Juan E. Vecchi
(NPG 1994-01-17)
La previsione del futuro prossimo e remoto è un'esigenza obbligata per ogni ambito dell'agire umano. Sentiamo parlare di come dovrà essere la politica, l'economia, l'industria e anche il calcio e il turismo, nel cammino verso il 2000. È lo sforzo di immaginare le condizioni in cui si svolgeranno la convivenza e l'attività dell'uomo e di predisporre soluzioni.
EDUCAZIONE E FUTURO
Nel campo dell'educazione quest'opera di anticipo è indispensabile. Appartiene alla sua natura. Qualcuno ha raffigurato il rapporto educazione-società con l'immagine del camion-rimorchio. La forza di trazione risiede nell'educazione, mentre la società la segue. Altri ribaltano l'immagine, definendo l'educazione come un sottosistema a servizio, e dunque variabile dipendente, di un macrosistema socioeconomico. In questo caso il motore è la società e il rimorchio è l'educazione.
La verità è che l'educazione sta sempre in bilico tra quello che si è, quello che si intravede come possibile e quello che si sogna come utopia: un po' a rimorchio del presente, un po' in attesa del domani, un po' rivolta verso il futuro lontano. Si propone come comunicazione e assimilazione di quanto si è raggiunto e come anticipazione di ciò che si insegue, in parte calcolato, e in parte ancora sconosciuto. Ma viene puntualmente colta di sorpresa da fenomeni che prendono corpo più velocemente del previsto. Le tocca rincorrere le domande, accelerando la propria capacità di risposta e quindi stare all'erta. Genitori e educatori sono alle prese con percorsi che non hanno fatto e con lezioni che non hanno studiato. Come diceva scherzosamente uno di loro: «Quando avevamo imparato tutte le risposte, sono cambiate tutte le domande».
Ma come riesce l'educazione ad assolvere questo compito di concentrato del presente e anticipazione del futuro?
Qui viene allo scopo un altro commento. C'è tutta una batteria di parole con le quali indichiamo il perfezionamento della persona: allevare, addestrare, esercitare, ammaestrare, avvezzare, allenare, istruire. In una costellazione più nobile di termini troviamo: insegnare, formare, sviluppare, socializzare, inculturare. Nessuna equivale esattamente a educare. Questa include tutte le forme di miglioramento e le organizza in un certo modo. La differenza sta in questo: mentre tutti i termini citati danno rilevanza a ciò che la persona deve assimilare per un certo suo adeguamento sociale e culturale, l'educazione considera la crescita e la maturazione della persona, ponendosi di fronte alla sua originalità e mettendosi a disposizione delle sue potenzialità imprevedibili.
Ciò è contenuto nella stessa parola «educare», estrarre, far apparire, aiutare a venir fuori, ad esprimere. Il suo significato etimologico non va esasperato nella pratica e nemmeno preso letteralmente, perché l'educazione offre al soggetto contenuti elaborati e bada alla loro assimilazione. Ma è molto attenta ai processi personali, alle possibilità del soggetto, e a ciò che sgorga da lui nel contatto con un patrimonio obiettivo di cultura. Tutto va interiorizzato e riespresso. E tutto lascia nel soggetto una traccia, va creando una forma e una struttura. Ed è questo ciò che interessa di più all'educazione.
Ci sono dunque non poche ambiguità da dissipare riguardo alla richiesta di un salto di qualità nell'educazione per gli anni 90. Si dà certamente una velocità di sviluppo scientifico-tecnologico a cui ci si dovrà adeguare nella preparazione delle giovani generazioni. Si costata pure una vigorosa espansione di conoscenze nei vari campi del sapere che esigerà sforzi per nuove sintesi e metodi rinnovati.
Ma educare non dice primariamente trasmettere, travasare conoscenze e abilità. È piuttosto preparare la persona a dominare i problemi che emergono appunto da tali situazioni per garantire la qualità della sua vita. Il problema centrale dell'educazione non è se si riuscirà a produrre di più o con sistemi più avanzati, ma se la nostra vita personale e sociale sarà più degna, piena e felice.
Interrogarsi dunque sull'educazione nel decennio che si apre è immaginare lo scenario in cui si giocherà la dignità della persona e il senso della vita e, di conseguenza, predisporre il corredo intellettuale, morale e pratico necessario ai singoli e ai soggetti sociali per superare condizionamenti e situazioni negative e saper utilizzare le risorse offerte. È determinante esplicitare verso quale immagine o tipo di uomo o donna si orienterà lo sforzo educativo. Si potrà così evitare il rischio di pensare l'educazione in funzione di sistemi politici, di monopoli culturali o di urgenze produttive. Si eviterà pure il pericolo di adeguarla ai bisogni immediati degli interessati e rinchiuderla in orizzonti angusti ed egocentrici.
C'è infatti da superare una certa unilateralità educativa che in una forma o nell'altra ha caratterizzato e caratterizza ancora alcune tendenze pedagogiche.
Forse una certa corrente portava verso un'educazione «rigorosa»: lezioni da imparare con esattezza, precisione nel dovere, costanza nel lavoro, responsabilità negli impegni. Oggi si direbbe che si dava meno importanza alla soggettività che è spontaneità ed espressione personale, curiosità intellettuale, sviluppo della propria originalità. Si proponeva invece di modellare il comportamento mediante l'osservanza delle norme, la ripetizione degli atti. Insisteva di meno sulle motivazioni e il radicamento degli atteggiamenti, perché questi erano scontati, quasi fossero ereditati nella famiglia e indiscussi nell'ambiente sociale. Variando il movimento del pendolo e con il nuovo rapporto che si è andato instaurando tra le generazioni, si potrebbe pensare di doversi limitare a sole esortazioni o semplici proposte trascurando la formazione di abitudini consistenti e valide strutture interiori. Viviamo la nostra azione educativa in tensioni bipolari.
Si tende a sottolineare la spontaneità e si trascura di fondare i valori sulla razionalità. Si apre uno spazio più grande alle preferenze individuali, ma si trova difficile condurre verso conoscenze organiche. La sopravvalutazione della utilità immediata e dei progetti a breve scadenza diminuisce la capacità riflessiva e la tenuta nello sforzo.
I nostri tempi sono di impatti forti e unilaterali. A ciò ci abituano il ritmo della vita e i mezzi della comunicazione sociale. Le mode trascinano ad accentuazioni eccessive e mettono a prova la competenza professionale e la saggezza educativa. L'educatore deve imporsi una riflessione continua, calma e arricchita sempre con nuovi dati, sulla persona: il suo essere e le sue circostanze.
LE SCOMMESSE DEGLI ANNI 90
Lo scenario educativo degli anni 90 è determinato da alcune scommesse.
* La prima è certamente la possibilità per ogni persona di accedere ai beni dell'educazione. Viviamo in una società a doppia velocità non solo a livello internazionale, in cui si apre sempre di più il divario tra Nord e Sud, paesi ricchi e paesi poveri; ma anche all'interno di ogni paese e di ogni città. Basta leggere le cronache o camminare per le periferie per rendersi conto che ricchezza e povertà, Nord e Sud convivono, sebbene in diversa misura in ogni dove.
L'educazione sembra reggersi con la legge del mercato e della concorrenza. Gli avvantaggiati riescono mentre i più deboli rimangono esclusi o cadono durante la corsa. Il loro numero cresce per l'abbandono scolastico, il fenomeno dell'impoverimento, dell'immigrazione e delle nuove piaghe sociali. E ciò accade anche dove c'è eccedenza di opportunità, molteplicità di agenzie e centrali di educazione, dove si impiegano nuovi strumenti e metodi di informazione e apprendimento.
Sembra come se vigesse il principio della selezione naturale piuttosto che la tutela del diritto di tutti all'educazione.
La sfida consiste nel riuscire ad espandere l'offerta di educazione, creando percorsi adeguati anche per chi parte da posizioni svantaggiate o soffre incidenti nel cammino, con sbocchi non di basso profilo o addirittura di scarto, ma che consentano lo sviluppo della persona e l'impiego sociale delle sue risorse.
Per quanto ideale, questo traguardo dovrà orientare lo sforzo degli anni a venire se si vuole una società diversa.
* Ma c'è poi la scommessa della qualità intesa non soltanto come adeguamento a nuovi sistemi di produzione, ma soprattutto come preparazione delle persone a gestire e risolvere positivamente i problemi che sorgeranno da situazioni inedite.
Noi viviamo e vivremo in una società sempre più complessa e frammentata, dove i messaggi e gli influssi si incrociano, si rimescolano, si neutralizzano a vicenda. Forse tempo addietro si riconosceva l'autorità di alcune istituzioni alle quali si delegava il compito di elaborare e trasmettere valori e norme di vita: la famiglia, la scuola, le istituzioni politiche e religiose. Esse provvedevano sintesi, motivazioni, modelli di vita, esperienze tipiche. Creavano un forte senso di appartenenza.
Oggi viviamo, si dice, in una società «trasparente»: l'informazione ci arriva a getto continuo, il dibattito pubblico sta diventando un grande luogo di educazione o il contrario.
In questa opinabilità di tutto, nessuno riesce a proporre autorevolmente un senso, un riferimento etico completo e fondato. La responsabilità individuale si va allargando.
Le scelte lasciate alla persona sono sempre di più e più importanti. Si parla di privatizzazione dell'etica. Si è affermato che la scuola di stato non può impartire un insegnamento morale perché ciò sarebbe un'imposizione da regime.
La persona si trova libera e sola, condizionata da messaggi e proposte e obbligata a decidere a proprio rischio. A sua disposizione ci sono mezzi impensati e potenti. Alla sua coscienza vengono affidate realtà che finora sembravano sacre e intoccabili: la vita nascente che può manipolare o eliminare, la propria morte sulla quale può decidere, l'uso della sessualità e la forma della famiglia; insieme ad altri poi, con il sistema economico e produttivo che appoggerà, decide il destino di interi popoli. La qualità dell'educazione si giocherà nel colmare lo scompenso che appare oggi tra coscienza e potere di decisione. La prima deve crescere, comprendere la portata storica delle proprie scelte, liberarsi della pura soggettività, cogliere la consistenza obiettiva delle realtà e valori sempre di più collocati sul mercato come optional.
* Collegata alla precedente c'è una terza scommessa; quella dell'educazione continua, che si protrae per tutta la vita. Se il nodo principale che dovrà affrontare l'educazione non è la preparazione tecnica ma una maturità umana e culturale proporzionata alle sfide che si devono affrontare, la persona non finirà mai di educarsi.
E ciò cambierà l'impostazione della prima educazione e delle istituzioni che la provvedono. Il criterio precedente che distingueva nettamente il periodo dell'apprendimento da quello dell'impiego delle conoscenze e competenze acquisite ha lasciato il passo all'alternanza tra tempi di lavoro e tempi di arricchimento culturale, ma soprattutto ha consacrato la necessità di una crescita personale che si prolunga fino all'ultima età della vita. Il segno più lampante è l'università per gli anziani. L'educazione iniziale dovrà provvedere sintesi di partenza, svegliare nella persona energie di crescita, provvedere metodi, fornire strumenti di orientamento per un viaggio che durerà tutta la vita: insomma insegnare ad imparare e non solo conoscenze, ma nuove visioni globali conformi ai cambiamenti, adeguamenti di condotte e modalità di rapporti, tecniche di lavoro e uso di nuovi strumenti.
PISTE PER L'EDUCAZIONE DEGLI ANNI '90
Ogni sforzo di anticipazione ci lascia perplessi. La lista di profezie e preannunci che non si sono avverati è infinita. La storia non di rado fa saltare tutti i calcoli. Eppure una operazione di immaginazione per scoprire i punti fecondi è necessaria, anche ammettendo che il futuro porterà l'imprevedibile. Si possono perciò enunciare alcune piste che vanno incontro alle scommesse che abbiamo enumerato.
La persona al centro dell'attenzione
Quando progettiamo l'educazione prendiamo in considerazione diverse realtà: il sistema scolastico, la struttura educativa, i programmi, gli educatori, il soggetto, cioè colui al quale si rivolge lo sforzo di educazione. Metterlo al centro vuol dire ordinare il tutto alla sua crescita come persona. Il che non sempre è avvenuto e non sempre avviene.
La persona è l'unico investimento sicuro per il futuro. Le cose cambieranno, le conoscenze aumenteranno e si ristruttureranno, i metodi di ricerca si perfezioneranno. La persona resterà a gestire la complessità delle conoscenze, dei rapporti, dei problemi, delle tensioni.
E chiaro che la centralità non va intesa come uno sconto nelle esigenze educative, come indulgenza irresponsabile di fronte alla fragilità, come pura soddisfazione dei bisogni immediati, con sacrificio delle grandi idealità. Non si tratta di seguire la corrente della pura soggettività né di indulgere alla spontaneità. Va intesa invece come un'attenzione ai processi di assimilazione e interiorizzazione che la persona va facendo, come superamento della forma impersonale e massiva nell'offrire i contenuti senza calcolare le reazioni del destinatario. Si tratta in una parola di esercitare la persona ad essere «soggetto» e non oggetto in qualsiasi situazione verrà a trovarsi, con abitudini e strumenti per leggere correttamente la realtà e capacità di decisioni personali e motivate.
Può essere illuminante la formulazione con cui i salesiani hanno espresso questa esigenza di badare non soltanto a quello che indica il programma ma soprattutto a quello che capita nel soggetto: «Sul piano della crescita personale vogliamo aiutare particolarmente il giovane a costruire una umanità sana e equilibrata, favorendo e promuovendo:
- una graduale maturazione alla libertà, all'assunzione delle proprie responsabilità personali e sociali, alla retta percezione dei valori;
- un rapporto sereno e positivo con le persone e le cose che nutra e stimoli la sua creatività e riduca conflittualità e tensioni;
- la capacità di collocarsi in atteggiamento dinamico-critico di fronte agli avvenimenti, nella fedeltà ai valori della tradizione e nell'apertura alle esigenze della storia, così da diventare capace di prenderne la dinamica di crescita, di donazione e di incontro, all'interno di un progetto di vita;
- la ricerca e la progettazione del proprio futuro per liberare e convogliare verso una scelta vocazionale precisa l'immenso potenziale che è nascosto nel destino di ogni giovane, anche nel meno umanamente dotato».
* Con questo si risponde a due sfide del momento. In primo luogo si abilita la persona a misurarsi con i condizionamenti inevitabili della crescente complessità, a non fuggire e a non soccombervi. Di fronte ad essa non tutti reggono, per difetto di consapevolezza o di risorse fondamentali. La cultura del soggetto va dunque promossa fino alle sue possibilità più grandi senza timore delle complicazioni che questa apertura comporta; ma allo stesso la vita va salvaguardata e continuamente sostenuta nei suoi punti fondamentali, smarriti i quali si cade nella passività, nella dipendenza, nella rinuncia a costruirsi.
Mirando alla qualità della persona poi l'educazione assicura anche il fattore chiave di ogni progresso umano e sociale, di ogni sviluppo scientifico-tecnologico. Risponde dunque anche alla sfida dell'adeguamento alle nuove esigenze del lavoro. La specializzazione in base alla divisione materiale del lavoro, che era il criterio della preparazione professionale, è stata superata. Oggi ci si affida a persone capaci di dominare «sistemi» di conoscenze e di lavoro, capaci di intuizione e scoperta, disposte a lavorare in collaborazione e ad affrontare con professionalità aperta nuovi problemi e nuove aree di ricerca.
* In questa linea la formazione della coscienza occupa un posto preminente. Non soltanto perché è stata sempre il cuore dell'educazione, definita appunto come «un'abilitazione a percepire il bene e agire con rettitudine». Ma anche per le dimensioni che la cosiddetta «questione morale» ha assunto nella nostra società. Essa non è congiunturale e non si deve soltanto a piccoli peccati di persone cittadini o autorità, ma è interna e quasi costitutiva della cultura attuale. È dovuta proprio al cumulo di questioni inedite su cui la persona deve pronunciarsi e agli spazi aperti alla sua libertà.
Su molte di queste questioni, i programmi educativi e le politiche culturali si limitano ad una informazione ampia e neutra con un richiamo generico alla responsabilità personale. La sensibilità che diffondono potrebbe essere definita un «minimo etico», certamente utile, ma per lo più formalistico e carente di fondamento. Se non interverranno con maggior incidenza altri influssi educativi, la capacità di giudizio morale accuserà uno scompenso di fronte al progresso economico e tecnologico e alle esigenze della vita sociale.
D'altra parte è vero che non basta e non è più possibile un'etica delle sole «norme». E il ritorno ad essa sarebbe inadeguato, soprattutto se tali norme fossero impersonali, ingiustificate, indiscriminate, funzionali a forme di organizzazione che non si vogliono modificare.
Ma i giovani stessi insorgono quando si sottovaluta o si ignora la loro responsabilità. Si tratta di una istanza di dignità. Si tratterà allora di sviluppare un'etica del senso e del fondamento, della responsabilità e della crescita, che non si riduca ad «un aspetto» dell'educazione quasi fosse una materia, ma sia la sua inquadratura fondamentale, la dimensione costitutiva di ogni attività. Senza scadere nella predica moralistica ciascuno va aiutato a muoversi verso quello che è umanamente più degno secondo le proprie possibilità, appoggiato da conoscenze e motivazioni adeguate, verso un'identità né «forte» né «debole» per principio, ma costruita su risposte autentiche.
Lavorare sulla cultura
L'educazione non è stata ieri, non è oggi e non sarà domani un'operazione che si compie sotto una campana di vetro. Si nutre invece della cultura, quell'insieme di realizzazioni, criteri, modalità di rapporti, acquisizioni della comunità umana in cui viviamo.
L'educazione fa sì che la cultura non sia dimenticata e nemmeno venga semplicemente trasmessa, ma diventi un processo accumulativo in cui quello che è stato già acquisito è messo a disposizione delle nuove generazioni, e queste vengono preparate per valutarlo criticamente e arricchirlo con nuovi contributi. Così la cultura non sta soltanto attorno alla persona, ma la penetra e si radica in essa come un dinamismo che spinge ad evolvere verso il meglio mediante l'uso della ragione. In tal senso la cultura, oltre ad essere l'ambiente e il principale strumento di educazione, è anche il suo risultato.
Tutti questi aspetti sono messi bene in luce dalla descrizione che ne fa il Concilio Vaticano II: «Col termine generico di cultura si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l'uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine coll'andare del tempo esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano» (GS 53).
È fondamentale per l'educazione dirsi come si aiuterà ad assimilare e arricchire un patrimonio di cultura, come si abiliterà a decodificare e rielaborare i suoi contenuti, quale cultura verrà offerta. E di conseguenza quale immagine della vita e del mondo si andrà modellando nella mente del soggetto.
Per valutare la cultura come contenuto dell'educazione si sono adoperati diversi parametri in forma di polarità: l'essere e l'avere, le persone e le cose, la vita e la morte, la trascendenza e l'immanenza. Se ne possono inventare altri che mettono in luce un'unica constatazione: la cultura e ciascuno dei suoi aspetti non sono neutri. Hanno un orientamento, contengono delle scelte, provvedono motivazioni, comunicano significati. Inoltre penetrano silenziosamente nelle coscienze e vanno decantando e come consacrando criteri collettivi, codificando risposte agli interrogativi fondamentali dell'uomo.
Così le persone possono sentirsi come trascinate a dare il primato al possesso dei beni materiali e a sottovalutare la dimensione più umana e spirituale dell'esistenza. Una vera cultura dovrebbe portarci ad amare le persone e a usare le cose. Può darsi che tutto quello che diciamo e insegniamo ci porti ad amare le cose e ad utilizzare le persone, invertendo così i valori fondamentali.
Un'altra polarità enunciata esprime che la cultura è esposta alla tentazione di esaltare il potere tecnico, economico o politico, e mettere in secondo piano il criterio etico. I libri abbondano di apologie al potere delle armi, dei sistemi. Ci sono modelli di educazione che si fondano sulla capacità di imporsi e prevalere. Così anche qualche sintesi culturale può portare alla cecità o alla indifferenza di fronte al mistero, essere «irreligiosa» in senso secolare prima che confessionale, perché ferma il pensiero lì dove esso si affaccia sulle questioni religiose; mentre altre impostazioni culturali alimentano la capacità di meravigliarsi, di domandarsi, di sperare, di intuire, di credere.
Il documento della CEI sulla «Scuola Cattolica in Italia oggi» raccomanda di promuovere una cultura «umana» in cui l'uomo sia il valore supremo e il resto diventi strumentale; di una cultura «del senso», cioè guidata da una visione delle finalità ultime e non soltanto dalla funzionalità e dall'utilità immediata; di una cultura «etica» e non soltanto del guadagno e della concorrenza; e di una «cultura solidale» e non soltanto del profitto individuale.
Ciascuna delle espressioni merita un commento. Ma per gli anni 90 che ci stanno davanti è importante sottolineare la dimensione che va prendendo la solidarietà come componente di una nuova cultura planetaria.
Essa viene suggerita da un insieme di fenomeni. È un'aspirazione diffusa che sale dal profondo delle coscienze, dal cuore degli avvenimenti, e si manifesta sotto forme inedite e quasi inattese. Viviamo infatti in un contesto multietnico, plurireligioso, pluriculturale e ci arrivano gli appelli di popoli lontani. Accoglienza, tolleranza, giustizia, condivisione sembrano condizioni per poter convivere e sopravvivere.
La solidarietà appare dunque come un'esigenza indifferibile di fronte ai macrofenomeni mondiali preoccupanti, quali il sottosviluppo, la fame, lo sfruttamento. Sembra dare un principio di soluzione alle carenze irrisolte intorno a noi, come l'accoglienza di chi arriva sprovveduto e indifeso. Offre una certa terapia a gesti e atteggiamenti disgreganti, quali l'omertà, l'indifferenza, l'insensibilità di fronte alla sofferenza, la fuga dagli impegni pubblici. Ispira iniziative esemplari come i piani di aiuto, il volontariato e i movimenti di opinione che vanno modificando il rapporto tra privato, sociale e politico.
Ma tutto ciò suppone una visione del mondo e una concezione della persona. Per quanto riguarda il mondo, l'interdipendenza diviene la chiave interpretativa dei fenomeni positivi e negativi dell'umanità. Niente ha una spiegazione esauriente o una soluzione ragionevole se viene rinchiuso in sé e considerato in forma isolata. Ogni fenomeno va rapportato ad altri su cui influisce e dai quali viene provocato, rafforzato o equilibrato: insieme formano la trama e il tessuto della storia umana. Povertà e ricchezza, denutrizione e spreco, inquinamento e forme di produzione, guerra e potere, criminalità e pace, Nord e Sud sono fenomeni correlati, anche se non in maniera meccanica né uniforme. Nella relazione che si stabilisce tra di essi incide la cultura, cioè la visione che ci si fa dell'uomo e del mondo e interviene la responsabilità e la coscienza umana.
La persona a sua volta va considerata non come un essere che prima si costituisce «in sé», incomunicata, e soltanto in un secondo momento, quasi come per dovere etico, si orienta verso gli altri. Essa invece plasma la sua esistenza originale nel rapporto, percepito e assunto responsabilmente; riesce ad essere se stessa in una interdipendenza obiettiva e arricchente. La persona è apertura. Vive nella storia, nel proprio guscio invece si esaurisce.
La solidarietà si estende dunque simultaneamente agli atteggiamenti e alle strutture: riguarda il livello privato e quello pubblico, attinge la sfera personale, sociale e politica; comprende l'ambito familiare, nazionale e internazionale, senza possibilità di delega da parte di nessuno. Ciascuno di noi ha la sua parte nella tranquillità domestica. Ma nondimeno nella pace del mondo. Essa pure dipende da noi, come da noi dipendono l'ambiente e la giustizia internazionale. Se è vero che il mondo è diventato un villaggio, non è possibile vivere da persone consapevoli assumendo soltanto la prospettiva del focolare, del quartiere o del paese. Alcune evidenze collettive, che oggi determinano decisioni a raggio mondiale, ebbero inizio da una mobilitazione delle coscienze, delle opinioni, delle collaborazioni più umili e in apparenze insignificanti.
Proprio per questo si auspica una «cultura» della solidarietà e per essa si vorrebbe lavorare. All'infuori di essa ogni sforzo o programma risulta insufficiente, non soltanto per risolvere questioni internazionali, ma anche semplicemente per affrontare con dignità e profondità umana i problemi che appaiono nell'ambito immediato.
Cultura e non solo virtù o azione buona sta ad indicare sinteticamente la portata dell'attuale impegno per preparare un mondo diverso. Infatti i gesti esemplari di solidarietà abbondano. Persone generose e ben ispirate si trovano dappertutto. Ma c'è una frattura tra i diversi ambiti in cui si svolge la vita, tra gesti quotidiani e mentalità collettiva, tra sentimenti personali ed espressioni sociali, per cui una sembra essere l'etica delle convinzioni personali e un'altra quella delle responsabilità pubbliche.
Parafrasando l'Evangelii Nuntiandi si direbbe allora che anche riguardo alla solidarietà «bisogna raggiungere e quasi sconvolgere i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita» (n. 19). La cultura in effetti richiama non tanto a fatti spontanei, pur numerosi, ma ad un impiego razionale e sistematico delle energie personali e reali di cui dispone l'uomo per affinare il suo spirito e trasformare il mondo. Indicatori della sua validità e incidenza sono le mete ideali che si propone, le intuizioni che mette all'opera per risolvere le sfide del presente, l'organicità delle sue manifestazioni, la condivisione da parte della collettività di tali ispirazioni e realizzazioni. Sarebbe ottimistico fuori misura pensare che siamo molto avanti nel cammino di questa cultura. Così come non corrisponde a verità ignorare le enormi energie che si stanno muovendo nella linea della solidarietà. Si tratta dunque di un «compito», di una realtà da costruire piuttosto che di un'eredità da mantenere. Siamo agli inizi, alla partenza, come in un esodo verso un'altra forma di pensare l'umanità e, di conseguenza, di convivere nel mondo.
Il crollo dei muri, pur aprendo spiragli di futuro e provocando gesti apprezzabili di comprensione, ci ha lasciati ideologicamente ancorati ad un esasperato individualismo che viene temperato soltanto da una solidarietà, quasi festiva, del «tempo libero», degli «intervalli». Parlare di cultura della solidarietà è passare dalle buone azioni individuali ad un principio organizzativo dell'esistenza sulla base del bene comune e della reciprocità; ad un riferimento centrale in un sistema di valori e di rapporti; da un «umanesimo dell'io ad un umanesimo del «noi», a partire dalla realtà arricchente ed esigente degli altri.
Ciò comporterà operare un capovolgimento nella lettura della realtà, nelle valutazioni e persino nel vocabolario. Sotto le parole medesime infatti, e tanto più nelle reazioni abituali, covano pregiudizi, intolleranza, contrapposizioni ancestrali, autosufficienza corporativa, senso di superiorità.
Sviluppare nuovi modelli di comunicazione
Ma come mettere a contatto con la fonte viva della cultura in un ambiente così ricco di voci e di messaggi, ma «babelico», cioè dove le stesse parole rimandano a diversi significati? C'è un elemento che ha preso rilevanza estrema nell'educazione in quest'ultimo tempo: la comunicazione, la possibilità di comunicarsi e di comunicare in forma intelligibile tra generazioni, gruppi, persone singole. Ma anche qui c'è da rilevare un vantaggio e una difficoltà per l'educazione degli anni 90. La comunicazione non appare facile. E ciò perché da sistemi semplici di comunicazione si è passati a sistemi articolati e complessi.
I sistemi semplici sono quelli in cui gli interlocutori sono conosciuti, i temi e i riferimenti sono chiari e accettati, gli strumenti sono pochi. Così avveniva prima tra istituzioni educative e giovani, tra genitori e figli, tra chiesa e fedeli, tra istituzioni politiche e cittadini. Gli esiti erano scontati.
Nei sistemi complessi gli interlocutori sono molti e sovente anonimi, la loro parte nel dialogo non è totalmente definita, i temi sono innumerevoli, le impostazioni impreviste, i canali molteplici.
Basta ricordate l'immagine televisiva dell'agente di borsa che ha un telefono a ciascun orecchio, guarda un monitor, sente un citofono e fa segni con le dita a non meno di cinque clienti che gli stanno di fronte. È l'immagine della situazione in cui viviamo tutti. Una volta in un gruppo di giovani abbiamo commentato dei film. Ce n'era per tutti i gusti. Sulla base di quello che i giovani avevano visto abbiamo parlato di amore, sesso, erotismo e omosessualità, di politica, elezioni, servizi segreti e società clandestine; di cattolicesimo, ebraismo, religiosità esotiche e riti satanici; della comunità europea e del mondo arabo; di Bush e Gorbaciov, Clinton e Hillary, Saddam Hussein e Giovanni Paolo II; di Gesù Cristo, Budda e Maometto. Non rimase personaggio che non venisse commentato né opinione o dogma che non fosse discusso.
Tutto sfiorato, nulla approfondito, e meno ancora definito. Non c'erano temi riservati, segreti di stato, adesioni obbligatorie a sistemi di pensiero. E tutto come se si esercitasse un diritto che non ha bisogno di essere rivendicato, perché è ormai riconosciuto. Viviamo, si è detto, in una società dove tutti possono informarsi ed esprimersi, tutti ascoltano e si riservano il diritto di formarsi la propria opinione.
Proprio in questa società si pone il problema di nuovi modelli di comunicazione nell'educazione. L'uomo dell'era elettronica resiste a concetti astratti e preferisce l'immagine emotiva, resta indifferente di fronte al ragionamento logico e coglie i messaggi dei simboli. Cede di fronte al consenso e all'origine comune ma resiste all'imposizione.
I nuovi modelli di comunicazione si sviluppano dunque su tre direzioni.
* La prima è quella dell'incontro personale al posto del rapporto a distanza, di autorità; del dialogo a tutto campo al posto dei segreti o informazioni limitate; della trasparenza o spiegazioni reali al posto delle mezze verità. Quello che sta capitando oggi con la sessualità può servire di esempio. Nel loro sforzo di formarsi una visione del mondo i giovani ascoltano, reagiscono, provano, interiorizzano, sperimentano. Si sentono come in un mercato dove possono vedere il prezzo e il valore delle proposte, e prendere quelle che gli vanno bene.
La testimonianza e la parola, capaci di far folgorare luce e speranza, troveranno udienza. L'educatore del futuro sarà quello che saprà orientare, fra la molteplicità di messaggi e visioni, verso una scelta di valori e criteri capaci di dare consistenza ad una crescita continua.
* La seconda chiave dei nuovi modelli di comunicazione è la partecipazione e corresponsabilità nel processo educativo al posto della semplice accettazione. La libertà va guadagnando terreno fino a sconfinare nel libertarismo. Quest'ultimo è da scartare nell'educazione, perché è troppo sbilanciato sui bisogni immediati, rivela mancanza di serio impegno riguardo ai valori obiettivi e finisce fissando il soggetto in una posizione narcisista.
La libertà è invece la principale energia per lo sviluppo della persona. Questa deve interiorizzare le proposte educative attraverso l'esperienza e la riflessione ed elaborare così le proprie conclusioni. Soltanto se si diventa soggetto e non solo oggetto dell'azione educativa le proposte entrano nella coscienza e diventano patrimonio valido per la vita.
* Ma c'è un terzo elemento chiave nei nuovi modelli di comunicazione: è la creatività. Oggi vengono valorizzati i cosiddetti «luoghi vitali», accanto alle tradizionali istituzioni educative. Queste influiscono attraverso le strutture, i programmi, i ruoli, le norme.
Ma appaiono insufficienti per soddisfare le domande di senso e di rapporti che i giovani presentano. I luoghi vitali danno spazio alla spontaneità rivolta al positivo, alla condivisione libera, all'amicizia, all'accettazione vicendevole, all'utopia, al linguaggio simbolico, ai progetti. Tra i luoghi vitali vanno annoverati i gruppi, le iniziative di volontariato, il turismo giovanile, i centri che promuovono la collaborazione in iniziative varie.
Non è fuori posto ricordare che Don Bosco, per intuizione piuttosto che per conoscenze teoriche, diede origine a un sistema comunicativo totale: l'oratorio, intriso di spontaneità e libera espressione, in cui c'erano ruoli riconosciuti e rapporti informali, si alternavano programmi proposti a tutti e portati avanti con regolarità e spazi di creatività personale e di gruppo.
La città educativa
Ma la convinzione che sta guadagnando terreno è che in una società comunicativa l'educazione, piuttosto che un'attività settoriale affidata ad alcune istituzioni specializzate, dovrà costituire un'attenzione globale.
L'educazione veniva concepita come un'azione rivolta all'individuo, anche se con forti connotazioni sociali. C'era una divisione abbastanza netta tra il compito dell'educazione, che consisteva nel preparare le persone una ad una, l'ambito culturale a cui veniva demandata l'elaborazione del sistema di valori, norme e simboli su cui si regge una società, e la responsabilità socio-politica a cui si attribuiva l'esercizio del potere in ordine al bene comune e al funzionamento delle strutture.
Non va negata quest'attenzione al singolo che viene privilegiata nell'educazione. Ma bisogna rilevare che politica ed educazione sono strettamente collegate: non soltanto nel senso che quest'ultima assicura il diritto all'educazione, stabilisce il sistema educativo e sviluppa un'azione intelligente di ampia prevenzione, ma anche nel senso che la vita pubblica costituisce essa medesima «la grande scuola quotidiana» da cui adulti e giovani ricevono lezioni pratiche. Se il 73% degli italiani dice «no, grazie» alla partecipazione ad organizzazioni sociali e politiche (cf Rapporto ISPES), non è perché la partecipazione non sia stata messa in luce nel periodo educativo, ma perché le istituzioni hanno provocato disaffezione e sfiducia.
C'è uno slogan che esprime questa realtà: «la città educa», lo stile e il tono della vita pubblica crea mentalità. Per cui non soltanto si insiste sul collegamento di tutte le agenzie di educazione, non soltanto si vuole la loro presenza attiva nel dialogo cittadino di ogni tipo, ma si raccomanda che venga considerata sempre la valenza educativa di ogni misura politica ed economica.
È inutile si dice che le istituzioni educative cerchino di proporre un certo tipo di comportamenti se la vita pubblica è poi governata da altri criteri, perché è questa che finisce col modellare i nostri comportamenti. È difficile inculcare la giustizia se nella vita pubblica domina la collusione e il compromesso. Risulta arduo convincere del valore dell'onestà e della trasparenza se si ha l'impressione, o peggio la convinzione, che nella sfera degli affari rende di più il cinismo. Educazione, cultura e politica formano un'unità, per cui chi vorrà fare un salto di qualità in una di esse dovrà necessariamente cercare i collegamenti con le altre.