Giovani, psicologia ed esperienza religiosa


Eugenio Fizzotti

(NPG 1996-08-27)


È sempre più attuale l'ambito della religiosità nei suoi molteplici risvolti e nei suoi riferimenti alle varie fasi dell'esistenza. Ne sono eloquente testimonianza le pubblicazioni specialistiche e divulgative, le ricerche sul campo, le indagini comparative, i tentativi di inquadramenti teorici. Da parte loro, gli educatori, e i genitori in prima istanza, avvertono sempre più l'esigenza di comprendere e valutare nella sua complessità l'esperienza religiosa, così da verificarne la fondatezza e rapportarla ai vari dinamismi di crescita e di maturazione. Sembra allora opportuno offrire una panoramica delle prospettive che, dal punto di vista psicologico, in questi ultimi anni si sono aperte a proposito dell'interpretazione dell'esperienza religiosa in generale e dei giovani in particolare, così da permettere quell'indispensabile analisi pluridimensionale da cui far scaturire nuovi ed originali interventi educativi.

Come la psicologia parla di esperienza

Per esperienza si intende la componente sensibile dell'atto conoscitivo. In psicologia il termine ha due significati, che sono relativi da un lato all'organizzazione scientifica dell'osservazione, e quindi in una prospettiva che risulta essere prevalentemente esterna, e dall'altro all'intuizione diretta dei contenuti emozionali, con un punto di vista specificamente interno.
Il concetto di esperienza allora va assunto in modo biunivoco, molto più esplicitato nella lingua tedesca: come Erfahrung (letteralmente = «percorrere» le modalità con cui il fenomeno di volta in volta si presenta), e come Erlebnis (letteralmente = «vissuto» con un riferimento ai fenomeni che si presentano dall'interno).
E poiché il fenomeno psichico è polarizzato sia verso l'interno del vissuto soggettivo, sia verso l'esterno a cui si riferisce l'azione del soggetto rivolta a un oggetto, sarà necessario, per una sua comprensione integrale, un doppio criterio esperienziale: uno rivolto all'azione e al materiale oggettivo (esperienza come Erfahrung), e uno rivolto al vissuto soggettivo (esperienza come Erlebnis).
La prima forma di esperienza trova la sua espressione nella psicologia sperimentale, dove il fenomeno psichico è osservato dal punto di vista oggettivo, quantitativamente misurabile secondo scale omogenee, in una sequenza di ripetibilità e con procedimenti causali e non finalistici. In tale prospettiva si hanno la conoscenza, la percezione, la memoria, il pensiero, l'apprendimento, che sono verificabili sul piano oggettivo e non per il significato che assumono per il soggetto che ne fa esperienza.
La seconda forma di esperienza riveste l'aspetto affettivo del fenomeno psichico e mette in evidenza il senso che questo assume per il soggetto. Come tale si tratta di un'esperienza qualitativa, irripetibile, processuale o dinamica, leggibile più in chiave di finalità che di causalità. E poiché il vissuto varia da soggetto a soggetto, è possibile sia una comparazione trasversale, mettendo a confronto diversi soggetti in condizioni più o meno simili, sia una comparazione longitudinale, in relazione alla diversificazione dell'esperienza nel corso dello sviluppo psichico dello stesso soggetto.

Come la psicologia parla di esperienza religiosa

Occorre, a questo punto, domandarsi cosa si può dire dell'esperienza religiosa dal punto di vista psicologico.
Secondo William James l'esperienza religiosa costituisce l'insieme delle tendenze religiose dell'uomo in quanto fatti di coscienza: i sentimenti e gli istinti religiosi, la solennità delle reazioni, la sensazione della presenza divina, la pace oceanica, l'ottimismo, l'equilibrio mentale, e simili (James 1904).
Per Antoine Vergote, invece, l'esperienza religiosa consiste nel sentirsi presi dal «sacro» in modo immediato, prevalentemente a livello affettivo: è il contatto immediato con la sfera del divino e costituisce quel movimento religioso involontario, che pone l'uomo davanti al mistero della totalità in cui è immerso, la quale lo interroga e lo induce a porsi il problema del significato della propria esistenza (Vergote 1979, 1985).
Per Erich Fromm religione è ogni sistema di pensiero e d'azione, condiviso da un gruppo, in cui l'individuo trovi orientamento e insieme un oggetto di devozione; il che vuol dire che nessuno è privo del bisogno religioso, anche se i mezzi con i quali soddisfarlo possono essere diversi dalle molteplici espressioni delle forme religiose tradizionali, le quali d'altra parte possono anche servire come una vernice che camuffa la sottostante religione primitiva e nevrotica (Fromm 1987).
Per Abraham Maslow, fondatore della psicologia umanistica, l'esperienza religiosa coincide con quei momenti di estasi nei quali un soggetto si sente una sola cosa con l'universo, in cui l'apertura, la creatività e la spontaneità sono fortemente intense e in cui si avverte una profonda unificazione interiore, una grande armonia con il tutto (Maslow 1971).
Per Viktor E. Frankl, caposcuola della logoterapia e analisi esistenziale, la fede religiosa, ultimamente, è fede in un significato superiore, un atto di fiducia radicale nel sovrasignificato, il che comporta una concezione della persona fondamentalmente libera, capace di aprirsi alla realtà circostante con atteggiamento di autotrascendenza, responsabilmente orientata alla comprensione e alla realizzazione del compito unico e irripetibile avvertito come dono (Frankl 1990, 1994).
È chiaro allora che nell'esperienza religiosa sono compresenti, sia pure con modalità e intensità diverse, tanto l'esperienza di un atto (è il soggetto stesso che pone la realtà stessa dell'esperienza), quanto l'esperienza di un'azione subita (il che è passivo e non personale) e l'esperienza dell'accoglienza (essa è assunta da un atto libero).
Ciò vuol dire che essa coinvolge e integra gli aspetti più importanti della persona per cui si presenta come strutturata e nello stesso tempo trascendente.

LA RELIGIOSITÀ COME PROCESSO PSICOLOGICO

Negli ultimi cinquant'anni sono state condotte numerose ricerche, da parte di psicologi della religione, per concettualizzare e misurare l'esperienza religiosa, nella convinzione che essa non è riducibile a una sola dimensione, ma comporta un ampio e articolato spettro di dimensioni. Gli studiosi, infatti, sono concordi nel rilevare che, quando la religiosità viene studiata come un fenomeno tra tanti altri possibili e con pochi strumenti di misurazione, l'analisi fattoriale fa emergere una sola dimensione. Quando, invece, l'analisi viene condotta con una gamma articolata di strumenti, emergono più dimensioni che, fondamentalmente, è possibile raggruppare attorno a tre nuclei: sistema di convinzioni e di motivazioni, coinvolgimento emotivo, ritualità e organizzazione sociale.
Ad ogni modo, però, va ricordata la precarietà di tali dimensioni nel rendere ragione della religiosità nel suo complesso. È possibile, infatti, come sostiene Wulff, che «gli individui potrebbero essere attivi in organizzazioni religiose non come espressione autentica della loro fede religiosa, ma solo come ricerca di amicizia, di contatti sociali, di prestigio, di affermazione del proprio sistema di valori [...]. Viceversa, la stessa assenza di tali indicatori va interpretata con ambiguità: persone profondamente religiose, infatti, potrebbero non esibire nulla di tutto ciò» (Wulff 1991, p. 204).

Religiosità intrinseca e religiosità estrinseca

Gordon W. Allport, padre della psicologia della personalità all'Università statunitense di Harvard, ha individuato, ad esempio, fondamentalmente due poli: uno estrinseco ed uno intrinseco, tra cui si snoda, in un continuum ininterrotto, il sentimento religioso.
Il polo estrinseco caratterizza una religiosità vissuta come mezzo da usare per le più svariate finalità: migliorare la sicurezza in se stessi o il proprio status sociale, regolare una certa modalità di vita, raggiungere un qualunque scopo. Con tale orientamento le persone sono disposte a usare la religione per i loro fini e il credo abbracciato viene mantenuto spensieratamente o elaborato in maniera selettiva per farlo combaciare con i propri bisogni primari. «In termini teologici la persona estrinsecamente religiosa si rivolge a Dio pur senza distogliersi dal proprio io [...]. In termini motivazionali il sentimento religioso estrinseco non è un motivo conduttore o integrale. Ne soddisfa altri: i bisogni di sicurezza, d'affermazione sociale, d'autoestimazione. In termini di psicologia dello sviluppo la formazione è immatura» (Allport 1985, pp. 274-275).
Nel polo intrinseco, invece, secondo il quale la fede ha valore in sé, trascende gli interessi individuali e comporta sacrificio e impegno, la religione rappresenta il motivo principale della vita, al quale vengono subordinati tutti gli altri interessi. Ne segue che la religiosità «non è fondamentalmente un artificio per vincere la paura, o una modalità di conformismo, o una tentata sublimazione del sesso, o un appagamento di desideri [...]. È una tensione ed un impegno ad un'unificazione ideale della propria vita, ma sempre all'insegna di una concezione unificante della natura di tutta l'esistenza» (ibidem, p. 276).

Religiosità a cinque dimensioni

Sempre negli Stati Uniti, Charles Y. Glock e Rodney Stark hanno individuato cinque dimensioni che vengono ritenute centrali nell'atteggiamento religioso e permettono di superare differenze sia dottrinali che comportamentali (Glock-Stark 1965, pp. 30-32; 1970, pp. 14-21).
La prima dimensione, quella esperienziale, comprende sensazioni, percezioni ed emozioni, proprie di un individuo o di un gruppo, che rafforzano delle intuizioni o delle rivelazioni, rendono sensibile il rapporto con il divino e ne fanno avvertire gli interventi mediante eventi straordinari, pongono in evidenza un senso di benessere legato alla ricompensa promessa o un senso di disagio in conseguenza di una punizione prospettata.
La dimensione ideologica, invece, è costituita dall'insieme di aspettative che il credente ritrova nei contenuti di fede, che varia sia da religione a religione che all'interno della stessa tradizione di fede, e che fonda l'adesione a una specifica prospettiva teologica. Alla luce di tale dimensione il soggetto è anche in grado di riconoscere la validità e l'attendibilità delle varie credenze religiose.
La terza dimensione, che è quella ritualistica, concerne le pratiche religiose che il credente è chiamato a compiere e che riguardano il culto, l'adorazione della divinità, la preghiera o la partecipazione ai sacramenti. Essa può presentarsi come pratica rituale, se si riferisce a riti cui sottoporsi necessariamente per poter definire la propria appartenenza, oppure pratica devozionale, se ha come oggetto le pratiche religiose informali, spontanee e private.
La successiva dimensione, quella intellettuale, si riferisce a quel minimo di informazioni circa le credenze basilari della propria fede e dei propri riti grazie a cui il soggetto può far fronte alle esigenze di confronto che con sempre più frequenza gli vengono presentate da messaggi e opinioni di fonte diversa, per così rispondere alla necessità di un corredo culturale che dia dignità e spessore significativo al proprio sistema di convinzioni. Ovviamente, ciò non vuol dire che dalla conoscenza scaturisca automaticamente la fede, né che quest'ultima porti alla conoscenza: è infatti possibile che un credente sia poco informato sui contenuti della sua fede, pur accettandola pienamente e vivendola attivamente.
La dimensione consequenziale, infine, si identifica con gli effetti che sono riscontrabili nella vita quotidiana, nelle decisioni esistenziali, nella disponibilità al servizio degli altri, nel rispetto e nell'attuazione di norme morali, nell'accoglienza di prescrizioni e di comportamenti socialmente accettabili.

Religiosità ortodossa e religiosità devozionale

Muovendosi sulle medesime coordinate, ma integrandole e in parte rivedendole, Gerhard Lenski ha indagato i diversi orientamenti religiosi che sono presenti nel mondo giudaico-cristiano, ponendo in risalto anche il grado di impegno individuale che è presente nelle attività socio-religiose. In un primo momento egli ha individuato la presenza sia di un orientamento dottrinale notevolmente ortodosso, che enfatizza il consenso intellettuale e richiama una forma di passività e di intellettualismo religioso, sia di un devozionalismo che mette al primo posto la comunione privata e personale con Dio e quindi rappresenta un aspetto attivo e comportamentale della religiosità (Lenski 1961, pp. 24-25).

Religiosità partecipativa e religiosità interattiva

Passando poi alle misure con le quali è possibile cogliere il grado di coinvolgimento individuale in ambito religioso, lo stesso Lenski (1961, p. 26) vede da una parte una partecipazione di tipo associativo ai servizi religiosi comunitari e, più specificatamente, alle attività istituzionali, e dall'altra un'interazione che avviene all'interno del gruppo primario (famiglia e amici), ossia di coloro che condividono un comune patrimonio religioso e culturale.

Religiosità consensuale e religiosità impegnata

Ulteriori indagini, effettuate da Robert O. Allen e Bernard Spilka, hanno permesso di specificare due variabili socio-psicologiche che appaiono coinvolte nella dinamica religiosa e che determinano due tipologie: quella della religiosità consensuale e quella della religiosità impegnata.
La prima rimanda immediatamente all'adesione alle forme istituzionali accettate socialmente e, di conseguenza, ad un atteggiamento neutrale e distaccato dalla vita quotidiana, con l'enfatizzazione di tratti letterali della fede e forme di credenza vaghe e intolleranti. La seconda, invece, si identifica con valori e atteggiamenti interiorizzati che permeano le azioni quotidiane e sono profondamente radicati in principi astratti e in un sistema di fede accurato, uniforme, ben organizzato, in cui ampio spazio è lasciato alla diversità e alla tolleranza (Allen-Spilka 1967, p. 205).

NUCLEI SIGNIFICATIVI DELLA RELIGIOSITÀ

Dall'insieme delle ricerche effettuate e dalle applicazioni che molti altri studiosi ne hanno fatto in contesti culturali diversi e differenziati, emergono tre punti particolarmente significativi:
- è ampiamente confermata la natura multidimensionale della religiosità e la presenza in essa di numerose variabili, nonostante il legame con i diversi modelli interpretativi disponibili;
- i nuclei caratterizzanti riguardano il sistema di convinzioni e di motivazioni esistenziali, il coinvolgimento emotivo e la ritualità in un concreto contesto socioculturale;
- la dimensione consequenziale, di tipo sia morale che sociale, viene considerata piuttosto una variabile dipendente che non una parte integrante del concetto di religiosità, in quanto le conseguenze sociali e morali derivano dal fenomeno religioso, ma non lo costituiscono.
È allora possibile indicare cinque direttrici, lungo le quali lo studio psicologico della religiosità deve snodarsi: si tratta della dimensione emotiva, di quella sociale, di quella rituale, di quella conoscitiva e di quella motivazionale-esistenziale. Ognuna di esse, con lo specifico che le appartiene, permette di comprendere e di contestualizzare l'atteggiamento religioso nell'insieme dell'esistenza e di verificarne il grado diverso di interiorizzazione e di assimilazione in riferimento al livello di sviluppo cognitivo e sociale del singolo soggetto e al mondo culturale cui appartiene.

Religiosità ed emotività

L'emotività, ad esempio, fa sì che una scelta di fede venga considerata come elemento di benessere psicologico e come forza rassicurante.
Essa, inoltre, suscita sentimenti di timore e di tremore, ma anche di fascino e di entusiasmo. Ugualmente permette al soggetto di incanalare le sue tendenze nella linea della crescita, consentendogli una discriminazione con ciò che risulta essere disturbante o controproducente.
Nello stesso tempo, però, può dar origine a inibizioni automatiche che impediscono di guardare con atteggiamento sereno e distaccato le varie provocazioni che vengono dalla realtà in cui si è immersi (Fizzotti 1992b).

Religiosità e mobilitazione di energie

L'aspetto operativo o consequenziale costituisce anch'esso un elemento non trascurabile: è esso, infatti, a mobilitare le energie, a favorire la partecipazione a riti e cerimoniali di vario genere, a orientare il soggetto verso l'appartenenza a un gruppo, a un movimento, a un'istituzione.

Religiosità e contesto socioculturale

Un elemento che risulta oggetto di particolare attenzione è quello socioculturale, grazie al quale la scelta di fede viene collegata ai valori contenuti in un preciso contesto storico, alle tradizioni che, con modalità spesso diverse, vengono tramandate di generazione in generazione, al confronto sempre più massiccio con proposte religiose diverse in una dinamica non solo interreligiosa ma addirittura interculturale.

Religiosità e sistema di convinzioni

Un altro ambito che risulta stimolato in maniera significativa dalla religiosità è quello conoscitivo, che non si riferisce ovviamente alla quantità di informazioni nuove che è possibile acquisire, ma alla possibilità di organizzare in maniera coerente e logica le varie sfaccettature del proprio cammino di crescita grazie all'assunzione critica di proposte che chiedono di essere spiegate, fondate e giustificate. Credere comporta, infatti, una continua messa in discussione del proprio sistema di convinzioni, grazie soprattutto allo scontro con un'evidenza di fatti spesso fragili, incongruenti, carichi di tragedia e di interrogativi.
- Nei luoghi di culto, specie in quelli più famosi per apparizioni avvenute o per miracoli riconosciuti, la presenza di vissuti traumatici (incidenti che portano all'immobilità, menomazioni congenite che creano totali dipendenze, ritardi nella crescita sia a livello fisico che a livello psichico) può, infatti, tradursi nel rifiuto, se non proprio nella negazione, della divinità.
- La scoperta, talvolta anch'essa traumatica, di traffici economici e di commercio esasperato di oggetti devozionali sui quali vengono convogliate malcelate attese di guarigioni, può facilmente essere collegata all'ipocrisia e all'insufficienza palese della religione istituzionalizzata e dei suoi rappresentanti ufficiali, con la conseguenza che non ha senso credere in un Dio che non è capace, come invece vorrebbe far credere, di cambiare il cuore e la mente di chi gli sta più vicino.
- Così come lo scoprire che le sacche di povertà continuano ad essere i luoghi privilegiati dell'esperienza religiosa, delle apparizioni e dei messaggi celesti potrebbe far pensare che in fondo Dio non sarebbe altro che il meglio di sé che l'uomo continua a proiettare sulla tela vuota dell'universo, un ideale, quindi, creato di volta in volta per rispondere alle molteplici esigenze del contesto culturale in cui vive e per sottrarsi ai pesanti condizionamenti della storia.

Religiosità e sistema motivazionale

Un'ampia gamma di sfaccettature è presente, infine, nell'aspetto motivazionale, dal quale dipendono la direzione e l'intensità della condotta di un soggetto: è la motivazione, infatti, che inizia, orienta e sostiene nel tempo la ricerca di risposte adeguate agli interrogativi circa il senso della propria esistenza, facilitando nello stesso tempo una selezione progressiva tra le varie ipotesi prospettate.
- Per alcuni fare un'esperienza religiosa vuol dire andare alla ricerca di risposte rassicuranti dinanzi alle frustrazioni dovute sia all'inibizione prodotta dalla società, sia all'inesorabile legge del destino e della morte, sia alla fatalità legata a una natura cattiva e malefica.
- Per altri rappresenta il tentativo di difendere, attraverso l'incoraggiamento del gruppo di appartenenza, un sistema di comportamenti e di scelte morali che sembrerebbe minacciato in un contesto sociale che annulla o stravolge tutti i valori che in precedenza garantivano e custodivano l'umanità.
- Per altri ancora è una risposta alla curiosità intellettuale che, mai sufficientemente appagabile né appagata, vorrebbe individuare le risposte precise sul da farsi nel concreto di ogni giorno, oppure cercherebbe elementi di sostegno e di conforto a proprie personali ipotesi interpretative, siano esse a favore o contro l'intervento del divino.
- Non mancano poi coloro che nell'esperienza religiosa cercano un rifugio dinanzi all'angoscia che li tormenta e che scaturisce dal vivere situazioni di emarginazione, di isolamento, di rifiuto familiare, di depressione: in tali casi l'unica cosa che sembra necessario fare è quella di implorare la protezione dell'onnipotente, compiere riti per scongiurare l'angoscia di colpevolezza, individuare un ordine gerarchico per poter sussistere, tuffarsi nell'eternità della beatitudine per esorcizzare la paura. Ecco perché non ci si vorrebbe staccare mai dal luogo di culto, si auspicherebbe di restare sempre a pregare, si fa «il pieno» di oggetti sacri, di ricordi, di immagini.
- Ma c'è un altro ordine di motivazioni che rende l'esperienza profondamente ricca e un fattore di crescita autentica. Esso emerge allorché la persona si pone con l'orecchio e il cuore attenti al grido che da tante parti si leva attorno a sé e si domanda che cosa può e deve fare per dare una risposta di speranza. Ciò comporta operare un profondo autodistanziamento da sé, dal proprio mondo quotidiano, dalle preoccupazioni che sono legate al lavoro, alla politica, allo sport, alle convenzioni sociali. E nello stesso tempo comporta anche un mettersi alla prova, un verificare le proprie capacità, uno sperimentare la possibilità di una rinuncia in vista di un servizio disinteressato e gratuito.
In tale prospettiva, credere vuol dire lasciare le proprie sicurezze, ritrovarsi nella «nudità» della propria e dell'altrui esistenza, scoprire l'unicità e l'originalità della propria esistenza, ma nello stesso tempo sentirsi partecipe di ansie e di aspirazioni che rappresentano il filo rosso che unisce sottilmente ma saldamente tutte le esistenze. L'esperienza religiosa viene in tal modo a trasformarsi in ricerca, capace di totalizzare e unificare tutti gli altri aspetti dell'esistenza. E non appare più come uno scrigno da tenere preziosamente chiuso, ma un dinamismo che cresce, si sviluppa, si confronta, si scontra anche e lascia intravedere possibili risposte agli interrogativi più esistenziali.
Dal punto di vista psicologico, allora, l'esperienza religiosa potrà benissimo essere legata a bisogni inconsci di espiazione, di distrazione, di fuga dal proprio mondo, di ricerca di risposte a pure curiosità intellettuali, di passivo adeguamento a mode oppure a pressioni ambientali o familiari. In tal caso, prima o poi, essa manifesterà la sua fragilità e risulterà essere un ostacolo e in certi casi un fattore di immaturità e di regressione a stati di dipendenza infantile, oppure sarà considerata qualcosa di inutile, di insignificante, di superfluo.
Essa, però, potrà benissimo essere l'espressione di una visione della vita come «compito aperto», una vita cioè disposta al confronto e orientata alla novità, capace di cogliere le domande che si levano di continuo dal quotidiano, in una prospettiva di estensione di interessi e di assunzione di responsabilità. In tal caso Dio e la fede non si presenteranno come compagni di viaggio che castigano o promettono surrogati di felicità e di benessere, ma saranno occasioni di crescita nel rispetto dei propri personali ritmi e additeranno orizzonti di impegno e di senso dai quali ricevere forza per percorrere un altro pezzo di strada. E l'esperienza religiosa non si porrà in contrapposizione a fattori condizionanti oppure a traumi infantili o a circostanze sfavorevoli, ma subirà un'ampia trasformazione che la renderà autonoma e specifica, sorgente di benessere, energia liberante e slancio amoroso.

EMOTIVITÀ E RELIGIOSITÀ GIOVANILE

La religiosità giovanile si pone in continuità con la maturazione religiosa raggiunta ed acquisita nelle precedenti fasi evolutive. In particolare, per quel che riguarda la dimensione affettiva, essa rappresenta un orientamento preciso verso un salto qualitativo nelle sue diverse espressioni.
Le esperienze che nel periodo giovanile possono essere annoverate come veramente religiose tendono a caratterizzare soprattutto quanti hanno continuato una certa maturazione della propria fede, in accordo con le proprie convinzioni religiose e con le proprie prospettive di vita. Infatti, è proprio nel periodo giovanile che la religiosità si presenta come elemento di differenziazione tra coloro che frequentano e vivono la fede e coloro che lasciano cadere completamente la pratica religiosa. Ed ecco perché in questo periodo il vissuto religioso di chi continua a professare la propria fede è caratterizzato da un intenso coinvolgimento emotivo (Mion 1993).
Infatti, i giovani si mostrano maggiormente sensibili ad esperienze religiose particolarmente significative (peak experiences, o esperienze di vertice) e la loro maturazione a livello di fede è confermata da questi atteggiamenti, senza però ridursi semplicemente ad essi.
Ma fino a che punto queste esperienze massime possono essere considerate autentiche? Alcuni autori hanno condotto ricerche su tale fronte, ma con risultati contraddittori, per cui da una parte sembra che l'esperienza di vertice possa effettivamente costituire un'espressione autentica della religiosità giovanile, e dall'altra essa appare solo una manifestazione esterna e superficiale, che in fondo non coinvolge a livello reale la persona (Hood 1971, 1972; Mathes 1982). Sembra, quindi, più utile concludere che ci sono esperienze mistiche che effettivamente aiutano il giovane a crescere nella sua religiosità, ed altre esperienze che sono piuttosto frutto di alcuni tratti della personalità che dispongono ad esperienze di tipo mistico.
È anche interessante rilevare che lo sviluppo della componente affettiva nella religiosità dei giovani è associata al modo con cui essi si dispongono rispetto a tre attribuzioni fondamentali: senso di sicurezza, riconoscimento/accoglienza, obbedienza e accettazione acritica che rappresentano tre caratteristiche descrittive del coinvolgimento emozionale dei soggetti verso il sacro.
Concretamente ciò vuol dire che il modo con cui i giovani vivono tali espressioni della religiosità si differenzia a seconda delle diverse variabili prese in considerazione. Il senso di sicurezza, che essi percepiscono come caratteristica di Dio, si differenzia soprattutto rispetto alla scolarizzazione, per cui i meno istruiti sentono Dio come più «securizzante». Per il secondo fattore, quello di riconoscimento/accoglienza, viene riconosciuto come presente ed operante in Dio dagli aggregati e dai praticanti (soprattutto le donne), ossia da coloro che meglio riflettono il modello di fede offerto dalla religione di chiesa, e che si riconoscono anche come i più passivi e i più obbedienti rispetto alla religiosità istituzionale. I giovani lavoratori e gli studenti con più alta scolarizzazione sono quelli che si pongono sui livelli più negativi (perché più critici) nella terza attribuzione relativa all'accettazione passiva dei contenuti religiosi.
È così possibile concludere che il giovane non dissocia l'esperienza personale del vissuto emozionale di Dio dalle caratteristiche della sua esperienza soggettiva. Anzi, quanto più emergono variabili che lo contraddistinguono in un determinato settore, tanto più la sua esperienza di Dio assume una valenza affettiva.
Ciò sta ad indicare che nel suo modo di vivere la propria fede il giovane cerca di rivalutare l'aspetto funzionale ad essa attribuito in vista di un'interpretazione maggiormente comprensiva ed equilibrata della sua reale esperienza. Il che vuol dire che, se da una parte la sua esperienza porta con sé il rischio di una certa soggettivizzazione del vissuto emozionale della fede, dall'altra mette in evidenza che non sono da sottovalutare i richiami alle potenzialità del protagonismo giovanile, con cui è possibile partecipare all'elaborazione di proposte «alternative» di religiosità.

LA MOTIVAZIONE NELLA RELIGIOSITÀ GIOVANILE

La realtà giovanile permette di percepire in maniera più organica il valore globale che il credo religioso assume per la persona. Tale rilevazione, però, si manifesta ancora in maniera non chiara a causa dell'aspetto evolutivo e dinamico che caratterizza tutto sviluppo della religiosità umana. Questo perché nell'età giovanile l'individuo vive la maturazione religiosa anzitutto come una risposta ai bisogni, alle esigenze e ai valori che danno significato alla sua vita, ma allo stesso tempo avverte l'emergere in maniera preponderante dell'esigenza di una propria autonomia nell'incarnare tali valori, al punto da giungere a sviluppare una condizione religiosa non istituzionale e il più delle volte secondaria rispetto ai nuovi significati emergenti.
Quindi, se da una parte il giovane può percepire il processo di maturazione attraverso l'integrazione delle condotte religiose nel contesto delle sue aspirazioni e della struttura di valori che egli stesso matura, staccandosi dalle influenze legate alla religiosità precedente, dall'altra la sua religiosità può anche evolvere verso una condizione di «marginalità». In questo caso essa assume un carattere parziale, o addirittura di «totale esclusione», il che vuol dire che, a livello motivazionale, i valori religiosi non fanno più parte del progetto di vita della persona.

Quale componente motivazionale?

I giovani credono nella misura in cui riescono a ritrovare un motivo (come significato sotteso al comportamento) per credere. La componente motivazionale della loro religiosità rappresenta, quindi, la sfida più sensibile ad una religiosità matura. Allo stesso tempo la significatività della religione va focalizzata ed inserita nel contesto dell'aspetto privatistico dei valori assunti come prioritari per i propri bisogni esistenziali. Il soggetto dell'età giovanile tende ad interiorizzare i valori etici che gli sono stati proposti attraverso un processo di rivisitazione critica positiva. In tale contesto si rileva l'emergere di un sempre più evidente «scollamento» tra opzioni religiose e opzioni etiche, fra credo e appartenenza confessionale, che invece erano apparsi più omogenei nell'età adolescenziale. L'osservanza morale non è più consequenziale al credo religioso, ma è piuttosto frutto di una critica all'osservanza esterna e di un'interpretazione personalistica di ciò che si ritiene giusto fare, e che giustifica il parlare di una «religiosità centrata sull'uomo» (Mion 1993, p. 17).
Ciò vuol dire che il valore normativo che la religiosità assume con il passare degli anni influenza in maniera più chiara il quadro di riferimento valoriale dell'individuo. Nella ricerca di Haitsma, ad esempio, facendo riferimento alla differenziazione di Allport tra religiosità intrinseca e religiosità estrinseca, si nota come l'adattamento personale ad un comportamento religioso fondato su motivazioni radicate nell'individuo è fortemente correlato al credo religioso del soggetto (Haitsma 1986).
Maggiormente cosciente di se stesso e delle proprie capacità, il giovane si pone nella prospettiva di un'ulteriore richiesta di partecipazione attiva e rispondente alle proprie scelte progettuali. In tale prospettiva, il senso che egli assegna a tali scelte ha per lui un significato rilevante per il grosso peso che attribuisce alla sua esperienza e al suo personale coinvolgimento intenzionale in essa. Ne segue che il comportamento assunto per l'insieme dei valori da lui stesso comprovati e confermati è conseguente alle nuove e diverse priorità che egli assegna, per cui tende a compromettersi per le cose in cui crede (Libratore 1988-1989).
L'aspetto religioso, allora, diviene il campo privilegiato in cui il giovane verifica tale compromesso, non tanto in continuità con le mediazioni passate ed istituzionali, ma piuttosto per la maggiore consapevolezza che ha di se stesso. Ciò giustifica la crescente importanza che la religione, in quanto motivo di vita, acquista per il mondo giovanile, come conferma il confronto tra le diverse indagini che hanno avuto luogo nel periodo che va dagli inizi degli anni '80 agli inizi degli anni '90 (Mion 1993).
L'identikit motivazionale che si delinea è, quindi, quello di una centralità della dimensione interiore (Watson-Morris-Hood 1990), da cui dipartono i diversi aspetti concreti con cui il giovane esprime il suo senso religioso. Se, però, lo si confronta con indicatori più precisi della religiosità, emerge chiaramente l'ambiguità di tale orientamento, o perlomeno traspare il distanziamento tra la religiosità di osservanza e la religiosità di coinvolgimento, con i conseguenti rischi di marginalità e di frammentarietà già osservati in precedenza (Mion 1993; Brunetta-Longo 1991).
L'integrazione verso un «senso» progettuale di sé, grazie al processo di soggettivizzazione
Il processo di soggettivizzazione è maggiormente evidente soprattutto quando ci si riferisce alla progettualità giovanile nell'area del privato. Partendo dagli effetti della modernità sull'esperienza dei giovani degli anni '90, Mion rileva come la dispersione individualistica delle credenze e la crisi dell'autorità istituzionale preparano il terreno per l'affermazione di una religiosità «antropocentrica». In questo contesto, ciò che influenza l'aspetto motivazionale del vissuto religioso giovanile è l'ideale di compimento personale e di realizzazione di sé. Ciò vuol dire che nel giovane prevale la tendenza a mettere in evidenza anzitutto l'esigenza di identità personale come esperienza privata, a cui successivamente è subordinata la sua domanda di sacro. Le trasformazioni in atto a livello motivazionale nella religiosità giovanile possono essere raccolte attorno ad alcune categorie che, delineando l'esigenza del diverso rispetto alla religiosità precedente, esprimono le contraddizioni rimaste irrisolte. In particolare i giovani starebbero passando dalla religione alla saggezza, dallo schema dogmatico alla ricerca di pace interiore, dall'adesione alla ricerca, dal dogma all'esperienza personale, dal «discorso» al «percorso», dall'istituzione sacralizzata alla sacralizzazione del vissuto, dalla dottrina alla spiritualità, dal nozionale all'emozionale.
Questa tendenza a rileggere l'esperienza futura, e quindi il rapporto con gli eventuali progetti personali, in connessione con la centralità del privato, influenza il modo di intessere il proprio sistema di significato.
Infatti, l'importanza di tale subordinazione investe le diverse aree in cui il giovane progetta un senso per la sua vita. In altri termini, con la soggettivizzazione della domanda religiosa egli tende a soggettivizzare (e, quindi, a subordinare) anche i suoi bisogni e i suoi valori, e a centrare la sua sicurezza personale e le sue prospettive future sulle esperienze che egli stesso può padroneggiare.
Ed è proprio in questa dinamica che si inserisce il suo modo di organizzare l'esperienza religiosa, che però non è ancora percepita come integrazione della dimensione totalizzante della propria fede, ma assume piuttosto una dimensione funzionale e perciò stesso psicologizzante. Mentre, infatti, sono nella stragrande maggioranza i giovani che riflettono sul significato e sullo scopo della vita, una buona parte di loro cerca di ottenere il meglio da essa prescindendo dalla fede in Dio, considerandola «un naturale punto di arrivo, del quale non ci si deve preoccupare» (Mion 1993, p. 15).
Parlare, pertanto, di privato nella dimensione motivazionale della religiosità giovanile sta ad indicare una precisa tendenza su cui si muovono diverse dimensioni evolutive. Da una parte essa permette al giovane di distanziarsi dalle forme nozionistiche precedenti, dall'altra fa emergere l'esigenza di una visione del sacro più rispondente al proprio vissuto interiore. In questo modo, pur avvertendo che tale «religiosità interiore» lo rassicura ed è funzionale ai suoi bisogni di sicurezza e di protezione, il giovane avverte la possibilità di un'ulteriore integrazione del suo vissuto del sacro nell'ottica, però, delle nuove esperienze valoriali.

Dalla frantumazione del vecchio alle nuove emergenze significative

L'emergere di una fede più personale e più rispondente alle esigenze individuali del giovane mette in evidenza un altro aspetto della sua religiosità, quello della frammentarietà. La religiosità del giovane, infatti, tende di per sé a sottolineare la frattura esistente tra la domanda di religiosità, che egli articola attraverso le sue nuove consapevolezze, e le risposte che ottiene dalle «agenzie di religiosità ufficiale», non sempre favorevoli ad alimentare tali vissuti creativi.
Il venir meno del monopolio della religiosità istituzionale tra i soggetti di questa età consente comunque la formazione di altri sistemi di significato che, pur lasciando spazio ad una certa immaturità di fede, permettono una certa vivacità di espressione (Butturini 1985-1986). L'ambivalenza di tale aspetto, come rilevato da diverse indagini investigative relative all'espressione religiosa dei giovani soprattutto negli ultimi anni (Bertrand 1993; Hatzfeld 1993; Burgalassi 1990; Mion 1993), si manifesta nel fatto che, pur dissociando il proprio senso religioso dal modo con cui viene vissuto concretamente, la religione è ancora importante per il proprio futuro.
Questo aspetto permette di rilevare ancora la disorganicità della fede giovanile, ma anche il progressivo passaggio verso una fede più matura perché più integrata tra la dimensione individuale (comprendente tale frammentarietà) e quella motivazionale/intenzionale.
La contraddizione che il giovane avverte in tale espressione della sua religiosità si ripercuote anche sui comportamenti. Esiste, pertanto, «una spaccatura tra l'area dei bisogni, valori, attese e definizioni (religiose) e l'area dei comportamenti religiosi, nel senso che vi sono dei vissuti religiosi a cui non corrisponde una proporzionata base motivazionale» (Milanesi 1981, p. 372). Con questa frattura può succedere che, ad esperienze di fede giovanile vivace e creativa, corrispondenti sia alla rottura del cordone ombelicale, che legava determinati comportamenti ad una data religione, sia al desiderio di soggettivizzare la propria religiosità, si contrappongano esperienze di fede ritualistica e convenzionale, soprattutto nei gruppi religiosi tradizionali.
I giovani, ad esempio, che partecipano a gruppi di militanza religiosa, sociale o politica, sono i meno conformisti e sono coloro che nello sviluppo della propria progettualità manifestano con più evidenza la presenza di motivazioni, di ideali verso cui tendere, di un maggiore realismo e di adeguatezza nel progetto di vita, manifestando così la propensione a rilevare una dimensione totalizzante della loro progettualità, anche se ancora in maniera superficiale e parziale.
Per questi giovani impegnati, quindi, si intravede un atteggiamento positivo verso il futuro. Essi, inoltre, sono i più sensibili alla percezione di Dio come «totalmente altro», nel senso che assegnano un più ampio contenuto specificatamente religioso al loro rapporto con il divino, per cui il loro non è più soltanto un impegno relativo all'ambiente di provenienza, ma qualcosa che li coinvolge a livello esistenziale, pur con un'impronta di tipo soggettivo (Le Saux 1994).
Nella misura in cui essi riescono a mettere in discussione positivamente la loro adesione di fede, rivisitando i propri modelli di religiosità, forniti loro dalla precedente fase di socializzazione istituzionale e dall'acculturazione religiosa, si porranno nella prospettiva di una fede come adesione operosa e responsabile al proprio quadro di riferimento valoriale.
La contraddizione derivante dalla tendenza alla soggettivizzazione della propria esperienza è più marcata, invece, tra i giovani non aggregati a particolari gruppi religiosi e che sono maggiormente orientati a privatizzare i loro bisogni, i loro progetti e la loro religiosità, sottolineando soprattutto il proprio vissuto psicologico ed esprimendo una minore correlazione e, quindi, una maggiore frattura tra i bisogni personali e la religiosità tradizionale (Milanesi 1981).
Un certo rapporto significativo è, inoltre, rilevato tra i bisogni espressi dai giovani, i progetti attorno a cui essi si impegnano e le responsabilità sociali che percepiscono.
Tale senso di responsabilità personale, con cui essi mobilitano la propria carica emozionale verso un sistema di significato totalizzante, emerge in maniera chiara soprattutto quando passano dalla fase valutativa a quella attuativa della propria progettualità. Tale dinamica interattiva permette di cogliere un continuum di coerenza e di costanza tra la capacità valutativa del giovane e la sua condotta decisionale. Una coerenza che si manifesta anche quando egli si trova dinanzi alle frustrazioni sociali di tali progetti. Anche allora, infatti, è sempre lui l'artefice e il responsabile della progettualità.
Tale responsabilità assume un significato coinvolgente soprattutto nel contesto sociale in cui il giovane si viene a trovare e che si colloca in continuità con la dimensione socio-umanitaria alla quale è particolarmente sensibile. Valori, quindi, come la fratellanza, la solidarietà verso gli altri, l'amore per gli ultimi sintetizzano il suo consenso ad una religiosità tradotta in un migliore contesto di vita, della cui edificazione si sente corresponsabile.

Una motivazione più funzionale che totalizzante

L'assegnazione di un'importanza rilevante al proprio comportamento religioso ha luogo anche quando i livelli di partecipazione sono limitati dalla mancanza di occasioni o di opportunità. Per i giovani il carattere funzionale della fede ha un senso di partecipazione personale, sia pure in forme differenziate, del proprio vissuto religioso. Tale sensibilità è presente soprattutto in quanti alimentano il loro coinvolgimento attraverso la partecipazione a gruppi religiosi. Tra questi giovani, infatti, «esiste una concezione relativamente maggioritaria della fede religiosa come un vissuto razionale capace di dare un significato alla vita in una prospettiva euristica e creativa» (Milanesi 1981, p. 146). La differenziazione a livello motivazionale tra l'aggregazione e la non-aggregazione dei giovani a gruppi significativi è un fattore che incrementa un'interpretazione più organica della percezione del proprio sistema di significato. Allo stesso tempo essa permette di discriminare la tendenza funzionale più esplicita nei giovani aggregati che nei non-aggregati, e fa intravedere come una fede stereotipata e tradizionale è, in fondo, meno coinvolgente di quella vivace e critica di quanti praticano di meno ma... con maggiore convinzione personale.
A questo proposito, è abbastanza evidente che tra i giovani associati in gruppi religiosi non mancano manifestazioni di una fede ancora legata alla tradizione, con la conseguente conformità alle esigenze della collettività (la chiesa), percepita come garante dell'autenticità del sentimento individuale. In questo caso, il sistema di significato sembra essere apparentemente più unitario ed organico, perché ancorato a definizioni precedenti, ma nello stesso tempo più fragile e vulnerabile per potersi esprimere in modo continuativo. Per quanto riguarda, invece, coloro che non fanno parte direttamente di gruppi di impegno religioso, emerge un sistema di significato più eterogeneo e diversificato, più rispondente cioè alla loro esigenza di privatizzazione del proprio sistema di valori e di bisogni.
Si potrebbe, allora, concludere che la linea di tendenza su cui generalmente si muove la maturazione religiosa nei giovani è particolarmente legata a questo aspetto di coerenza funzionale, che essi ricercano e riscoprono all'interno del proprio sistema di credenze, soprattutto nell'aspetto privato ed individuale del coinvolgimento motivazionale. Insomma, essi danno priorità alla propria persona come soggetto psicologico, anche nel contesto della dimensione motivazionale della religiosità, piuttosto che alla religione intesa come ideologia-valori. Con tale percezione del sacro essi enfatizzano la loro capacità di essere artefici di religiosità, a discapito di ciò che in fondo è l'oggetto stesso della religiosità, cioè Dio (Butturini 1985-1986).
E la contraddizione di questo aspetto permette, da una parte, di constatare l'importanza che i giovani assegnano alla propria capacità di «ideologizzare i sistemi di significato, ad abbassare i livelli di idealità e a limitarne i tassi di progettualità» (Milanesi 1981, p. 375) e, dall'altra, di asserire che la componente religiosa acquista significato nell'ottica di una individuazione degli aspetti personali con cui possono esprimere un vissuto che sia veramente rispondente al nuovo individuo ancora in formazione.

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