova situazione - è stato scritto dalla Chiesa palermitana - «impone una nuova attitudine all'amore, secondo le modalità dell'autocoscienza umana e gli strumenti della partecipazione e della corresponsabilità». I giovani questo hanno intuito, proposto, reclamato.
La carità va assunta come segno, come forma, come compito. Per una nuova società c'è bisogno di uomini e donne nuovi. E la radice della novità è proprio quel «comandamento nuovo» che rende nuovi e fa nuove tutte le cose.
Lo spazio della invocazione
Dalla ricerca sull'esperienza religioso dei giovani (cf studio di M. Pollo) emergono alcuni dati che mi pare utile qui richiamare.
Degli intervistati: il 57,1% si dichiara appartenente alla Chiesa; il 46% ha un ricordo abbastanza positivo del catechismo (24,1% né positivo né negativo; 15,2% abbastanza negativo); il 34% ricorda in modo piacevole la prima Comunione; il 31,3% la Cresima; il 40,2% ritiene l'esperienza della comunità cristiana come autentica testimonianza (ma il 34,8% ha dei rimproveri da fare alla Chiesa e il 35,7% ai sacerdoti).
Se colleghiamo i risultati di questa «ricerca» di settore con quelli delle «indagini» condotta dall'Università Cattolica del S. Cuore (cf V. Cesareo, R. Cipriani, F. Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, La religiosità in Italia, Mondadori 1995) a proposito delle ragioni per cui oggi si crede, non si può non convenire su alcune urgenze ineludibili in ordine alla educazione della fede in una autentica esperienza cristiana.
- Dare «il senso» del credere. Alle giovani fasce di «credenti», tanto diversamente motivate, è necessario offrire come impegno prioritario e azione sistematica «la ragione» del credere, cioè il significato di fondo, il valore globale, la portata essenziale della fede. È solo a partire da questa «risignificazione» che si ristabilirà un rapporto corretto anche con l'esperienza sacramentale e con la dimensione morale della fede.
- Offrire «le ragioni» del credere. Ad una religione «disancorata dal concetto di verità» (Garelli) si deve far fronte con una intelligente e puntuale rimotivazione della fede. Forse è la stessa crisi del «concetto di verità» che sollecita alla «verità del credere». Si colloca qui l'impegno alla inculturazione della fede ed è questo il nodo cruciale per superare la scissione tra fede e vita e uscire da un generico sentimento religioso o da un facile relativismo confessionale.
- Far riscoprire «la novità» del credere. Il «perché non possiamo non dirci cristiani» (Croce) può definire la ovvietà, il già visto, lo scontato e, pertanto, il desueto e il superfluo della concreta vicenda delle persone e della viva dinamica socio-culturale del Paese. Ciò, però, non ha nulla da dire ai giovani. La fede in Gesù Cristo è novità; a novità essa chiama le persone e la società; nuovo è il dinamismo che apre alla speranza verso «cieli nuovi e terra nuova». È necessario, dunque, che il messaggio riacquisti freschezza nella sua presentazione e attualizzazione e si ristabiliscono «giovani legami» (I. Mancini) tra Vangelo e cultura.
È dentro queste coordinate, a mio avviso, che si dischiude lo spazio dell'invocazione. Essa, l'invocazione, è categoria suggestiva, segno e rivelazione che «l'uomo supera l'uomo» (Pascal). È «cifra» della condizione umana: l'uomo non è mai pari con se stesso. «L'invocazione - annota Tonelli - è una esperienza di confine. Essa è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, alla ricerca delle buone ragioni di ogni decisione e scelta importante. Nello stesso tempo, essa è già esperienza di trascendenza, sporgenza verso il mistero dell'esistenza».
In verità - e mi è caro qui ricordare l'antica lezione di Italo Mancini - l'invocazione misura la distanza tra il reale e l'ideale; essa è il sospiro dell'infinito che è nell'uomo; è l'aprirsi alla trascendenza.
L'invocazione è uscita dalla «parità» ed è il superamento della «indifferenza», così poeticamente tematizzata da A. Camus. Ed è l'invocazione che ci dice:
- l'uomo non basta a se stesso;
- nessun uomo è un'isola;
- noi siamo futuro.
Educarsi ed educare all'invocazione è affidarsi al mistero: è, cioè, «radicare la condizione irrinunciabile per vivere una matura esperienza religiosa e cristiana», giacché - come osserva Tonelli - proprio per «diventare adulti, scopriamo la necessità di diventare bambini».
Scelte culturali
«La cultura è un terreno privilegiato nel quale la fede si incontra con l'uomo», ha detto il Papa al Convegno ecclesiale di Palermo. In una stagione così complessa e frammentata, in un contesto di post-modernità, in questo snodo di storia che apre al terzo millennio occorre che il cammino sia accompagnato da modi di porsi che, in sede teorica e pratica, esprimono la essenzialità della proposta cristiana. Lungo questi sentieri dovrà muovere una pastorale giovane.
Il primato dell'essere
È rilevazione sociologica comune e condivisa che nella presente stagione tenda a prevalere e di fatto prevalga l'apparire, la esteriorità, l'immagine. Ed è parimenti vivo e diffuso il bisogno dell'autentico, l'attesa del vero. Ciò soprattutto per quanto concerne la persona umana. Ed ecco la rivendicazione del primato dell'essere sull'avere; ecco la proclamazione che l'uomo vale per quello che è, più che per quello che ha o fa o dice. L'uomo, ogni uomo, è persona: nella sua originalità, nella sua singolarità, nella sua irripetibilità. La tematizzazione di questo dato irrinunciabile della fede costituisce un nodo essenziale del magistero di Giovanni Paolo II ed è la frontiera di ogni progetto sociale, civile, politico. Anche la pastorale di oggi e di domani deve ridare il primato all'essere. Deve cioè toccare la persona e, nella concreta prassi ecclesiale, ricentrarne il valore e il ruolo, oltre le schematizzazioni di comodo, oltre gli stereotipi socio-culturali. La centralità e il primato della persona nell'azione pastorale metterà fuori gioco i modelli organizzativo-funzionali; farà evitare i rischi, sempre ricorrenti, della massificazione, dell'anonimato o anche dei «cristiani seriali», esorcizzerà la tentazione manageriale nella vita ecclesiale. Questa pastorale educherà tutti, senza discriminazioni, allo stare insieme, ma come persone, sul modello della Trinità santa (cf LG 47).
L'ecumenismo della vita
Il termine «ecumenismo», anche oltre la sua specifica accezione, qui sta ad indicare un atteggiamento dello spirito. Esso, infatti, a partire dal Vaticano II e passando per l'incontro interreligioso di Assisi (27 ottobre 1986), sfida tutta la prassi ecclesiale. Per «ecumenismo della vita» intendiamo «la interiore conversione», cioè il rinnovamento della mente, l'abnegazione di sé, il pieno esercizio della carità, come si esprime il decreto conciliare Unitatis Redintegratio (n. 7) e cioè l'atteggiamento dell'attenzione, del dialogo, dell'accoglienza.
Nello scenario delle conflittualità crescenti e di facili emarginazioni, l'ecumenismo della vita significa farsi carico dei poveri, dei deboli, dei lontani, dei differenti. La verità diventa carità; la libertà si fa servizio.
«Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero» (1 Cor 9,19). «Mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). Così S. Paolo. E Giovanni Paolo II a Loreto nel 1995 dopo aver sottolineato la «coscienza di verità» come fattore essenziale del dinamismo missionario aggiungeva: «Mentre nell'epoca moderna l'affermazione della verità, per note ragioni storiche, è stata spesso considerata come ostacolo alla pacifica convivenza tra gli uomini, quasi che questa potesse essere fondata soltanto su basi relativistiche, e mentre le ideologie effettivamente dividono e contrappongono gli uomini, la verità di Cristo domanda di essere realizzata nell'amore, per condurre in tal modo alla fraternità. Nella sua essenza profonda essa è, infatti, manifestazione dell'amore, e solo nella concreta testimonianza dell'amore può trovare la sua piena credibilità. Perciò le comunità cristiane sono chiamate ad essere luoghi in cui l'amore di Dio per gli uomini può essere in qualche modo sperimentato e quasi toccato con mano. La sete di autenticità che, proprio a causa della presente 'cultura del sospetto', è particolarmente viva nel cuore degli uomini, rende acuta l'esigenza di simili comunità: esse appaiono la via maestra per ricondurre il nostro popolo all'appartenenza piena alla Chiesa e all'adesione integrale alle verità della fede» (Alloc., n. 5). Queste comunità saranno per i giovani luoghi autentici di esperienza cristiana!
La gradualità della compagnia
Il mondo è chiamato ad essere casa abitabile per tutti: la convivenza umana ha per fine la giustizia nella pace; la Chiesa si definisce essenzialmente comunione.
Eppure... La solitudine è presente in mezzo alla folla: l'isolamento, la separazione, l'antagonismo segnano oggi particolarmente la vita delle persone e minacciano le stesse basi della comunità umana. I giovani ne fanno drammatica esperienza.
Contemporaneamente la interdipendenza diventa «sistema dominante» delle relazioni nel mondo contemporaneo sia sul piano economico che su quello culturale, politico, religioso (Giovanni Paolo II, Sollecitudo rei socialis, n. 38).
Ecco un'altra sfida all'azione pastorale della Chiesa.
«Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro» (Lc 24,15). Da allora Gesù cammina, vuol camminare sempre con l'uomo. Lo accompagna; si fa compagnia «Termine questo - dice una nota pastorale della CEI - eucaristico come pochi (cum e panis), perché l'eucaristia è precisamente condivisione dello stesso pane» (Il giorno del Signore, 15 luglio 1984, n. 17).
È la pastorale della solidarietà come «virtù», come modo di essere, come comportamento abituale. Solidarietà che «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine e lontane... È la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (Giovanni Paolo II, Sollecitudo rei socialis, n. 38).
Di tutto questo la comunità ecclesiale deve diventare scuola e soggetto significativo. Se disattendiamo questa grande lezione che viene direttamente dal Cristo, in che cosa consisterebbe il «farsi prossimo» che ci viene richiesto?
È in questa compagnia offerta e accettata che troveremo la capacità e i modi per svelare - come Gesù sul sentiero di Emmaus - il senso pieno dello sperare e del vivere.
È in questo «contesto vitale» che i giovani riscopriranno i valori del bene comune: della tolleranza, della solidarietà, della giustizia sociale, della corresponsabilità.
Ritroveranno fiducia nel progettare insieme il domani, nella linea di una pacifica convivenza interna ed una aperta cooperazione in Europa e nel mondo.
Ed avremo la forza di affrontare i sacrifici necessari, con un nuovo modo di vivere (cf CEI, La Chiesa Italiana e le prospettive del Paese, n. 6).
È compito urgente e impegnativo. È soprattutto risposta reale a problemi e ad attese reali.
Logiche perverse sovrintendono e innervano ampi spazi del tessuto sociale: individualismo e concorrenzialità, antagonismi settoriali e corporativi, meccanismi di emarginazione e cultura del successo ad ogni costo.
A fronte, però, matura il bisogno di resistenza morale: sorgono vere folle di volontari; prende corpo la voglia di fraternità dinanzi alla violenza e agli egoismi, comunque camuffati.
Camminare insieme e vivere la gratuità è la condizione indispensabile e il messaggio da tutti comprensibile per una maturazione e autenticazione dell'esperienza cristiana.
Per camminare ancora...
- In Varcare la soglia della speranza, nel capitolo dedicato ai giovani, Giovanni Paolo II afferma: «I giovani e la Chiesa. Riassumendo, desidero sottolineare che i giovani cercano Dio, cercando il senso della vita, cercano le risposte definitive: 'Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?' (Lc 10,25). In questa ricerca, non possono non incontrare la Chiesa. E anche la Chiesa non può non incontrare i giovani. Occorre soltanto che la Chiesa abbia una profonda comprensione di ciò che è la giovinezza, dell'importanza che riveste per ogni uomo. Occorre anche che i giovani conoscano la Chiesa, che scorgano in essa Cristo, il quale cammina attraverso i secoli con ogni generazione, con ogni uomo. Cammina con ciascuno come un amico. Importante nella vita di un giovane è il giorno in cui egli si convince che Questo è l'unico amico a non deludere, sul quale può sempre contare».
Come favorire e garantire questa esperienza?
- È stato detto al Convegno di Palermo: «Occorre ripensare a fondo l'impegno della comunità cristiana a livello educativo, riscoprire il carattere prioritario di un'animazione e educazione delle giovani generazioni. Si tratta - anche in questo caso - di creare condizioni di incontro, facilitare le interazioni, ricostruire tessuti e relazioni sociali, sui quali fondare una proposta di impegno e di riflessione più ampia. Si tratta di interpellare i giovani con proposte significative, ampliare i loro quadri di riferimento, rispondere ai bisogni allargando le attese, suscitare in essi passioni e interessi. Solo così si realizzerà quella prevenzione del disagio che risulta nella nostra società più chiacchierata che attuata» (F. Garelli, Relazione).
- Se questo accadrà la comunità cristiana avrà consegnata la sua esperienza alle giovani generazioni e questa diverrà anche la loro esperienza. Così come è scritto in un racconto dei Chassidim che mi è caro consegnare come ricordo e come speranza.
«Il Baal Shem Tov commentò la frase: 'Dio nostro e Dio dei nostri padri'. Egli disse: Alcuni hanno fede perché i loro padri gli insegnarono a credere. Da un lato questo è buono: nessun ragionamento filosofico farà loro perdere la fede; dall'altro non è buono, perché la loro fede non proviene dalla loro esperienza.
Altri giungono alla fede con convinzione dopo una ricerca intellettuale. Questo è buono in un senso: essi conoscono Dio intellettualmente, ma in un altro senso non è buono: se altri studiosi dimostrano la fallacia dei loro ragionamenti, essi possono perdere la fede.
I migliori credenti sono coloro la cui fede resiste a tutte le prove: essi credono in base a quello che gli è stato trasmesso dai loro padri attraverso il ragionamento, ma soprattutto attraverso la propria esperienza.
Questo è ciò che intendiamo quando diciamo: 'Dio nostro e Dio dei nostri padri'. Il Signore è nostro Dio, sia perché noi sperimentiamo che egli è il nostro Signore, sia perché i nostri padri ci hanno insegnato a credere che egli è Dio».