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    All'insegna della non-competitività. Per una azione educativa nello sport



    Daniele Novara

    (NPG 1996-04-37)


    Un ricordo

    Quando avevo 14 anni giocavo nella squadra ragazzi di una società calcistica della mia zona. Partecipavamo ai tornei di categoria.
    Il mio allenatore era noto nell'ambiente per la sua intemperanza e il suo nervosismo durante le partite. Finiva per passare quasi tutto il campionato fuori dal campo per squalifica.
    Ripensando a quell'esperienza ho cercato di ricordare quali erano i motivi delle squalifiche. Le rare volte che sedeva in panchina lo assaliva una furia guerresca senza limiti e ci urlava: «Addosso, duri, tirate alle gambe, stendeteli, sangue!». Questo ritornello, più o meno variato dalle singole occasioni di gioco, non creava nessun problema all'arbitro che al massimo lo richiamava per l'eccessiva rumorosità verbale. Gli incitamenti sanguinolenti non lo interessavano in quanto tali.
    L'espulsione giungeva invece puntuale quando l'allenatore passava ad occuparsi dell'arbitro, ovviamente colpevole di parzialità, con le solite frasi: «Venduto, mettiti gli occhiali, imbecille...».
    L'episodio, a distanza di tempo, mi lascia una certa amarezza, perché è fin troppo evidente quali sono i criteri sottostanti a un certo tipo di discipline sportive, dove il senso del gioco e della festa scompare completamente per lasciar posto alla furia di voler prevalere con ogni mezzo.
    Sono discipline che indubbiamente creano un substrato ideologico che vede l'altro come eterno concorrente ed antagonista, qualsiasi sia il contesto, familiare, professionale, sociale, politico.

    La catarsi

    Meraviglia che esista tutta un'epica dello sport - competitivo e agonistico - come promotore di pace e fratellanza, le cui origini si trovano nel senso comune ma che varie posizioni scientifiche hanno cercato di legittimare.
    Secondo la teoria catartica la pratica e lo spettacolo sportivo consentirebbero lo sfogo di emozioni - in particolare l'aggressività - spostandole su attività consentite, e scaricandole così di pericolosità sociale. È il «principio della caldaia a vapore», ovvero il modello energetico-idraulico che ha le sue roccaforti teoriche nella psicanalisi ortodossa e nell'etologia di Lorenz.
    Recentemente uno studioso italiano di psicologia - A. Salvini - ha fatto il punto su tutte le ricerche che dimostrano l'infondatezza di questi presupposti, giungendo a concludere: «La tesi che lo sport (agonismo e tifo) sia un comportamento a forte radice istintiva e svolga un ruolo di scarica aggressiva è poco consistente sul piano scientifico per le seguenti ragioni: 1: non esistono sufficienti dimostrazioni di un istinto aggressivo autonomo; 2: gran parte degli etologi sono oggi concordi che negli animali i comportamenti aggressivi dipendono da stimoli sociali di scatenamento e dalla loro capacità di essere valutati; 3: le analogie tra animale e uomo non costituiscono delle prove sufficienti, trattandosi appunto di analogie e non di omologie; 4: lo sport è un comportamento simbolico altamente culturalizzato; 5: le prove sperimentali non confermano queste tesi».[1]
    L'idea dello sport come surrogato «positivo» della guerra gode di un'ampia considerazione a livello di opinione pubblica, ma è purtroppo un indice molto esplicito di una visione pessimistica del genere umano, secondo la quale la guerra sarebbe qualcosa di semplicemente ineluttabile perché connaturato alla nostra stessa indole personale e sociale, quasi che la genetica prendesse il posto delle libere scelte e dei processi culturali.
    In realtà ci sono buone ragioni per supporre che il quadro sia esattamente opposto, ossia che lo sport competitivo rafforzi invece di attenuare le forme bellicose di una società. Al proposito vale la pena ricordare il noto studio di Richard Sipes su venti società primitive di tipo guerriero, che ha portato al rilevamento in esse di un'elevata presenza di sport combattivi. Viceversa, società «selvagge» di tipo cooperativo (ad esempio gli Hopi in America) tendono naturalmente a praticare attività sportive senza porsi il problema dei vincitori.[2]
    È il contesto culturale, evidentemente, che dà significato alle varie azioni, premiando o rimuovendo ciò che non entra a far parte del comune background di valori acquisiti.
    Non c'è allora da stupirsi nel sentire riecheggiare dallo stesso Pierre de Coubertin il nesso preciso fra sport e guerra: «Questo ardore battagliero della gioventù potrebbe dipendere in parte proprio dalla pratica degli sports i quali avrebbero dunque, anche se indirettamente, l'effetto di prepararli alla guerra. È certo che i muscoli ormai sono più esercitati e l'uomo ha contratto abitudini di vita fisica che l'hanno reso molto più adatto di prima ad affrontare i disagi di una campagna di guerra. Gli sports hanno favorito tutte le qualità che servono alla guerra: spensieratezza, buon umore, adattamento all'imprevisto, nozione precisa dello sforzo da fare senza spendere inutili energie... il giovane sportivo si sente evidentemente più pronto a partire di quanto non si sentissero i suoi fratelli maggiori. E quando uno si sente ben preparato a fare una cosa, la fa più volentieri».[3]
    Parole che trovano un preciso riscontro d'attualità, se è vero che i paesi più presenti nel medagliere olimpico sono quelli più militarizzati. Basti pensare alla piccola Germania Est che riusciva sempre a piazzarsi alle spalle dei due colossi URSS e USA. Ebbene, questo paese era l'unico in Europa ad avere l'istruzione militare obbligatoria nella scuola pubblica.
    È sempre più difficile credere alle belle enfatiche parole di chi si prodiga a dimostrare quanto possa fare lo sport agonistico per la pace. Tanto è vero che uno dei più noti sostenitori della necessità di scaricare e sublimare la violenza in modi socialmente utili o perlomeno innocui - Bruno Bettelheim - ammette che «gli sport competitivi non rappresentano un vero surrogato, perché, in primo luogo, suscitano nei contendenti e negli spettatori sentimenti competitivi e aggressivi a livelli esplosivi. E, secondariamente, ogni volta che c'è un vincitore, ci deve essere anche un perdente; e la sconfitta accumula nel giocatore più aggressività di quanta ne può avere scaricata durante la partita o l'incontro».[4]

    Agonismo e gioco del calcio

    Appare a questo punto più chiaro perché agonismo e agonia derivino dalla stessa radice etimologica.
    L'agone greco da luogo d'incontro (piazza) diventa lo stadio deputato alla lotta e alla competizione; la lotta - a sua volta - si presta a dare spessore semantico all'agonia, creando un indubbio continuum che forse meriterebbe maggiori indagini.
    Il caso del calcio è senz'altro fra i più emblematici. È raro trovare una ricerca, uno studio o anche semplicemente un reportage giornalistico che si preoccupi di rilevare se per caso esista una qualche strutturale connessione fra il particolare tipo di gioco agonistico e la violenza negli stadi.[5]
    Eppure non dovrebbe essere difficile cogliere questo nesso quando, ad esempio, la stessa disposizione delle squadre in campo ricorda, senza tante remore, lo schieramento militare prima della battaglia, con ali, mezzali, difesa, aree delimitate, ecc.; oppure quando il linguaggio stesso dei telecronisti e dei giornalisti sportivi riecheggia continuamente la cronaca di uno scontro armato («Rossi si destreggia fra le fila avversarie»; «Signori fa partire una bordata che s'infila in rete»; «Lombardo entra in area portando lo scompiglio nella difesa avversaria» ecc.). In queste condizioni, a poco a poco la «battaglia» esce dall'ambito delle metafore e delle simulazioni per trasferirsi su un piano fattuale di scontro fisico qual è quello fra le bande di tifosi ultras. «La partita di calcio, più di ogni altro spettacolo sportivo, accentua gli antagonismi tra gli spettatori e diventa una vera e propria guerra ritualizzata. Termini come «strategia», «alleati», «conquista del pallone», «tregua», richiamano il gergo militare. Le bandiere e i colori usati dai tifosi come segni di riconoscimento, confermano questo clima di battaglia. Il rito sportivo, anche se rigidamente codificato, proprio perché è rappresentazione di violenza e mobilita profonde forze emotive, diventa spesso un meccanismo incontrollabile, una bomba che può scoppiare da un momento all'atro. Il labile confine tra violenza simbolica e concreta può essere facilmente scavalcato: il tifoso non solo assiste a quanto avviene in campo ma, consapevole di essere a sua volta oggetto di spettacolo per i media, si getta nella mischia e recita la parte fino in fondo».[6]
    I tifosi varcano il «confine» del simbolo e sarà difficile farli retrocedere.
    E poi, perché dovrebbero farlo? Se la competizione è tale, se l'avversario è tale, perché limitarsi a contenersi nei ruoli formalizzati dalla convenzione sportiva?
    Birgit Brock-Utne, ricercatrice per la pace norvegese, riporta giustamente le conclusioni di uno studio del 1971 che aveva lo scopo di determinare gli effetti che gli sport competitivi hanno sul comportamento ostile. Venne rilevato che l'ostilità aumentava in modo significativo in persone che avevano visto una partita di calcio; al contrario, ciò non avveniva in persone che avevano assistito a un'esibizione di ginnastica.[7]
    Occorrerebbe avere il coraggio politico di indagare con più vigore il nesso fra sport fortemente competitivi e manifestazioni correlate di violenza. Ma, come spesso succede, chi ha interesse a finanziare un simile tipo di ricerca che rischia di delegittimare i valori di fondo del sistema sportivo attuale? Senza contare che tale sistema produce molte più vittime che non campioni. Per uno/a che emerge, ce ne sono migliaia costretti nel gregarismo più umiliante, nel ruolo di «panchinari», di riserve, di eterni esclusi. Tutto questo si chiama in gergo «selezione sportiva», quella che deve garantire ai migliori di emergere e quindi di ottenere risultati e produrre spettacolo.
    Il prezzo da pagare è però decisamente troppo alto. È innegabile che la massa dei «non-campioni» è infatti sottoposta a uno stress e a una costrizione psicologica sufficiente a produrre un alto tasso di insicurezza, di frustrazione e senso di esclusione. Tutti fenomeni destinati a ripercuotersi negativamente a livello sociale, ponendo le basi tanto di una ricerca parossistica di rivalsa quanto di fughe nell'apatia e nell'indifferenza.

    Contesto sociale e scelte educative

    È ingenuo pensare che la dimensione sportiva e ludica possa essere estrapolata dal più ampio contesto culturale.
    Viviamo in una società che rafforza e premia i comportamenti «hard» piuttosto che quelli «soft», il mito del successo più che quello della solidarietà, l'essere competitivi più che l'essere altruisti.
    Troppo spesso anche la cooperazione viene vissuta come una regola che un certo gruppo, azienda, squadra sportiva, ecc. deve darsi per superare un'altra formazione.
    Nessuno si vergogna di constatare l'estrema liberalità con cui si lasciano accostare i più piccoli a programmi televisivi di violenza e anche a riviste di armi e di addestramento militare (queste ultime sono una novità di cui si sentiva proprio la mancanza!), mentre al contrario i programmi e le riviste a sfondo erotico-sessuale ricevono ben altro trattamento. Evidentemente la violenza non è un tabù, mentre sull'attività sessuale permane uno sfondo di proibizione e censura. Già questo la dice lunga sui nostri criteri dominanti!
    Esistono fortunatamente società non-occidentali, ampiamente analizzate,[8] come i Semai della Malesia occidentale o gli Hopi in America, che affondano le loro radici culturali in modi di vivere rinforzanti le scelte non violente. Ma anche all'interno dell'Occidente, gruppi come i Quaccheri o gli Amish segnalano la presenza di micro-società dove i comportamenti di spartizione e collaborazione vengono sistematicamente incentivati.
    Tutto questo non deve comunque produrre una specie di fatalismo pedagogico, quasi che risultasse impossibile intervenire a livello educativo di contro a una società proiettata verso ben altre categorie. Come ricordano gli autori di un'importante rassegna di studi sul comportamento pro-sociale, P. Mussen e N. Eisemberg-Berg, «in ogni cultura c'è una considerevole variabilità nelle caratteristiche come la collaborazione e la generosità tra i membri».[9] Ossia, esiste sempre quell'angolo buio (o luminoso?) dove l'influsso dominante non può penetrare e dove c'è spazio per presenze e interventi diversificati e alternativi, possibilmente migliori. Nessuna cultura è fatta di granito, tanto meno la nostra.
    Certo, l'obiettivo, il sogno non può che essere una vera rifondazione culturale e politica dove i solidali, i comunitari, gli allegri non debbano sentirsi degli eterni profeti di qualcosa che chissà quando verrà. Senza questa dimensione politica ogni pedagogia rischia l'intimismo, mentre invece penso ci sia bisogno di resistenza, di senso critico, di aggressività, di coraggio. Chi educa alla cooperazione, chi si oppone allo spietato dominio della «mors tua vita mea» nel gioco, nelle attività scolastiche, nella vita, oggi è suffragato solo dal futuro, dalla tensione verso una società in cui verranno «insegnate» come prioritarie la simpatia, l'empatia e la capacità di gestire i conflitti con la nonviolenza.[10]
    Ma intanto ci si può consolare con qualcosa di più concreto. I soliti americani, i padri dello spirito di conquista, della competizione sfrenata, del «self-made man» si sono prodotti in alcune eccezionali ricerche per dimostrare il contrario di quello a cui sono stati educati, e cioè che la competizione produce un rendimento e prestazioni più scadenti che non un atteggiamento di cooperazione. E ci sono riusciti. Sono stati sottoposti a verifica gruppi di impiegati, di scienziati, di professori universitari, di dirigenti aziendali e di studenti universitari, e in tutti è apparsa una correlazione inversa fra competitività e riuscita. Lo stesso per i bambini.[11]
    Qui occorre anche un breve chiarimento.
    Si tratta di abolire il concetto di competizione nell'uso corrente che se ne fa, e cioè competizione nei confronti degli altri dove necessariamente c'è un vinto e un vincitore, dove il «campo di battaglia» presenta sempre qualche vittima.
    Però la competizione come prova con se stessi, per esempio nei confronti di un agente esterno (il tempo), è quanto mai stimolante e positiva per la crescita personale. La sfida come capacità di mettersi alla prova è decisamente esaltante, ma non c'è nessun motivo di coltivare questa innata vocazione umana a discapito di altri.[12]
    Ci troviamo così al cuore delle nostre aspirazioni: riuscire a concepire e a realizzare un modo di collaborazione e di stare assieme che sappia conservare l'originalità di ciascuna persona, la sua differenza, la sua ricchezza, la sua creatività. Il gregarismo evidentemente non ha niente a che fare con quello che si vuole qui esprimere.

    (Dalla prefazione a Novantanove giochi cooperativi di Sigrid Loos, ed. Gruppo Abele)


    NOTE

    [1] A. Salvini, Il rito aggressivo, Giunti, Firenze 1988, p. 55.
    [2] R. Sipes, War, Sports and Aggression, «American Anthropologist», 1973, 75, pp. 64-86.
    [3] Cit. in G. Cacioppo, Nonviolenza come educazione, Lacaita, Taranto 1972, p. 94.
    [4] B. Bettelheim, Sopravvivere, Feltrinelli, Milano 1982, p. 159.
    [5] Anche il già citato studio di Salvini, senz'altro l'opera più completa in materia uscita in Italia, fra le varie spiegazioni che tenta di offrire al fenomeno della violenza dei tifosi, elude apertamente l'analisi di questa connessione. Cf al proposito anche: P. Marsch-E. Rosser-R. Harré, Le regole del disordine, Giuffré, Milano 1984.
    [6] C. Bromberger, Violenza simbolica e reale nello sport, «Social Trends», 1986, 33.
    [7] B. Brock-Utne, Sports, Masculinity and Education for Violence, PRIO, Oslo 1987, p. 13.
    [8] Al proposito la pubblicazione in lingua italiana più recente è: A. Montagu (a cura di), Il buon selvaggio, Eleuthera, Milano 1987, che analizza gli stili di vita e le scelte educative di alcune società di tipo tribale o semi-tribale che la letteratura antropologica considera a forte livello di cooperazione e nonviolenza.
    [9] P. Mussen-N. Eisemberg-Berg, Le origini delle capacità di interessarsi, dividere ed aiutare, Bulzoni, Roma 1985, p. 79. Sullo stesso argomento, cf pure il numero monotematico della rivista «Età evolutiva» del febbraio 1988.
    [10] Per quanto riguarda l'ambito scolastico segnalo due importanti testi: D. Francescato et al., Star bene assieme a scuola, NIS, Firenze 1987; AA.VV., I bambini insegnano ai bambini, Armando, Roma 1974.
    [11] A. Kohn, Competere o collaborare?, «Psicologia contemporanea», luglio-agosto 1988. L'autore ritorna sull'argomento anche nel nr. di marzo-aprile 1989 della stessa rivista.
    [12] Al proposito segnalo l'importante libro di Silvia Bonino, Bambini e nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, in cui la tematica riceve ampio spazio anche dal punto di vista operativo.


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