«Padre nostro che sei nei cieli»


Carmine Di Sante

(NPG 1996-01-5)


Quest'anno la rubrica di spiritualità sarà dedicata al «Padre Nostro», la preghiera cristiana per eccellenza, conosciuta ed amata più del «credo», cioè della stessa professione di fede.
Messa, secondo Matteo e Luca (6,9-13; 11, 2-4), direttamente da Gesù sulla bocca dei discepoli, questa preghiera è il «simbolo» più importante della tradizione cristiana, in cui si esprime l'esperienza peculiare che questa ha avuto del divino. Simbolo (che nell'originale rimanda a «congiungere») vuol dire segno di ri-conoscimento e di identificazione. Originariamente consisteva in una «parte» o «metà» di un oggetto (vaso o altro) che, ricomposto con l'altra parte o metà e combaciante, fungeva come da carta di identità.
Il «Padre Nostro» è il simbolo per eccellenza della tradizione cristiana perché è la «carta d'identità» del credente. Chi conosce le sue parole ed è in grado di pronunciarle, può dirsi cristiano, anzi è cristiano. Per questo, secondo la prassi catecumenale affermatasi nei secoli III-IV e testimoniataci soprattutto dal sacramentario Gelasiano (secolo VIII circa), nella chiesa dei primi secoli si diventava cristiani a pieno titolo attraverso la «traditio» (consegna) e la «redditio» (riconsegna) di questo «simbolo», cioè di questo testo, al cui commento padri quali Tertulliano, Origene e Cipriano dedicarono appositi commentari.
Le puntate di quest'anno cercheranno di ritrascrivere, con il registro del linguaggio concettuale, l'esperienza radicale del divino condensata in questo testo, ricostruendo l'orizzonte di senso che in esso si oggettiva. Questa ricostruzione sarà fatta in dialogo profondo con la tradizione ebraica dalla quale la preghiera del «Padre Nostro» dipende sostanzialmente, sia dal punto di vista espressivo-letterario che da quello teologico-spirituale. Per il lettore desideroso di approfondimenti ulteriori, l'autore di queste pagine si permette di rimandare al suo recente testo Il Padre Nostro. L'esperienza di Dio nella tradizione ebraico-cristiana, Cittadella Editrice, Assisi 1995.

Il simbolismo del «padre»

Il simbolo fondamentale in cui, secondo il Nuovo Testamento, si condensa la traccia fondamentale dell'apparizione di Dio alla coscienza umana è quello del «padre»: «Padre nostro che sei nei cieli». Squarciando ed entrando dentro l'immanenza, la trascendenza vi appare - per l'esperienza credente -, sotto le sembianze del padre, con il suo volto e con il suo comando. Questo tratto - Dio come «padre» - è comune non solo a tutto il Nuovo Testamento e all'Antico Testamento, ma anche a molte delle cosiddette religioni primitive soprattutto non agricole. Qui Dio viene percepito e vissuto come «padre», inteso non tanto nel suo significato procreativo e generativo (è soprattutto il simbolo della madre a veicolare questo aspetto), ma in quello autoritativo-normativo.
Ma è soprattutto il Nuovo Testamento che, con una insistenza e coerenza senza confronto neppure con l'Antico Testamento (cf per esempio Dt 14,1; 32,6; Is 63, 16; 64, 7; ecc.) dispiega compiutamente questo tratto, divenendone il più qualificante e differenziante.
I testi neotestamentari ricorrono al simbolismo della paternità divina secondo una duplice modalità correlata ma distinta: una per qualificare il rapporto tra Gesù e Dio, l'altra quello tra i discepoli e Dio. Dio è «padre» dell'uno e degli altri, ma non allo stesso modo e non con la stessa intensità. Questa differenza viene espressa, letterariamente, dall'uso di due formule diverse alle quali gli autori ricorrono a seconda se intendono parlare dell'uno o dell'altro. Nel primo caso prevale la formula «abba» (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4, 6) o «padre mio» (Mt 7, 21; 20, 23; 25, 34; 26, 29, 39, 53; Lc 2,49; 22,29; 24,29; Gv 2,16; 5,17, 43; 6, 32; 6,40; 8,19.49.54; 10, 18.29.37; 14, 2.20.21; 15,1.8.10.15, 23; 20, 17, ecc.), mentre nel secondo quella di «padre» in generale (Gv 8,41) o «padre vostro» (Mt 5,16.45.48; 6,8; 10,20.29; Lc 12,32; ecc,) o «padre nostro» (Mt 6,9; Rm 1,7; ecc.).

Una chiave di lettura

È diventato comune associare all'immagine del «padre» l'idea dell'amore, per cui riferire a Dio il simbolo della paternità è diventato sinonimo del suo amore e della sua bontà. Una simile interpretazione si rivela insufficiente non solo a livello storico-linguistico, dove il termine padre non indica primieramente né l'aspetto generativo né quello affettivo, ma quello autoritativo, bensì anche a livello fenomenologico-descrittivo dove, come ha dimostrato Freud, la figura paterna entra nel processo di crescita del bambino come «legge» che ne mette in crisi il legame simbiotico con la madre per dischiudergli la via dell'autonomia e della responsabilità.
Il Dio biblico si rivela come «padre» perché infrange l'orizzonte desiderativo del soggetto umano aprendolo a quello della giustizia o dell'«è giusto», dove l'amore non è più quello rivolto al proprio simile ma quello rivolto al dis-simile, che la bibbia esemplifica nel «povero», nell'«immigrato», nell'«orfano», nella «vedova» e nei malati (zoppi, sordi e ciechi) e la cui specificità consiste non più nell'essere attratto da un valore, il quale completa e realizza il dinamismo autoespansivo dell'io, ma nel chinarsi sul dis-valore, che fa morire l'io come volontà di potenza per farlo rinascere come libertà amante. Dio assume il volto e il linguaggio del «padre» proprio transustanziandolo da essere di bisogno a essere di responsabilità e da volontà di amore come amore di compimento a volontà di amore come amore di benevolenza. Grazie a tale «transustanziazione» il soggetto toccato dall'apparizione di Dio come «padre» entra in un orizzonte che non è più quello del desiderio dove tutto il reale è coestensivo all'io come suo oggetto e prolungamento, ma quello del giusto, dove l'esistente splende della sua irriducibile alterità che, mentre si offre all'io, si sottrae alla sua volontà di possesso esigendo ascolto e acconsentimento.