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    Per una teologia della missione



    Luis A. Gallo

    (NPG 1991-08-11)


    Ci sono anche oggi non pochi cristiani che si danno con entusiasmo all'azione missionaria. Forse non in un numero così rilevante come qualche decennio fa, dati i cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella società, ma pur sempre in quantità notevole.
    Alcuni di essi lasciano la propria terra e se ne vanno in terre lontane, seguendo il nobile ideale di portare il Vangelo di Gesù Cristo a persone e popoli che o non lo conoscono o lo conoscono ancora in modo embrionale.
    Altri danno generosamente il loro appoggio di retroguardia, sia sostenendo e animando spiritualmente l'attività missionaria di quelli di avanguardia, sia aiutando materialmente il loro servizio di evangelizzazione, sia ancora mantenendo viva la fiamma missionaria nelle comunità di antica tradizione cristiana. In tutti questi la parola «missioni» esercita di solito un forte fascino. Spesso essa tocca anche le loro fibre più sensibili e li muove ad azioni che rivelano una grande generosità. Ora, è importante, affinché questo straordinario potenziale umano e spirituale non venga snaturato, che il loro entusiasmo sia illuminato adeguatamente. E uno dei punti da illuminare è proprio quello del rapporto tra «missioni» e «missione».

    La problematica concreta

    Che ci sia bisogno di quest'illuminazione lo dimostra la situazione problematica in cui è attualmente coinvolto tale rapporto. Infatti, non poche volte succede che delle persone si danno ad una febbrile attività volta ad appoggiare - soprattutto materialmente - coloro che lavorano in quelle che vengono dette «terre di missione», ma finiscono per dimenticare ciò che costituisce l'anima di tutto ciò che essi stessi e gli altri fanno. Dimenticano cioè che alla base delle missioni c'è la missione. È come se tutto ciò che fanno restasse sospeso per aria, mancante di sostegno. Si potrebbe esprimere questa situazione con una formula molto concisa: «missioni contro missione».
    Altri, invece, e specialmente alcuni che hanno già fatto proprio il pensiero ecclesiologico del Concilio Vaticano II, pensano che le missioni, intese come «andata» a portare il Vangelo di Gesù Cristo a coloro che non lo hanno ancora ricevuto o hanno appena iniziato ad accoglierlo, non abbiano più senso. Diversi orientamenti conciliari, ovviamente non molto ben assimilati, a cui faremo cenno in seguito, li hanno portati a quelle drastiche conclusioni. Anche questa situazione si potrebbe esprimere con una formula concisa: «missione contro missioni». Tanto gli uni quanto gli altri dovrebbero cercare di illuminare il vero concetto di «missione» e il suo rapporto con quello di «missioni», per trovare il giusto modo di intendere le cose, e soprattutto per orientare il proprio impegno.

    IL QUADRO GLOBALE Dl RIFERIMENTO: LA MISSIONE DELLA CHIESA

    Potremmo sintetizzare quest'illuminazione nelle seguenti parole che poi espliciteremo: le missioni, intese nel senso sopra accennato, non trovano la loro genuina ubicazione se non nel grande quadro di riferimento della missione globale della Chiesa; da essa devono trarre la loro identità fondamentale, e al di fuori di essa corrono il rischio di perderla.
    Cominciando a esplicitarle, dobbiamo tener presente che la missione non è per la Chiesa qualcosa di accidentale, qualcosa di aggiunto al suo essere già costituito. Essa fa parte della sua stessa essenza.
    Un tempo i trattati teologici che parlavano della Chiesa venivano divisi in due parti: prima, la sua natura; seconda, la sua missione. In questo modo la missione veniva sganciata dalla natura della Chiesa. Ancora durante la prima tappa della sua celebrazione, il Concilio Vaticano II era dominato da questa mentalità. Infatti, le due domande poste dall'allora card. Montini che incanalarono finalmente le riflessioni conciliari, fino a quel momento ancora in balìa del disorientamento, furono: «Chiesa, cosa sei?»; «Chiesa, cosa devi fare?». Natura e missione della Chiesa, come due aspetti distinti tra di loro. Come se il suo «da fare» non appartenesse alla sua stessa natura.
    Ma a poco a poco però il Concilio riuscì a superare questa dicotomia e a ricucire questa scissione. Allora la Chiesa si riscoprì tutta missionale. Prese cioè coscienza del fatto che l'essere inviata non era solo un'appendice, importante certamente ma sempre appendice, del suo essere, ma qualcosa che apparteneva essenzialmente ad essa. E non poteva essere altrimenti se, come aveva più di una volta ripetuto papa Giovanni XXIII, il Concilio si era radunato per aiutare tutta la Chiesa «a guardarsi allo specchio», e a rimuovere dal suo volto quanto lo sfigurava distanziandola dal suo Fondatore. Fu questo il nucleo dell'operazione condotta coraggiosamente dal Vaticano II: riportare l'intera Chiesa alla sua genuinità originale, a ricalcarsi su Colui che le aveva dato vita, Gesù Cristo, scrollandosi di dosso, dove era necessario, tante incrostazioni che il tempo era andato accumulando tra le sue pieghe. In una parola, a riprendere ciò che è stato «sin dagli inizi». E ciò che è stato «sin dagli inizi» è appunto la persona e la vicenda di Gesù di Nazaret. È lui la definitiva ragion d'essere della comunità ecclesiale. Di coloro, cioè, che vogliono soprattutto seguire la sua proposta di vita e di azione.
    Se le cose stanno così, è imprescindibile tornare sempre di nuovo a riscoprire la sua figura e le sue intenzioni di fondo. Ogni generazione di credenti - e ogni credente personalmente - deve farlo, per poter mantenere la coerenza con il proprio progetto di vita. Orbene, rivisitando le informazioni che ci sono state tramandate negli scritti neotestamentari, noi cogliamo dei dati decisivi per ciò che riguarda la nostra riflessione.

    Gesù di Nazaret, uomo «in missione»

    Cogliamo, come primo dato, che Gesù di Nazaret vi appare come un uomo profondamente unificato attorno a una preoccupazione centrale. Una preoccupazione che egli vive come una «causa» alla quale consacra con passione tutto se stesso. L'impressione che sulla sua figura si ricava da una lettura pur veloce dei vangeli, è quella appunto di un uomo che non vive disperso in mille cose, sballottato di qua e di là da mille preoccupazioni diverse, ma concentrato costantemente attorno ad «una sola cosa» (Lc 10,42). A questa sola cosa egli dedica tutte le sue energie: corporali, psichiche, intellettuali, volitive, spirituali. Cogliamo dai testi, come secondo dato, che ciò che lo unifica profondamente viene espresso in termini che in quel momento avevano una forte presa sulla gente del suo popolo, come «regno di Dio» (Mc 1,14-15; Mt 4,17). Egli brama ardentemente (Lc 12,49) che il Dio con il quale è in strettissimo rapporto filiale, fino a chiamarlo «Abbà» (Mc 14,36), possa regnare nel mondo degli uomini. E a questo scopo orienta tutti i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue parole e le sue azioni. Questo regno di Dio è per lui qualcosa che riguarda certamente Dio, ma che riguarda anche e molto strettamente gli uomini nella loro concretezza. È interessante osservare che, mentre l'annuncio suo e quello di Giovanni Battista sono esattamente uguali (cf Mt 3,2 e 4,17), il modo di realizzarlo è molto diverso. Tra l'altro, Giovanni vive nel deserto, lontano dalla convivenza degli uomini, e fa venire la gente da lui per battezzarli; Gesù invece vive costantemente immerso tra la gente, fino al punto che alle volte non ha nemmeno il tempo di mangiare a causa delle richieste che lo incalzano (Mc 3,20). Questo perché ciò che egli cerca per il suo Dio e Padre si realizza tra la gente e in favore di essa. Il regno di Dio non è poi per lui qualcosa di meramente spirituale, una questione solo interiore, di cuori o di spiriti. Lo si vede dalle parole che dice cercando di far capire le sue idee al riguardo, soprattutto dalle sue parabole, e specialmente dai segni che pone. Egli fa molte cose, ma tra esse spiccano soprattutto queste: guarisce gli ammalati, libera gli ossessi da spiriti cattivi, perdona i peccati. Ogni volta che fa una di queste azioni, realizza in piccolo il regno del suo Padre, anticipando parzialmente e provvisoriamente la sua realizzazione totale e definitiva. Per lui è regno di Dio che il paralitico torni a camminare, che il cieco riacquisti la vista, che il sordo possa ascoltare, che il lebbroso venga liberato dalla sua terribile malattia, che l'indemoniato di Gerasa torni alla sua normalità, che i peccatori siano liberati dallo schiacciante peso dei loro debiti verso Dio. È quando succedono queste cose che egli parla di regno di Dio. Quando cioè qualcuno viene restituito alla sua integrità umana, quando passa, come il figliol prodigo, dalla morte alla vita (Lc 15,24.32). Il regno di Dio che egli annuncia con entusiasmo e che cerca con tutte le sue forze, non è neanche una questione solamente individuale. Esso interessa anche la convivenza tra le persone e tra i gruppi umani. Appunto perché si dimostra realista, Gesù dà pure chiari segni di sapere che l'integrità umana degli uomini dipende anche dal loro modo di rapportarsi con gli altri. La convivenza è per loro fonte di vita e di morte, di gioia e di infelicità. E lo si vede intervenire, sempre spinto dal suo desiderio del regno del Padre, in ordine alla creazione di una convivenza che sia positiva e non negativa, una convivenza in cui non ci sia chi resta escluso, emarginato. Perciò prende posizione, con le parole ma soprattutto con la sua condotta e con le sue azioni, davanti ai grossi conflitti che attraversano la società del suo tempo: tra i sedicenti giusti e i peccatori, tra i ricchi e i poveri, tra i potenti e gli umili e piccoli, tra gli uomini e le donne. È tipica la sua maniera di definirsi nei confronti di tali conflitti: vuole che vengano risolti, ma sempre dalla prospettiva di coloro che ne soffrono più duramente le conseguenze. Perciò sono sempre i più piccoli, i più deboli, i perdenti, coloro che costituiscono l'oggetto privilegiato delle sue cure. Basta leggere con un minimo di attenzione i vangeli per averne una conferma. Per lui il suo Dio inizia a regnare quando i peccatori sono ammessi alla convivialità della mensa, sollevati dall'esclusione che li tiene da parte; quando i poveri sono fatti oggetto di attenzione e sollecitudine preferenziale, sottratti in questo modo all'emarginazione che li rende gente da poco, che non conta; quando le donne sono trattate non da cosa o oggetto, ma da soggetto degno di rispetto e ammirazione. Tutto ciò significa che la convivenza umana, mentre prima era fonte di tristezza e di morte, ora si è convertita in fonte di vita e felicità, specialmente per quelli che ne erano esclusi. Oltre a coinvolgere gli individui e la convivenza ad ogni livello tra di essi e tra i diversi gruppi sociali, il regno di Dio proclamato da Gesù coinvolge anche le strutture in cui tali rapporti si cristallizzano. Esse danno solidità a modi di convivenza, sia negativi che positivi, e in tale modo favoriscono o ostacolano l'integrità vitale degli uomini. Gesù non si dimostra insensibile neppure a questo aspetto della realtà. Lo si vede chiaramente nei suoi atteggiamenti e nei suoi interventi riguardanti, per esempio, il Tempio di Gerusalemme. Luogo santo per eccellenza del popolo, struttura socio-religiosa di primissima importanza nella sua vita, esso era diventato uno strumento di oppressione e di sfruttamento ad opera delle famiglie dei sommi sacerdoti. Questi avevano trasformato il luogo del culto al Dio liberatore e vivificante, del Dio che si era autodefinito come «colui» che ti ha strappato dalla schiavitù dell'Egitto» (Es 20,1), in una «spelonca di ladri» (Lc 19,46). L'azione intrapresa da Gesù nei confronti del Tempio poco prima dell'epilogo tragico della sua vicenda, lascia intravedere quale fosse la sua intenzione. Voleva purificare questa struttura perché tornasse ad essere casa del suo Padre, dove i figli potessero radunarsi a ringraziarlo, benedirlo, supplicarlo. E fu quest'azione, stando ai sinottici, ciò che scatenò definitivamente le ire dei suoi avversari. Essi lo vollero morto. Troppo pericoloso si dimostrava il suo progetto per la loro sicurezza e per la loro situazione di privilegio. «Se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno la nostra città e la nostra nazione» (Gv 11,48), dissero, e furono conseguenti. Non c'era scelta: o lui e la sua proposta, e allora essi e la struttura da loro sostenuta dovevano cambiare radicalmente; o essi e la loro sicurezza, e allora egli doveva scomparire. Scelsero ovviamente questa seconda alternativa. E Gesù fu messo in croce. Capiamo così fino a che punto egli era impegnato appassionatamente alla causa del regno del Padre suo e di tutti. Non si ritrasse neppure davanti alla morte. L'evangelista Giovanni, nel linguaggio che gli è proprio, condensa in queste parole del Buon Pastore ciò che nei vangeli viene presentato come la preoccupazione centrale di Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano abbondante» (Gv 10,10). Ecco ciò che sta a cuore a questo straordinario «buon Pastore». Egli, da autentico figlio del Dio Vivente, di quel Dio che «risuscita i morti e li fa vivere» (Gv 5,21), non ha altro desiderio che questo: strappare dalla morte i fratelli per farli vivere. Vivere pienamente. Tutti e ognuno, a cominciare da quelli che di vita ne hanno di meno: i piccoli, i deboli, gli emarginati, i disprezzati, quelli che non contano, gli ultimi. Un terzo dato importante cogliamo ancora dai vangeli. In essi appare chiaro che Gesù vive la sua dedizione alla causa del regno con la coscienza viva di essere stato inviato dal Padre per questo. Egli dimostra di non sentire questa causa come qualcosa originariamente sua, ma come qualcosa che gli è stata affidata da Dio e che egli ha fatto appassionatamente sua. È la sua missione.
    Presentando ciò che si potrebbe considerare come l'inaugurazione ufficiale della sua attività, Luca racconta la sua andata al suo paesetto d'origine, Nazaret. Nella sinagoga, egli legge il brano d'Isaia che gli viene offerto: «Lo Spirito del Signore è su di me, per questo egli mi ha consacrato, mi ha inviato ad annunciare la buona novella ai poveri, la liberazione ai prigionieri, il ricupero della vista ai ciechi, la libertà agli oppressi» (Lc 4,18). E conclude la lettura affermando: «Oggi si è compiuta questa scrittura in mezzo a voi» (Lc 4,21). Nel cuore della frase d'Isaia letta da Gesù c'è il «mi ha inviato», che rivela la sua coscienza missionale. Dietro a lui c'è Dio stesso, c'è il suo Spirito vivificante; davanti a lui, sta «l'annunciare la buona novella ai poveri, la liberazione ai prigionieri, il ricupero della vista ai ciechi, la libertà agli oppressi». È la segnalazione della sua missione nella sua fonte e nel suo obiettivo.

    Gesù di Nazaret convoca gente per la sua missione

    Nei vangeli cogliamo ancora un dato di rilievo per la nostra riflessione: Gesù di Nazaret non è un solitario nel portare avanti questa sua missione, ma convoca gente attorno a sé e propone ad essa di assumerla come propria. Gli evangelisti ci offrono diverse narrazioni riguardanti queste chiamate: prima, un gruppetto di pescatori che lavorano nel lago di Genesaret e che lasciano subito tutto per seguirlo (Mt 4,18-22); poi, un pubblicano di nome Levi, che era seduto al banco della gabella e che abbandona anche lui tutto per mettersi alla sua sequela (Mt 9,9); poi ancora altri, fino a completare il numero di dodici in un cerchio più ristretto (Mt 10,1); a questo cerchio più ristretto se ne aggiunse uno più largo fino a raggiungere il numero di settantadue (Lc 10,1); e uno più largo ancora che include donne (Lc 8,23), alcune altre persone che per diversi motivi non potevano stare costantemente con lui (Mc 5, 18-20; Gv 3,1), e una folla di gente che, affamata della sua parola e dei suoi segni, lo segue (Mt 8, 1). Egli si trasforma, in questo modo, in un centro di irradiazione, attorno al quale si vanno disponendo delle onde seppure più larghe di persone che subiscono il suo influsso. Ma perché li convoca e li attira? Cosa pretende da loro? Troviamo la risposta, molto nitida, nella chiamata di quelli che costituiscono il primo cerchio. Ma essa vale certamente, con le dovute proporzioni, anche per tutti gli altri. Dice, per esempio, Marco: «Poi egli salì sul monte, chiamò presso di sé quelli che volle, ed essi si avvicinarono. Egli ne stabilì dodici affinché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di cacciare i demoni» (Mc 3,13-14). Lo schema è quello solito delle chiamate bibliche. C'è sempre in esse un primo movimento centripeto, nel quale Dio attira a sé qualcuno e gli fa fare un'esperienza in qualche modo sconvolgente. Si pensi per esempio alle chiamate di Abramo (Gen 12,17), di Mosè (Es 3,1-11), di Isaia (Is 6,1-10) o di Geremia (Ger 14,10). Nel testo di Marco sopra citato tale movimento si esprime con le frasi: «chiamò presso di sé»... «stabilì dodici affinché stessero con lui». Ma a questo primo momento centripeto segue sempre nei racconti biblici un secondo momento centrifugo, nel quale il chiamato viene inviato a compiere una missione: «tu ... va'!», viene detto ad ognuno. La chiamata non è finalizzata, quindi, in ultima istanza, a produrre il movimento centripeto, ma viceversa quello centrifugo. Nel testo di Marco ciò è molto palese: «stabilì dodici... per mandarli a predicare con il potere di cacciare i demoni». Un testo di Matteo, che si può considerare parallelo a quello appena citato di Marco, specifica ancora meglio l'obiettivo dell'invio dei chiamati, ricalcando la missione stessa di Gesù: «Durante il viaggio predicate [fate da araldi] dicendo: "Il regno dei cieli è vicino". Guarite i malati, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, scacciate i demoni» (Mt 10,7-8). In poche parole si può dire che i convocati da Gesù sono inviati con la stessa missione che lui sta svolgendo: la causa del regno di Dio. Lo mette bene in rilievo l'evangelista Giovanni nella narrazione della comunicazione pasquale dello Spirito da parte di Gesù agli apostoli: «Gesù ripeté: "La pace sia con voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi". Detto questo, alitò su di essi e disse: "Ricevete lo Spirito Santo"» (Gv 19,2122). Gesù, lasciando visibilmente il mondo, mette nelle loro mani la stessa missione che egli si è sentito affidare dal Padre e, affinché possano realizzarla, comunica loro il suo stesso Spirito, quello che lo aveva mosso costantemente per portarla avanti con coraggio ed entusiasmo. Anch'essi, come lui, devono quindi proclamare, con le parole e con i fatti, la lieta notizia della venuta del regno di Dio. Anzi, stando all'ordine con cui Luca esprime la realizzazione della missione da parte di Gesù (At 1,1), essi devono «fare e dire» la buona novella del regno di Dio come pienezza di vita per gli uomini.

    La Chiesa, continuatrice nel tempo della missione di Gesù

    I sostanziali dati neotestamentali accolti sono sufficienti per illuminarci su ciò che costituisce la missione della Chiesa di tutti i tempi. Essa è chiamata, nella sua totalità e in ognuno dei suoi membri, a continuare la missione di Gesù. Come lui, essa ed essi devono annunziare, con i fatti e con le parole, la lieta notizia del regno di Dio. Devono vivere appassionatamente concentrati attorno alla grande unica preoccupazione di Gesù e di Dio stesso: che gli uomini abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza. Con tutte le implicanze che ciò comporta, sia nell'ordine individuale, sia in quello sociale.

    LA MISSIONE LE MISSIONI

    È alla luce del quadro di riferimento brevemente esposto che, come si diceva all'inizio, va ripensata anche la realtà delle «missioni».

    La missionarietà della Chiesa nel passato

    Che la Chiesa cristiana abbia cercato sempre, con maggiore o minore fedeltà, di vivere ciò per cui è stata convocata da Gesù, è abbastanza palese. Il modo di viverlo, tuttavia, si diversificò nei secoli. E tale diversificazione dipese in gran parte dal modo in cui essa capì nelle diverse situazioni storico-culturali l'intenzione centrale del suo Fondatore. Fattori di svariata indole intervennero in questa diversificazione. Agli inizi, per esempio, le comunità dei discepoli che si sentivano continuatori della missione di Gesù, sentirono anche il forte bisogno di diventare missionarie. Esse erano prese da un grande entusiasmo, provocato dalla scoperta della salvezza piena e definitiva per l'umanità, che avevano fatto nella proposta di Gesù, e bruciavano dal desiderio di comunicare quella buona novella a coloro che non l'avevano ancora ascoltata. Volevano che tutti accogliessero la chiamata di Gesù a diventare «operai della messe» (Mt 9,38), cioè collaboratori con lui nella causa del regno di Dio. Il libro degli Atti degli Apostoli ne è una lucida testimonianza. Così la proposta di Gesù si diffuse prima in Gerusalemme, poi in tutta la Giudea, nella Samaria, e «fino ai confini della terra» (At 1,8). Quando dopo qualche secolo la Chiesa arrivò ad avere stabilità istituzionale all'interno prima dell'Impero romano e poi delle successive società in cui riuscì a mettere radici, visse la sua componente missionaria con alternative diverse, determinate, come dicevamo, dalla diversità di condizioni in cui venne a trovarsi. In alcuni momenti, essa credette di aver raggiunto l'universalità anche geografica, e allora tutta la sua attenzione si concentrò su se stessa, sui problemi l'indole intraecclesiale, abbandonando il suo slancio missionario. Convinta di aver già detto a tutti gli uomini del mondo la proposta del regno di Dio, si dedicò soprattutto a cercare la coerenza con tale proposta al suo interno. Non è nel nostro interesse valutare qui i risultati di quest'operazione. In altri momenti, invece, la Chiesa si trovò davanti a terre nuove dove andare a portare il messaggio evangelico, e allora distribuì i suoi sforzi tra la conservazione nella fede di quelli che erano già credenti nel Vangelo del regno, e la conversione ad essa di quelli che ancora non lo erano. Il momento della scoperta dell'America da parte dell'Europa, per esempio, risulta molto emblematico al riguardo. Esso provocò un'effervescenza missionaria straordinaria che pervase tutta la Chiesa per molto tempo. Si deve tuttavia riconoscere con serena oggettività che, quando lo slancio missionario spinse i cristiani a portarsi nelle nuove terre da evangelizzare, non sempre fu la proposta del regno nella sua purezza originale ciò che venne proclamato. E in questo fatto influirono diversi fattori. Tra questi ne spiccano tre, strettamente collegati tra di loro. Essi sono conseguenza della concezione stessa della Chiesa che era sottesa all'azione missionaria. Infatti, dal secolo IV in poi andò riaffermandosi sempre più intensamente un modo di pensare, sentire, vivere e organizzare la Chiesa in cui gli aspetti istituzionali e societari presero il sopravvento sugli aspetti più intimi e mistici. Una delle caratteristiche di questo modello ecclesiale era quella di far coincidere Chiesa e regno di Dio o di Cristo: essa si riteneva il regno di Dio e di Cristo sulla terra. Con le conseguenze che ne derivavano. Soprattutto la coscienza del possesso, da parte sua, tanto della verità quanto della santità. Un possesso assicurato dalla presenza e dall'azione dello Spirito promesso da Cristo. Di conseguenza, a quelli che erano fuori di questa Chiesa veniva attribuito invece l'errore, il peccato e la corruzione. Nei loro confronti la Chiesa era vista come la vincitrice che li combatte e li sconfigge. La sua vittoria era assicurata dalla promessa di Cristo: «Le porte degli inferi non prevarranno su di essa» (Mt 16,18). Le ripercussioni di un tale modo di concepire la missione - e le missioni della Chiesa sono ovvie: occorreva debellare il regno dell'errore e del peccato per impiantare il regno della verità e della santità; bisognava «piantare la Chiesa» dove essa non c'era affinché si dilatasse il regno di Dio annunciato da Gesù. Un'altra caratteristica di questo modo di concepire la Chiesa era quella di pensarla come luogo esclusivo della salvezza, come l'arca di Noè che galleggia sulle acque del diluvio e si costituisce così nell'unica possibilità di salvezza per chi entra in essa. Ciò trovava una sua chiara espressione nel conosciuto assioma, inteso tuttavia in un senso diverso da quello con cui fu enunciato da S. Cipriano nei sec. III: «Fuori della chiesa non c'è salvezza». La salvezza, a sua volta, veniva pensata come «salvezza delle anime», con le caratteristiche che la contrassegnavano: marcata accentuazione dello spirituale a scapito del corporale e del temporale, dell'individuale a scapito del comunitario e sociale, dell'ultraterreno e celeste a scapito del presente e intramondano. Anche questa seconda caratteristica ecclesiologica si ripercuoteva manifestamente sul modo di pensare e realizzare la missione e le missioni. Anzitutto si ripercuoteva sulla maniera in cui veniva pensata la stessa missione. Fare propria la causa del regno proposta da Gesù consisteva fondamentalmente nel lavorare per cercare la salvezza delle anime. Ciò costituiva come l'obiettivo di tutto ciò che si faceva nella Chiesa: guadagnare anime per il cielo. Si ripercuoteva inoltre nel modo di concepire le missioni «ad gentes». Si trattava di andare a piantare la Chiesa dove essa non c'era ancora, perché ci potesse essere salvezza, a battezzare il maggior numero possibile di persone, affinché non finissero all'inferno ma potessero andare in cielo. Conseguenti con questo modo di pensare, migliaia di missionari si sono dati eroicamente da fare per strappare le anime al demonio e all'inferno e per portare la presenza della Chiesa nelle più remote regioni del mondo. L'azione missionaria veniva realizzata all'insegna della suaccennata concezione della salvezza. È vero, e occorre riconoscerlo con oggettività, quest'azione missionaria non si è quasi mai limitata agli aspetti puramente spirituali della salvezza. Anzi, essa ha operato moltissimo anche negli aspetti cosiddetti temporali della medesima: nutrimento, abitazione, cultura, salute sono stati dappertutto oggetto di attenzione da parte della Chiesa missionaria. Molto spesso però tutto ciò è stato visto come un mezzo per arrivare a quello che si considerava il vero fine della missione: la salvezza delle anime. Tra l'altro, ciò ebbe come conseguenza una non infrequente disattenzione agli aspetti socio-strutturali della vita dei popoli o dei gruppi destinatari della missione. Si faceva molto nell'ambito assistenziale, ma si lasciavano intatte le realtà socio-strutturali responsabili, in gran parte, dei problemi che venivano affrontati assistenzialmente. La terza caratteristica del modello di Chiesa-istituzione che ha avuto notevoli riflessi nella maniera di pensare e di attuare la missione e le missioni, è il modo in cui in esso venivano concepiti e realizzati i rapporti tra i diversi membri della Chiesa. Questo modo si esprime soprattutto in due elementi strettamente collegati tra di loro: la struttura piramidale della istituzione ecclesiale, e la separazione tra chierici e laici. Durante i lunghi secoli della sua esistenza, infatti, questa Chiesa-istituzione si andò modellando volta per volta sulla struttura della società politica del tempo: dell'Impero prima, della società feudale poi, e infine dei regni e degli stati autonomi. E siccome tali società erano strutturate piramidalmente, anche la Chiesa si organizzò in modo piramidale. Tale struttura implicava una gerarchia discendente di potere e di dignità, la quale comportava a sua volta un vertice che concentrava in sé la pienezza di ambedue le cose. Potere e dignità che andavano poi diminuendo per gradi fino alle basi, le quali ne erano praticamente prive. Conseguenza ovvia di una tale strutturazione era la separazione tra chierici e laici. Ossia, tra quelli che erano costituiti nei gradi gerarchici e quelli che a tali gradi non appartenevano. È facile capire come, con un'esperienza ecclesiale simile, facilmente si andasse a finire nell'identificazione della Chiesa con la sua gerarchia. Una gerarchia che poi, in definitiva, era quella che si riteneva la continuatrice della missione di Gesù nei confronti degli altri membri della Chiesa e anche di chi a questa Chiesa non apparteneva. Nell'ambito missionario ciò si espresse soprattutto nel fatto di circoscrivere la responsabilità delle missioni nell'ambito della gerarchia. Era la Chiesa gerarchica, con il Papa alla testa, che si sentiva responsabile del compito di cristianizzare i non credenti in Cristo. Era lei che doveva svolgerla, perché possedesse i poteri dati da Cristo a questo scopo. Era lei che doveva andare da chi non apparteneva ancora a questa istituzione ecclesiale, per farlo entrare nell'ambito della salvezza. Gli altri battezzati non ne avevano e non ne sentivano in genere una responsabilità diretta. Tutt'al più essi collaboravano con la preghiera, con il sacrificio e con il denaro.

    LA MISSIONARIETÀ DELLA CHIESA OGGI

    Il Vaticano II ha superato quel modello di Chiesa a cui abbiamo accennato. Ha proposto un nuovo modo di pensare e vivere la Chiesa, prima all'insegna della comunione (Lumen Gentium) e poi del servizio all'umanità (Gaudium et Spes). Con ciò ha contribuito anche a superare quel modo di concepire e di realizzare la missione e le missioni che abbiamo descritto. Gran parte di questo superamento si ritrova nel documento «Ad Gentes» sull'attività missionaria della Chiesa, ma altre idee sono andate maturando posteriormente, a misura che le implicanze delle opzioni conciliari sono state evidenziate e accolte. Vediamo i suoi principali risvolti.

    Le opzioni conciliari

    In primo luogo, il Concilio ha ripensato in modo rinnovato i rapporti tra i diversi membri della Chiesa. Fin dalla «Lumen Gentium», infatti, vennero decisamente sottolineati gli aspetti di uguaglianza fraterna e di servizio vicendevole tra di essi. Si riconobbe, anzitutto e con vigore, come fatto ecclesiale primo, quello dell'uguaglianza fondamentale di tutti i membri della Chiesa per il fatto di costituire l'unico Popolo di Dio (cf LG cap. II). Nella Chiesa di Cristo, quindi, non c'è nessuna distinzione e quindi nessuna gerarchia in ragione della dignità fondamentale o della chiamata alla stessa missione (LG 32). Si tratta d'altra parte di un Popolo nel quale esiste una pluralità di servizi reciproci, pluralità che costituisce il fatto ecclesiale secondo (cf LG 32). L'abbandono della struttura piramidale e, conseguentemente, della separazione fra chierici e laici, ebbe inoltre come privilegiata espressione la rinnovata concezione dell'autorità come servizio (cf LG 18a), e il riconoscimento del posto e del ruolo dei cristiani-laici nella Chiesa (cf LG cap. IV e AA). Questi non furono più visti quali cristiani «di seconda categoria» o quali «clienti» dei pastori, ma quali membri della Chiesa a pieno titolo, con la loro responsabilità propria tanto all'interno della comunità ecclesiale quanto nella sua funzione di servizio al mondo (cf LG 31a). Per ciò che riguarda la missione e le missioni, questo ritorno alle più genuine indicazioni evangeliche comporta delle conseguenze considerevoli. Soggetto della missione e delle missioni non è più solo la cosiddetta gerarchia della Chiesa, ma tutta la Chiesa (LG 32 a.b). Responsabili del vangelo del regno sono tutti i membri della comunità ecclesiale, senza distinzione di sorta. Questo è il dato primo e fondamentale. Chi non se ne sente responsabile probabilmente non ha capito ancora Gesù di Nazaret, non è stato ancora affascinato dalla sua persona e dalla sua proposta. Naturalmente, questo primo dato non annulla il secondo. Se nella Chiesa di Gesù ci sono dei Pastori ai quali è stato affidato il servizio della presidenza, essi devono essere i primi animatori della dedizione dell'intera comunità alla missione di salvezza. Primi però non significa unici. In secondo luogo, il concilio ha abbandonato quel modo di vedere la Chiesa che la faceva coincidere con il regno di Dio. La Chiesa, infatti, venne da lui vista solo come «germe» e «fermento» del Regno (cf LG 5.9b) e, in quanto tale, come portante in sé i segni della imperfezione propria di questo mondo (cf LG 48c) e addirittura del suo peccato: imperfezione e peccato che la rendono sempre bisognosa di conversione (cf LG 8c.d). Una Chiesa che sa di essere santa e allo stesso tempo peccatrice. Di conseguenza, venne escluso ogni atteggiamento trionfalista. Se c'è una vittoria totale della santità e della verità, questa si verificherà alla fine quando il regno, la Chiesa e il mondo arriveranno a compimento nell'escatologia finale (cf LG 48a). Il Concilio riconobbe anche, in questo modo, che il regno di Dio è molto più largo dello spazio istituzionale delle Chiesa, e che tra coloro che non appartengono ad essa, la presenza operante e feconda del regno di Dio proclamato da Gesù si esprime come ricerca di verità, di giustizia, di fraternità vera. Esso si coestende fino ai confini della «buona volontà» degli uomini. Non si può pensare, di conseguenza, che ciò che è al di fuori della Chiesa sia solo regno del diavolo, della menzogna e del peccato. Anzi, vi sono dei «semi del Verbo» e quindi del regno di Dio anche là dove il Vangelo non è stato ancora mai annunziato. Non ci vuole molto per capire che questo modo di pensare le cose mette in crisi un certo tipo «tradizionale» di missionarietà, quello che abbiamo descritto precedentemente. Secondo lo spirito del Concilio, non si va nelle missioni per fare piazza pulita di quanto esiste, specialmente nell'ambito religioso e morale, oltre che in quello culturale, quale opera del principe delle tenebre, e per piantarvi al suo posto la croce di Cristo; si va invece per aiutare a far crescere quei germi che già esistono. In certo senso si potrebbe dire che da questo punto di vista «il Vangelo precede il Vangelo». In terzo luogo, il Concilio ha ripensato il rapporto tra Chiesa e salvezza. Infatti, esso la salvezza venne vista già in un'ottica apertamente universalista nella «Lumen Gentium», e in più come integrale e storica nella «Gaudium et Spes». Anzitutto nella «Lumen Gentium», senza negare il ruolo imprescindibile della Chiesa nell'economia globale della salvezza (cf LG 14)), si allargò la possibilità di salvezza personale fino a farla coincidere con la «buona volontà». Con la buona volontà perfino di chi, senza colpa propria, non crede espressamente in Dio (cf LG 16), e cioè gli atei incolpevoli. Ciò significa che la salvezza personale non viene più condizionata necessariamente né dall'appartenenza alla Chiesa-istituzione né dalla fede esplicita, ma piuttosto dall'amore fraterno (cf GS 22e). Il che comporta anche una rilettura del tradizionale assioma: «Fuori della chiesa non c'è salvezza». È in questo contesto che alcuni teologi hanno parlato, nel periodo conciliare e immediatamente postconciliare, di «cristiani anonimi» o «impliciti». La terminologia può essere discussa, ma l'intuizione che c'è dietro è chiaramente in linea conciliare con la Costituzione sulla Chiesa. La salvezza vi è concepita come comunione tra gli uomini e con Dio. Per chi è cristiano, una comunione illuminata e fondata sulla fede e quindi anche esplicita con Dio; per chi non lo è, priva di questa illuminazione e quindi, in molti casi, solo implicita, con Dio. Anche il battesimo venne di conseguenza pensato in modo diverso, poiché non lo si riallaccia imprescindibilmente alla salvezza personale, ma piuttosto all'incorporazione alla comunità ecclesiale, sacramento universale di salvezza. L'attività missionaria della Chiesa venne pure vista in un'altra prospettiva, come si può constatare esaminando il documento «Ad Gentes». Non si tratta già di andare a portare salvezza dove c'è perdizione, ma a far crescere la salvezza che è già presente dove c'è vera comunione fraterna, illuminandola con la luce del Vangelo di Gesù. A collaborare nel far passare dall'implicito all'esplicito, dal Vangelo non espresso al Vangelo espresso. Ma oltre a quella concezione universalista della salvezza, presente nella «Lumen Gentium», c'è anche la sua concezione integrale e storica proposta dalla «Gaudium et Spes»: «È l'uomo intero..., è la società umana» (GS 3) ciò che deve venir salvato. Non già semplicemente l'anima o le anime, ma l'uomo tutto intero e nella sua realtà socio-storica. Regno di Dio o salvezza è, come abbiamo visto rivisitando l'attività di Gesù, la pienezza di vita degli uomini. E, data la condizione di morte in cui essi giacciono, è il trionfo della vita sulla morte negli uomini e tra gli uomini. Fare che Dio regni nel mondo o cercare la salvezza degli uomini significa, allora, sradicare tutto ciò che provoca la loro morte: nel loro corpo e nella loro psiche, nella loro mente e nel loro cuore, nei loro rapporti tra di loro e nei loro rapporti con Dio. e nella struttura in cui tali rapporti si cristallizzano. Missione della Chiesa non è, quindi, la mera salvezza delle anime, lo sforzo di portarle tutte in cielo; e neppure la sola comunione interpersonale degli uomini tra di loro e con Dio; è invece instaurare il regno di Dio nel mondo, cioè la vittoria della vita sulla morte in tutte le sue forme ed espressioni, una vittoria parziale e imperfetta per ora, ma destinata a crescere fino alla sua realizzazione totale del compimento della storia.

    Quali conseguenze?

    Questa rinnovata concezione della salvezza e della missione comporta inevitabilmente delle esigenze per l'attività missionaria della Chiesa. Innanzitutto, riguardo al suo obiettivo. Quando si va a portare il Vangelo a chi ancora non l'ha accolto o a popolazioni che sono ancora solo inizialmente evangelizzate, o anche quando si va a collaborare nell'evangelizzazione che realizzano gli agenti di pastorale di Chiese già assodate ma in situazione di precarietà, si va a fare ciò che fece Gesù e le prime comunità cristiane dopo la Pentecoste, e cioè a proporre ad altri la causa del regno di Dio perché la facciano propria. Si va a cercare «operai per la messe» (Mt 9,38). Ciò significa che si va, convinti della validità massima della proposta di Gesù, ad invitare altri ad assumerla. E ad assumerla fino al punto, se è possibile, di diventare anch'essi, come i primi dodici, delle persone chiamate «a stare con lui e per essere inviate a proclamare» Mc 3,14) la buona e gioiosa nuova del regno di Dio. In concreto, a diventare una comunità di persone che, insieme con lui e guidate dalla sua Parola, irrobustite dalla sua forza nei momenti sacramentali e nella preghiera, si convertono in operatori di salvezza. Di quella salvezza integrale che mira alla pienezza totale di vita degli uomini.
    Una salvezza che non può quindi essere ridotta a ciò che tradizionalmente si conosce come «dimensione spirituale», ma che prenda in considerazione tutte le dimensioni, individuali e anche sociali, dell'uomo. Tanto quelle spirituali quanto quelle cosiddette temporali. Una salvezza inoltre che, se vuole essere fedele fino in fondo a Colui che diede origine alla missione e alle missioni, tenga presente quel tratto decisivo del suo modo di agire che abbiamo rilevato più di una volta: i primi e privilegiati destinatari delle sue preoccupazioni sono i più privati o spogliati di vita. Ciò vuol dire che, andando ad evangelizzare, occorre farlo all'insegna del programma che Gesù stesso propose nella sinagoga di Nazaret: «Mi ha inviato a portare il lieto annunzio ai poveri» (Lc 4,18). E questo non solo nelle implicanze cosiddette assistenziali che esso comporta, ma anche, nella misura delle possibilità ovviamente, nelle sue urgenze socio-strutturali. Quanto la recente enciclica «Sollicitudo Rei Socialis» di papa Giovanni Paolo II ha messo chiaramente in evidenza, e cioè che ormai bisogna pensare il regno di Dio in un'ottica planetaria, va preso sul serio anche nell'ambito missionario. E ciò perché la vita degli uomini è condizionata sempre più intensamente da come è strutturato il pianeta terra nella sua totalità.
    Fin qui abbiamo evidenziato le esigenze che questo rinnovato modo di pensare la salvezza comporta per l'obiettivo della missione e delle missioni; ora ne rileviamo quelle che implica per la modalità della sua realizzazione. Abbiamo già precedentemente detto che, nell'ottica del Concilio, andare ad evangelizzare non consiste, come purtroppo è avvenuto più di una volta in passato, nel far piazza pulita di ciò che esiste sul posto, ma nel farlo crescere verso il Vangelo. Ora aggiungiamo qualcosa in più. L'evangelizzazione va fatta sempre come proposizione, mai come imposizione. Gesù, nonostante il suo ardente entusiasmo per il regno di Dio che gli bruciava in petto, non impose mai la sua causa agli altri. Li affascinava e li trascinava per la trasparenza della sua proposta e per la coerenza della sua parola. Il suo modo di rivolgersi all'uomo ricco che invita a seguirlo è emblematico: «Se vuoi...» (Mt 19,21). Dovrebbe essere sempre questo il modo di annunciare il Vangelo a chiunque. Perché un Vangelo imposto è una contraddizione: automaticamente finisce di essere una «buona novella». Pur conservando la fierezza di chi è convinto della validità insuperabile della proposta del regno fatta da Gesù, la comunità ecclesiale e i suoi membri dovrebbero avere sempre un rispetto sommo degli altri nelle loro convinzioni. Anzi, dovrebbero avere la modestia di imparare dagli altri. Perché anche loro hanno molto da insegnare. Più di una volta gli altri, coloro che non hanno accolto il Vangelo, possono aiutare i credenti a scoprire dei valori evangelici oscurati da una certa pratica della fede, o non ancora sufficientemente evidenziati nella marcia della storia. Può succedere, e oggi sta succedendo, che, paradossalmente, i non cristiani abbiano da insegnare qualcosa del Vangelo ai cristiani.

    Concludendo

    Questi grossi rinnovamenti operati dal Vaticano nel suo desiderio di riportare l'intera Chiesa ad una più genuina identificazione con l'intenzione di fondo di Colui che la convocò ormai quasi duemila anni fa, dovrebbero venire recepiti da tutti i cristiani. Ma, con maggior ragione, da coloro tra di essi che, con zelo e generosità ammirevoli, si danno più intensamente alla causa missionaria. Non farlo significherebbe mettersi al margine di quanto lo Spirito ha voluto dire alla sua Chiesa nel nostro tempo.


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