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    L'incarnazione come criterio della pastorale


    Riccardo Tonelli

    (NPG 1986-08-3)


    Siamo in un tempo di largo e diffuso pluralismo.
    Basta guardarsi d'attorno con un minimo di capacità interpretativa e tutti i se e i ma si dileguano, come neve al sole.
    Non voglio dire che è una gran bella cosa, di cui andare fieri. Ma neppure ho intenzione di lanciare una crociata contro questa «sventura» dei nostri tempi. Il fatto resta, prima di ogni giudizio: implacabile come tutti i fatti.
    Il nostro poi non è un pluralismo solo formale, come se si usassero dei sinonimi per dire le stesse cose. Alla radice ci sono modelli antropologici molto differenti.
    Questo pluralismo culturale ha invaso ormai anche l'ambito dell'esperienza ecclesiale e della sua prassi pastorale.
    Siamo in un tempo in cui sono diversi i modi di intendere le dimensioni fondamentali dell'esistenza cristiana. Formule impegnative come «salvezza», «peccato», «autorità», «libertà» raccolgono consensi solo quando restano ad un livello espressivo molto generale.
    Tutto questo ci dà da pensare e ci provoca. Ci aiuta a scoprire la nostra povertà: la parola dell'uomo è sempre una povera parola, parziale, frammentata, incapace di possedere e di esprimere tutta la verità.
    Ma ci apre anche al rischio terribile del tradimento: il pluralismo può diventare l'alibi che trasforma chi deve servire la verità in un suo dominatore bizzarro.
    Il pluralismo non può perciò essere considerato l'ultima parola. Non lo è quando parla dell'uomo; non lo può essere quando narra di Dio e progetta la salvezza dell'uomo in suo nome.
    Non possiamo però fuggirlo, cercando uno spazio protetto, dove le certezze sostengono le affermazioni e le scelte. L'unica via praticabile è la ricerca di criteri capaci di giudicarlo e di sottometterlo alla verità.
    Messo in questi termini, il problema sembra limpido e la soluzione immediata.
    Chi conosce la storia recente della pastorale sa però che le cose vanno in una logica meno lineare.
    Le posizioni si sono spesso radicalizzate e sono apparse come irriducibili e contrapposte. Siamo rimasti prigionieri dei nostri modelli. Convinti della loro assolutezza, abbiamo giudicato duramente ogni alternativa. La storia ha scritto però anche pagine illuminanti. Testimoniano la capacità di andare oltre il pluralismo; permettono l'incontro appassionato nell'unità di intenti, mentre viene accolta e incoraggiata la diversità di sensibilità e di operazioni.
    La Chiesa italiana ha vissuto una esperienza di questo tipo, quando ha elaborato quel grande documento di rinnovamento pastorale che è Il rinnovamento della catechesi (Roma 1970). Dopo lunghe e sofferte contrapposizioni fra i difensori della svolta antropologica in pastorale e coloro che spingevano invece verso modelli più teocentrici, essa ha confessato la sua fede nell'evento di Gesù Cristo, proclamando: «Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell'uomo. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito d'amore; e si rivela supremamente nell'umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l'uomo per conoscere Dio; bisogna amare l'uomo per amare Dio» (RdC 122). In questa esperienza, come negli altri casi felici della storia della pastorale, la novità di prospettive e l'incontro nella diversità sono fioriti sulla decisione di fare dell'Incarnazione il criterio normativo di ogni progetto pastorale.
    All'evento di Gesù Cristo si ispira anche la mia riflessione e la mia ricerca di criteri per l'azione pastorale in un tempo di pluralismo.

    L'EVENTO DI GESÙ CRISTO

    Ho usato due modi di dire: evento di Gesù Cristo e evento dell'Incarnazione.
    Sembrano due formule diverse. Ma non è così. Dicono esattamente la stessa cosa: «evento di Gesù Cristo» suggerisce il contenuto: «evento dell'Incarnazione» sottolinea la prospettiva da cui possiamo riconoscerlo.
    Parlo di «evento» per ricordare che sono molti gli avvenimenti con cui dobbiamo confrontarci per raccogliere il messaggio proposto da Gesù su Dio. Al centro sta Gesù di Nazareth: una persona, che ha un nome e una patria, che ha vissuto la sua esistenza in un segmento preciso e concreto di spazio e di tempo.
    Questo Gesù ha suscitato una esperienza di sconvolgente e radicale novità in molti uomini. Lo confessano il «Cristo»: il Messia atteso, il Signore della vita, l'unico Nome in cui possiamo ottenere la salvezza. Riuniti nel suo nome, si riconoscono la Chiesa, che continua la sua causa, in ogni tempo e in ogni luogo. La loro confessione di fede e la prassi della Chiesa apostolica sono decisive per comprendere chi è Gesù. Anche questi fatti sono parte dell'evento di Gesù Cristo.
    L'Incarnazione è l'esperienza centrale e fontale della vita di Gesù e della fede che ha suscitato. È quindi, la prospettiva fondamentale da cui possiamo comprendere l'evento di Gesù Cristo.
    Quando i credenti parlano dell'Incarnazione indicano prima di tutto un fatto preciso della vita di Gesù di Nazareth: Dio per salvare l'uomo ha deciso di farsi uno di noi ed è diventato uomo, con la collaborazione materna di Maria, in un segmento concreto di tempo e di spazio.
    Non esprimono però solo questo atto di fede.
    L'Incarnazione è certamente uno dei tanti avvenimenti che costituiscono la vita di Gesù. Ma non è solo questo. Essa soprattutto rappresenta la prospettiva da cui possiamo comprendere in modo più preciso tutte le parole e i gesti che Gesù ha detto e fatto per rivelarci Dio. Per questo l'Incarnazione permette di comprendere in modo speciale chi è Gesù e chi è per noi.
    Capita così anche a noi. Un giorno viviamo una esperienza particolarmente forte: l'incontro con una persona che sconvolge la nostra vita, la morte di un amico carissimo, una decisione, maturata e sofferta, che poi esplode in una scelta radicale. Sono esperienze precise e puntuali come tutte le altre. Ma si portano dentro una forza speciale che investe e attraversa ogni altro gesto dell'esistenza. Sono esperienze «privilegiate». La trama delle esperienze successive della vita resta inesorabilmente segnata e condizionata da questa esperienza sconvolgente. Spesso, per capire chi siamo e cosa cerchiamo, dobbiamo rifarci a questo evento del passato, che vive e fiorisce ancora in ogni presente.
    Gli apostoli, le prime comunità ecclesiali, la Chiesa, in molti momenti solenni della sua lunga esistenza (come testimonia la storia della pastorale), hanno vissuto l'Incarnazione in questo modo, perché l'hanno considerata l'evento, unico e irripetibile, che ci spalanca le porte verso il mistero di Dio.
    In Gesù di Nazareth, infatti, il Dio inaccessibile e misterioso, il Dio ineffabile e radicalmente trascendente, si è fatto «volto», è diventato «parola». Nel volto e nella parola di Gesù di Nazareth, si è fatto vicino, comprensibile. Possiamo parlare di Dio e possiamo parlare a Dio. Possiamo cogliere chi è per noi e cosa chiede a noi. L'evento dell'Incarnazione rappresenta il criterio fondamentale per ogni progetto di pastorale: per conoscere il progetto di Dio sull'uomo, dobbiamo interrogare l'evento di Gesù Cristo; e lo dobbiamo fare a partire dalla prospettiva dell'Incarnazione.
    Nell'evento di Gesù Cristo, compreso dalla prospettiva dell'Incarnazione, la comunità ecclesiale, impegnata per attuare nel tempo la salvezza, ritrova gli orientamenti autorevoli per compiere la sua missione. In un tempo di pluralismo, al «messaggio» dell'Incarnazione consegna la ricerca di un principio di unità e la sofferta certezza di una fedeltà radicale al suo Signore, per sostenere la fede dei figli che ha generato alla vita nuova.

    GESÙ CI RIVELA UN DIO PER L'UOMO, PRESENTE E NASCOSTO

    Per raccogliere il messaggio dell'Incarnazione dobbiamo confrontarci prima di tutto con Gesù di Nazareth, la sua persona, la sua dottrina, la sua vita trascinata a sperimentare la morte umana, proposta di una speranza stabile alla vita nella sua vittoria contro la morte.
    Proviamo a rileggere l'evangelo, a partire da questa domanda: chi è Dio per l'uomo? quale volto di Dio Gesù rivela?
    Potrei citare tutte le pagine. Sono, in toni diversi, le battute di una grande, unica sinfonia: il Dio di Gesù è il Dio della vita e della felicità. È Dio-per-l'uomo, che fa della vita dell'uomo l'espressione più radicale della sua gloria.
    Pensiamo, per esempio, alla disputa tra Gesù e i farisei a proposito della guarigione, avvenuta di sabato, di quel povero uomo che aveva una mano paralizzata (Mt 12, 1-14).
    Per la teologia dominante Dio andava onorato prima di tutto rispettando il sabato. L'uomo paralizzato poteva aspettare: sei giorni della settimana erano a sua disposizione, il settimo era invece tutto e solo per la gloria di Dio (Lc 13,10-17).
    Gesù propone una teologia molto diversa. La vita e la felicità dell'uomo è la grande confessione della gloria di Dio. Anche il sabato è in funzione della vita. Gesù non chiede di scegliere tra Dio e la felicità dell'uomo. Afferma, senza mezzi termini, che la gloria di Dio sta nella felicità dell'uomo. Il sabato è per Dio quando è per la vita dell'uomo.
    Gesù non gioca come un adolescente bizzoso con la legge. Non si diverte ad infrangerla, per il gusto anarchico di farne senza.
    Egli propone una interpretazione radicale della legge, per rivelare chi è Dio.
    La norma fondamentale dell'agire è determinata dalla sola esigenza concreta che può abbracciare senza limiti tutta la vita dell'uomo e applicarsi nello stesso tempo e m maniera esatta ad ogni caso particolare: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore... Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 37-40).
    Dall'amore nasce la libertà, nello spirito delle beatitudini: essere liberi da ogni schiavitù verso il mondo e verso se stessi per essere pronti, in ogni momento, per Dio e per i fratelli, in un amore che si dona e sa rischiare fino alla morte.
    Solo in questa prospettiva di libertà e di amore trova collocazione la legge, un fatto importante ma relativo. La prassi dell'amore non può essere fissata in leggi concrete. La libertà per l'amore può esigere talvolta che si faccia molto di più di quanto è fissato autorevolmente, perché Dio viene glorificato dove l'uomo è reso libero. Questo «contenuto» ci giunge però in un modo molto particolare.
    Gesù rivela chi è Dio per l'uomo secondo modelli comunicativi che ripetono la logica fondamentale di ogni parola umana.
    Gesù pone dei gesti, testimonia un messaggio, proclama una parola. Si tratta di gesti, messaggi, parole che hanno un loro preciso spessore e sapore storico. Possono essere compresi e decifrati attraverso gli schemi interpretativi con cui ogni giorno valutiamo le nostre esperienze. Nel profondo di questi gesti, parole, messaggi, Gesù è Dio che si manifesta all'uomo.
    Le parole umane e le realtà della sua vita quotidiana sono segni che manifestano e nascondono eventi sconfinatamente più grandi: sono il segno della presenza di Dio nella storia dell'uomo.
    Il passaggio da quello che si percepisce fisicamente al mistero che si porta dentro e che il segno esterno intende rivelare, richiede sempre uno sguardo penetrante, un intreccio di fantasia e di amore: richiede la fede. Solo nella fede dell'interlocutore gesti, messaggi e parole di Gesù esprimono totalmente il mistero di Dio.
    Qualche volta la fede è facile, perché il segno esterno è tutto trasparente del mistero di Dio. Così è capitato per la donna di Naim, che ha scoperto chi è Dio per lei, stringendo vivo tra le braccia il figlio che aveva pianto morto (Lc 7, 11-17).
    Altre volte la lettura è molto più complessa. Hanno certamente faticato non poco i venditori del Tempio che si sono trovati le bancarelle sfasciate e la merce all'aria, sotto la spinta purificatrice di Gesù. Anche per loro i gesti e le parole di Gesù manifestavano che Dio è Padre buono e accogliente, è Dio di tutti gli uomini. Hanno però dovuto scatenare una dose alta di fantasia per condividere questa interpretazione (Mt 21, 12-17).
    Se riorganizziamo gli elementi che ho sottolineato, possiamo trovarci d'accordo su questa prima conclusione: Gesù di Nazareth rivela che Dio è un Dio per l'uomo; lo rivela però in un intreccio misterioso di gesti e di interpretazioni di fede. In Gesù, noi incontriamo il volto e la parola di Dio nello spessore affascinante e fragile della sua quotidiana umanità.

    LA TESTIMONIANZA DELLA PRIMA COMUNITÀ CRISTIANA: IL DIO DI GESÙ È UN DIO PER L'UOMO

    Sappiamo che le parole e le azioni di Gesù non ci sono giunte in una registrazione fredda e impersonale, quasi fosse un resoconto stenografico o una immagine fotografica. Esse sono state trasmesse attraverso la fede appassionata di uomini che, animati dallo Spirito, hanno colto il senso dell'esistenza di Gesù e lo hanno espresso nella testimonianza della parola e della vita.
    Evento di Gesù Cristo è anche questa esperienza della Chiesa apostolica, espressa nei testi dei Vangeli, degli Atti, delle Lettere e nella prassi ecclesiale adottata.
    Per cogliere il significato dell'evento dell'Incarnazione, dobbiamo perciò orientare la nostra ricerca anche nella direzione di questa testimonianza apostolica.
    I discepoli di Gesù avevano capito di essere amati e pensati da lui. Essi sperimentavano che in Gesù la vita umana trovava un senso. La loro situazione esistenziale, spesso senza speranza e senza prospettive, carica di tanti problemi, diventava per Gesù importante, interessante, affascinante. Era qualcosa che Gesù faceva pienamente suo. Assunta in Gesù, questa stessa esperienza povera e fragile, veniva restituita ai discepoli piena di significati.
    Essi poi compresero che tutto questo Gesù lo diceva e lo faceva nel nome di quel Dio che chiamava «Padre».
    Nella bontà che gli uomini sperimentavano in Gesù, nel suo perdono, nella sua proposta di libertà, di gioia, di senso alla vita, c'era il Padre.
    Nel contatto quotidiano come Gesù, gli apostoli hanno incontrato Dio e l'hanno scoperto come un Dio vicino e accogliente. In Gesù hanno sperimentato che Dio dona la salvezza in uno stile insperabilmente originale: salva nella solidarietà, in una compagnia così profonda con ogni uomo da farsi realmente uomo.
    Dopo la morte e la resurrezione di Gesù la comunità ecclesiale si raccoglie attorno alla persona del Signore risorto, ora presente in modo nuovo. Animata dal suo Spirito, essa si costituisce, agisce e proclama l'evento di salvezza che ha sperimentato.
    Nasce una prassi ecclesiale in cui la Chiesa apostolica cerca di ripetere quello che ha sperimentato nell'incontro personale con Gesù di Nazareth.
    Alla scuola di questa prassi possiamo scoprire ancora meglio il significato dell'evento di Gesù Cristo.
    La comunità apostolica deve presto rispondere agli interrogativi nuovi che le circostanze le lanciano. Tra le tante alternative possibili essa cerca quelle che permettono meglio ad ogni uomo di sentirsi amato da Dio, quelle capaci di consolidare la speranza e la fiducia nella vita oltre la morte; quelle che realizzano più efficacemente la promozione dei poveri, di quelli che non contano, per testimoniare loro che di essi è il Regno dei cieli.
    Agisce in questo stile perché è consapevole che Gesù stesso aveva vissuto tutto ciò in modo radicale.
    Basta ripensare a quanto è successo al Concilio di Gerusalemme, come riferisce At 15. La Chiesa apostolica era alle prese con un gravissimo problema. Stava suscitando dispute accese, tensioni e sospetti. Ci si chiedeva: coloro che si decidevano per la fede cristiana e non provenivano dal mondo giudaico, dovevano vivere sottoposti alla legge di Mosè? I punti scottanti erano soprattutto due: la pratica della circoncisione e l'astinenza da certi tipi di carne.
    I padri del Concilio hanno discusso a lungo, senza riuscire a trovare un accordo. Il problema all'ordine del giorno era squisitamente teologico. E come tutti i problemi teologici permetteva differenti interpretazioni. Erano d'accordo nel riconoscere la centralità assoluta di Gesù per la salvezza; si rendevano pienamente conto che la sua mediazione salvifica poteva risultare incrinata se subentravano altre esigenze concorrenti. Risultava però difficile decidere la portata concreta e operativa di questo orientamento di fondo.
    La soluzione è apparsa invece immediata quando la saggezza di Giacomo ha chiesto di spostare l'attenzione dai principi all'esperienza fatta stando con Gesù. Ha ricordato: «Non possiamo imporre agli altri dei pesi inutili, che neppure noi ci carichiamo sulle spalle». L'affermazione ha una logica affascinante: il criterio decisivo per risolvere i problemi è la possibilità di sperimentare la bontà di Dio. Continuando la prassi di Gesù, bisogna far sperimentare agli uomini chi è Dio: il Padre buono e accogliente, che non chiede cose inutili, come invece fa chi comanda per il gusto di farsi obbedire. Non è possibile annunciarlo nella verità se la parola proclamata viene poi accompagnata da una serie di pretese inutili, motivate sul compromesso e sulla paura. La proposta di Giacomo ha raccolto subito il consenso generale. La Chiesa apostolica ha risolto così un grave problema teologico, mettendo in primo piano la ricerca di ciò che poteva permettere la piena esperienza di un Dio misericordioso, schierato dalla part della vita e della felicità dell'uomo.
    Mi ha sollecitato a questa lettura del Concilio di Gerusalemme la meditazione delle pagine di commento che Paolo ha indirizzato ai Galati (Gal 5).
    Ritorna lo stesso tema. Paolo riprende la conclusione del Concilio: la coscienza della grande libertà a cui Gesù ci ha chiamati e la raccomandazione di astenersi dalle carni sacrificate agli idoli.
    Il documento conclusivo proponeva questo impegno a tutti i cristiani. Poteva sembrare il compromesso dell'ultimo momento, per accontentare anche le minoranze intransigenti .
    Paolo invece commenta in termini diversi la raccomandazione. Sa di essere libero: può mangiare qualsiasi genere di carni, per la libertà a cui Cristo ci ha liberati. Non può però usare della sua libertà come gesto di disprezzo e di offesa per il fratello più debole, che ne rimarrebbe impressionato malamente. La sua inesauribile libertà termina quando incomincia il dovere sommo della carità fraterna.
    Come posso annunciare il Dio di Gesù Cristo, come Padre buono e accogliente, se provoco il fratello nelle sue convinzioni più profonde, se lo metto in crisi nel nome della maturazione che ho acquisito?
    La logica è la stessa di Giacomo. Paolo la porta alle conseguenze più radicali. Per risolvere i problemi pastorali che la comunità cristiana è chiamata ad affrontare lungo lo sviluppo della sua storia, il criterio è quello rivelato nella prassi di Gesù: l'esperienza che il Dio di Gesù è un Dio per l'uomo.

    GESÙ, VOLTO E PAROLA Dl DIO, RIVELA CHI È L'UOMO

    Il terzo grande contenuto che la meditazione dell'evento dell'Incarnazione ci fa scoprire riguarda il significato e il valore dell'umanità dell'uomo.
    Nell'Incarnazione Dio si è rivelato all'uomo in modo umano. Il suo ineffabile mistero è diventato comprensibile e sperimentabile perché ha preso il volto e la parola di Gesù di Nazareth.
    È importante comprendere la qualità di questa assunzione. È troppo facile vanificarla, ragionando in termini strumentali, come se il rapporto tra Gesù di Nazareth e il Dio ineffabile fosse come quello di una fotografia rispetto ad una persona amata o funzionasse come una registrazione rispetto alla viva voce di un amico lontano.
    In Gesù Dio ha assunto un volto umano e si è fatto parola non come ci si serve di uno strumento esterno (che in nulla modifica quanto uno è) per comunicare qualcosa di sé, visto che non si può farlo direttamente e immediatamente .
    L'umanità di Gesù è invece Dio-con-noi: l'evento nuovo e insperabile in cui Dio stesso, rimanendo Dio, si è fatto vicino, volto e parola, per incontrare e salvare l'uomo. La sorprendente novità, (testimoniata da Fil 2, 6-8) sta proprio in questo: Dio non ha abbandonato la «forma di Dio» per prendere quella di «servo», ma è diventato pienamente uomo, sussistendo totalmente come Dio.
    Per questo l'Incarnazione è anche la rivelazione più piena dell'uomo: rivela qual è la sua sconfinata grandezza.
    Gesù è uomo, di una umanità come la nostra: è uomo come lo siamo tutti noi.
    La sua umanità può manifestare, rendere presente ed esprimere Dio, perché l'umanità dell'uomo è stata fatta radicalmente capace di essere manifestazione di Dio. L'Incarnazione è incominciata proprio nella creazione. In questo primo, definitivo gesto di salvezza, Dio ha creato un uomo capace di essere «volto» e «parola» di Dio.
    Se l'uomo non fosse stato costruito così, Gesù di Nazareth non potrebbe essere Dio con noi, perché la sua umanità sarebbe incapace di offrire «una tenda» a Dio.
    Oppure si potrebbe avanzare l'ipotesi contraria. Se Gesù è Dio, allora di certo non è un uomo come noi; la sua umanità è solo apparentemente simile alla nostra, mentre in realtà è diversissima. come la luce non ha nulla da spartire con le tenebre.
    Lungo lo sviluppo della fede ecclesiale, ci sono stati quelli che hanno proposto la prima ipotesi (Gesù non è Dio) o la seconda (Gesù è Dio, ma non è vero uomo). La fede della Chiesa ha difeso sempre con forza e con fierezza che Gesù è uomo, profondamente e veramente uomo e, nello stesso tempo, Dio-con-noi.
    Questa grande affermazione ci assicura che la nostra umanità è più grande di quello che possiamo immaginare. Essa è, in piccola o grande misura, «volto» e «parola» del Dio ineffabile e inaccessibile.
    Gesù è il caso supremo, unico e irripetibile, di una umanità tanto pienamente realizzata, da essere volto e parola in modo definitivo. Egli è colui che realizza tutte le possibilità dell'uomo, raggiungendo in pienezza l'abbandono totale al mistero di Dio.
    Gesù lo è di fatto. Noi abbiamo la possibilità di essere uomini pienamente umanizzati come lui; e di fatto, un pochino almeno, lo siamo, per la solidarietà di vita e di salvezza che ci lega a Gesù e a coloro che come lui hanno portato a pienezza la loro umanità. Certo, la diversità tra noi e Gesù è grande. È però sul piano della realizzazione concreta; non su quello della possibilità.
    La conclusione è immediata e concretissima: l'umanità dell'uomo è il luogo in cui Dio si fa presente nella nostra esistenza quotidiana, come il Padre buono e accogliente, che salva e riempie di vita.

    IL CRITERIO DELL'INCARNAZIONE PER UNA RINNOVATA PRASSI PASTORALE

    Ho sviluppato una lunga meditazione teologica sull'evento dell'Incarnazione, per raccogliere il messaggio che esso ci propone. Le informazioni acquisite mi permettono finalmente di stabilire alcuni «punti di riferimento» per ogni azione pastorale.
    Attraversata dal pluralismo la comunità ecclesiale si trova alle prese con problemi impegnativi. Fino a che punto deve chiedere l'unità e dove invece le differenti sensibilità possono tradursi in scelte operative diversificate? Esistono criteri su cui definire nell'azione pastorale l'armonia pratica tra la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo? La potenza imprevedibile di Dio travolge la collaborazione dell'uomo oppure accetta di restarne condizionata?
    Per trovare indicazioni pertinenti sono andato alle sorgenti della fede della Chiesa: all'esperienza fondamentale dell'esistenza messianica di Gesù e all'esperienza su cui si è consolidata la fede dei suoi discepoli. Non cercavo risposte puntuali alle mie domande. Erano troppo concrete e troppo situate, per pretendere dall'evangelo una informazione precisa e dettagliata. Ho trovato però un modello teologico globale, molto stimolante, capace di ispirare ogni ulteriore ricerca.
    Su questo modello posso costruire una risposta ai problemi che la prassi pastorale lancia. Mi immergo nuovamente nelle difficoltà di tutti i giorni, con una ispirazione teologica orientatrice.
    L'evento dell'Incarnazione si fa così «criterio» normativo di una rinnovata prassi pastorale.

    La «mediazione»: dove immanenza e trascendenza si incontrano

    Un certo modo di pensare, di fare raccomandazioni e di cogliere problemi e prospettive è abituato a contrapporre le realtà trascendenti a quelle immanenti. Il mondo della trascendenza è quello che riguarda direttamente il mistero di Dio e quei gesti, parole e interventi che cercano di raggiungerlo. Il mondo dell'immanenza è invece quello della nostra esistenza quotidiana, dove l'uomo si arrabatta, solitario, nel labirinto delle opere delle sue mani.
    In questo mondo Dio è assente, risulta lontano, estraneo. Se vogliamo incontrarlo, dobbiamo avere il coraggio di abbandonare progressivamente tutto quello che ci lega a questa esperienza troppo condizionante per accedere alla libertà del mistero.
    Ci sono dei cristiani coraggiosi che fanno il grande balzo in avanti e «abbandonano tutto» per incontrare Dio. Cambiano dimora; diventano così la gente della trascendenza .
    Gli altri purtroppo devono continuare a fare i conti con le cose di tutti i giorni. Si ritagliano però qualche spazio privilegiato dove, ad intervalli regolari, cercano di incontrare il loro Dio: i sacramenti, la liturgia, la preghiera. Questi (e solo questi) sono i tempi sacri dove Dio opera la salvezza inondando il mondo «profano» (quello dell'immanenza) della sua grazia.
    Per molto tempo i cristiani hanno vissuto la loro esperienza in questo modello. Non sono mancate le eccezioni; ma la logica dominante era questa. Ora, molti fattori, dentro e fuori la vita della Chiesa, hanno messo in crisi la prospettiva.
    Avanzano soluzioni diverse. Il conflitto, su questa frontiera, attraversa la prassi pastorale. Che fare? È corretto ragionare in questo modo? C'è posto per una visione diversa? La distinzione tra «sacro» e «profano» è classica di ogni esperienza religiosa. Sembra che anche l'esperienza cristiana non possa superarla. Se è così, la pastorale si impegna a sottrarre progressivamente terreno al profano, perché solo immergendo nel sacro può assicurare la salvezza.
    L'Incarnazione ci spinge invece ad una prospettiva radicalmente opposta.
    Al conflitto tra trascendenza e immanenza l'evento di Gesù Cristo sostituisce la categoria teologica della «mediazione sacramentale». È vero che il mondo di Dio e quello dell'uomo sono lontani e incomunicabili. Dio è il totalmente altro, l'ineffabile e l'indicibile. L'uomo è lontano da Dio perché è creatura e perché ha deciso un uso suicida della sua libertà e responsabilità nel peccato. Dio e l'uomo sono i «lontani» per definizione e per scelta.
    Questa però non è l'ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazareth. In lui, Dio si è fatto vicino all'uomo: è diventato «volto» e «parola». E l'uomo è stato ricostruito in una novità così insperata da diventare il volto e la parola di Dio.
    In Gesù di Nazareth i lontani sono ormai diventati i «vicini», in una realtà nuova, che ha trasformato radicalmente i due interlocutori.
    Sempre la fede della Chiesa ha riconosciuto a Gesù il titolo di «mediatore». Egli non è solo colui che fa la mediazione. È la mediazione fatta persona: una persona nuova in cui Dio e l'uomo sono in dialogo pieno e totale.
    La grande mediazione è Gesù «uomo»; per questo l'umanità dell'uomo è in piccola misura e in potenzialità totale, mediazione tra il mondo della trascendenza e quello dell'immanenza .
    Senza Gesù nella storia dell'uomo il conflitto resta e la distanza è incolmabile. In Gesù la distanza è ormai coperta definitivamente: l'immanente è il luogo in cui il trascendente si fa «volto» e «parola».
    Come in Gesù, si tratta di una presenza sotto i veli del segno.
    Nel linguaggio della Chiesa questo tipo di presenza è chiamato con una formula frequente: sacramento e sacramentalità.
    L'umanità quotidiana dell'uomo è il sacramento in cui Dio si fa presente e vicino, per attuare il suo progetto di salvezza.
    La contrapposizione fra immanenza e trascendenza, tra orizzontalismo e verticalismo (un altro gioco linguistico per esprimere la distinzione tra il mondo di Dio e quello dell'uomo), ci riporta ad una logica precedente l'Incarnazione. Ci priva così dell'esperienza fondamentale dell'esistenza nuova del cristiano. Per fare più spazio a Dio, lo si caccia follemente di casa. Al Dio di Gesù Cristo viene sostituito il dio dei filosofi, tanto «trascendente» da essere muto e impassibile: senza parola per l'uomo e senza passione per la sua vita.

    Fare la salvezza secondo il progetto del Dio di Gesù Cristo

    Il lettore attento ricorda certamente che ho presentato l'Incarnazione come una delle tante esperienze in cui si distende l'esistenza di Gesù e la fede di coloro che lo confessano il Signore. Si tratta di una esperienza fondamentale; ma a nessun titolo possiamo considerarla come l'unica.
    Questa sottolineatura è importante per raccogliere un secondo imperativo all'azione pastorale .
    Noi confessiamo sulla testimonianza di Pietro che non c'è altro nome in cui ottenere vita e salvezza, se non Gesù il Cristo, perché egli è morto e risorto per noi. Nella Pasqua Gesù è stato costituito Signore e Salvatore (At 4).
    Ogni corretta azione pastorale deve portare alla Pasqua per condurre alla salvezza. Senza l'immersione nella morte di Gesù, senza la condivisione della sua croce, non possiamo condividere la sua vittoria sulla morte e il trionfo definitivo della vita.
    Questo è un dato importante e assodato. La sua disattenzione riduce la pastorale ad una delle tante metodologie terapeutiche. La svuota alla radice e la condanna alla inefficacia, perché non ha le carte in regola per fare concorrenza ai sapienti delle tecniche analitiche.
    Il problema è un altro, molto più serio. Lo preciso un po' meglio, prima di avanzare una mia ipotesi risolutoria.
    L'Incarnazione dice condivisione, sottolinea la continuità tra l'esperienza umana e il mistero di Dio, anche se sotto il velo della sacramentalità .
    La croce di Gesù indica invece la rottura, la separazione, il salto di qualità, perché imprime alla realtà il movimento della morte per la vita.
    L'Incarnazione mette l'accento sulla costitutiva grandezza dell'uomo. La croce ricorda invece la sua debolezza e il suo tradimento. Di conseguenza è grido che invoca il dono che ci sfugge, che possediamo solo perché ci immergiamo in Dio e consegniamo a lui ogni nostro desiderio.
    Se mettiamo sullo stesso piano i due avvenimenti, ci troviamo costretti a scegliere, selezionando l'uno contro l'altro.
    Ma in questa operazione forzata, ci depriviamo comunque di una esperienza fondamentale .
    Troppe volte la pastorale ha agito così. E sono nati i modelli dell'accondiscendenza inutile e rassegnata. E quelli delle dure pretese e delle alternative integriste.
    Su questa chiarificazione di termini, si colloca la proposta di fare dell'Incarnazione la prospettiva fondamentale: non è l'unica, anche se resta quella decisiva sul piano interpretativo .
    La pastorale è chiamata ad attuare la salvezza. Per questo deve portare alla Pasqua di Gesù, introducendo coraggiosamente in tutta la sua logica e nelle sue esigenze.
    Lo può fare però ignorando l'umanità dell'uomo, per immergerlo solo nel mondo di un futuro che è tutto diverso dal nostro presente. E lo può fare trascinando l'uomo allo scontro con le esigenze del suo Dio. L'accento è posto sulla distinzione e sulla alterità .
    Molti cristiani hanno vissuto così la loro fede e la loro ansia di salvezza, personale e collettiva. Un grande credente come K. Barth ricordava all'uomo saccente del suo tempo (il tempo della Germania nazista) che i castelli costruiti dall'uomo sono solo delle topaie e che l'unico contributo che l'uomo è capace di porre alla sua salvezza consiste nel riconoscere il proprio peccato. Se però consideriamo l'Incarnazione come il modello fondamentale anche per la salvezza, se ripensiamo la prassi di Gesù per fare salvezza tra la gente di Galilea e di Gerusalemme, le cose cambiano intensamente. Gesù ha portato alla salvezza di Dio facendo prima di tutto toccare con mano la sua bontà, accogliente e perdonante. Ha restituito vitalità alle gambe rattrappite dello zoppo di Cafarnao, per potergli dire in verità: Dio perdona i tuoi peccati (Lc 5, 17-26).
    L'ha imitato Pietro, alla porta bella del Tempio, perché tutti sappiano che solo in Gesù c'è salvezza (At 3).
    Siamo peccatori; abbiamo bisogno di uscire dal nostro peccato e non lo possiamo fare che consegnando tutta la nostra vita a Dio: risuona così la voce di Gesù, oggi come nella casa di Pietro sulla riva del lago. Per vivere dobbiamo morire: come il chicco di frumento. Riconoscere il peccato e affidare la propria morte al Dio della vita è un rischio, un salto nel buio. Ci distrugge, nella nostra presunzione saccente. Ci chiede un modo nuovo di vivere, riconoscendo che solo Dio è il Signore.
    Questo invito, tanto sconvolgente, e accompagnato da un gesto che ce lo rende familiare e suasivo. Continua la voce di Gesù, oggi come a Cafarnao: caricati sulle spalle lettuccio e stampelle e torna a casa con le tue gambe. Nell'esperienza di una accoglienza che anticipa nel piccolo la novità promessa, scopriamo chi è Dio per noi: il Dio che salva solo chi consegna a lui la sua fame di vita, come nella croce. Ma è un Dio di cui possiamo fidarci incondizionatamente. Lo attestano le cose meravigliose che sta compiendo oggi per il suo popolo, come segno manifestatore di interventi dalla risonanza molto più sconvolgente.
    Da questa prospettiva, la pastorale trova un modo diverso di impegnarsi per la salvezza. Mette al centro la Pasqua ma lo fa a partire dall'Incarnazione.
    La vita nuova che nasce dalla croce, viene così sperimentata inizialmente attraverso i suoi segni anticipatori.

    La «svolta antropologica» nella pastorale

    Questo terzo tema riprende e rilancia i primi due, verso modelli generali, che investono la struttura fondamentale dell'evangelizzazione.
    Ho messo a titolo una formula tecnica: la svolta antropologica. Molti lettori ricordano le lunghe polemiche suscitate nella Chiesa italiana del dopoconcilio attorno a questo problema. Spesso nascevano da una sua cattiva comprensione. Altre volte avevano alla radice le resistenze e le paure che il vento rinnovatore del Concilio aveva seminato .
    Il rinnovamento della catechesi ha prodotto chiarezza e consenso, soprattutto perché ha ancorato la «svolta antropologica» alla riscoperta dell'evento dell'Incarnazione.
    Un suo articolo è diventato presto famoso: «Chiunque voglia fare all'uomo d'oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio con noi, il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (RdC 77).
    Lo consideriamo per qualche momento assieme. Ad oltre quindici anni dalla sua formulazione ha ancora suggerimenti preziosi da offrire. Il tono solenne della citazione lo indica come un dato centrale e discriminante. Fedeli a questa esigenza, facciamo un discorso «cristiano» su Dio. Se invece ci discostiamo da essa, possiamo diventare responsabili dell'ateismo reattivo di tanti nostri amici, come ricorda anche la Gaudium et spes (GS 19) .
    La pastorale è chiamata in causa propria nelle sue pretese costitutive.
    Il problema non è se e come parlare dell'uomo. facendo teologia e operando in pastorale. Si è fatto sempre così. La teologia aveva interi trattati sull'uomo e la pastorale si interessava all'esistenza concreta e quotidiana delle persone.
    L'uomo e la sua vita erano però uno dei temi: si parlava di Dio e dell'uomo.
    La svolta antropologica segna un cambio radicale di prospettiva, perché mette la vita quotidiana dell'uomo al centro, per poter parlare del Dio di Gesù Cristo. La parola e il volto dell'uomo sono l'unico luogo dove è possibile incontrare e parlare di Dio nella sua verità. Non sono uno dei tanti temi all'ordine del giorno. Sono invece lo strumento linguistico, unico e insostituibile, per affrontare correttamente tutti i temi.
    Per questo Il rinnovamento della catechesi ricorda perentoriamente che un parlare cristiano su Dio deve «muovere» sempre dall'uomo e dalla sua vita; e deve tener presente costantemente questo orizzonte linguistico per non slittare da un discorso sul Dio di Gesù Cristo ad una ricerca sul dio astratto e impersonale dei filosofi.
    Ricorda anche la motivazione. Ed è prezioso suggerimento, da non dimenticare, per restare nella verità. Non si tratta di un ritrovato metodologico. Non è quel modo di fare funzionale, richiesto da una corretta comunicazione intersoggettiva, che sollecita a conoscere la lingua dell'interlocutore, per entrare in dialogo con lui; o quello che spinge a preferire un linguaggio immaginifico ad uno strettamente tecnico, per non escludere dal dialogo coloro che non sono addetti ai lavori.
    Tutto questo è importante. Ma resta «discutibile», in ultima analisi. E soprattutto non dice mai fino a che punto sia necessario giungere a questi «adattamenti».
    La ragione, ricordata da Il rinnovamento della catechesi, è molto più sostanziale: chiama in causa l'Incarnazione. Riporta cioè all'evento fondante l'esistenza cristiana. Parlare di Dio muovendo dalle parole dell'uomo è l'unico modo praticabile di parlare di Dio, dal momento che Gesù è la parola e il volto definitivo di Dio.
    In questa indicazione Il rinnovamento della catechesi fa eco alla affermazione molto più autorevole della Dei verbum: «Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo» (DV 13).
    Parlare di Dio in parole umane significa, a conclusione, una grande conversione per gli operatori della pastorale: la svolta antropologica.
    Redemptor hominis, collocata in questa prospettiva, ricorda la grande legge di ogni azione pastorale: «L'uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale (...) quest'uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'Incarnazione e della Redenzione» (RH 14). La «svolta antropologica» mette così l'uomo al centro della missione della Chiesa e segna, nello stesso tempo, lo stile di questa missione.
    Non possiamo pretendere una parola su Dio e un gesto di salvezza che non sia costitutivamente la nostra povera parola e il nostro gesto. Lì Dio si fa presente, come colui che rivela e salva. Ritorna il tema della sacramentalità. Non possiamo cercare altrove parole e gesti, quasi potessimo rubare agli angeli il loro linguaggio... Lo diciamo con gioia e con fierezza: non è il limite che dobbiamo soffrire e superare, ma l'esperienza di cui in Gesù dobbiamo compiacerci. Se usiamo parole umane, gesti e parole restano sempre nella logica di ogni fatto umano. Sono povere, fragili, spesso opache. C'è posto per una pluralità di parole, perché nessuna può pretendere di catturare in modo esclusivo il mistero che intende esprimere .
    La trasparenza rispetto al mistero è assicurata dalla qualità intrinseca del discorso e dalla competenza di colui che lo pone. Certamente, la forza di salvezza trascende questa competenza. Chi parla è sempre un «servo inutile», perché non può offrire quello che per primo invoca con trepida attesa. Nella debolezza dell'uomo la potenza del mistero si fa forza di vita. Al «servo inutile» si chiede però la quotidiana fatica di far trasparire il mistero che serve.
    Questi cenni non possono far concludere sulla sponda pericolosa del relativismo generalizzato. Ce lo proibisce la certezza che nella nostra povera espressione c'è sempre un mistero di grazia e di salvezza, che si fa volto e parola. Di questo mistero alcuni fratelli sono nella comunità ecclesiale testimoni autorevoli. Anche la loro parola è parola d'uomo, per essere parola per l'uomo. La loro parola continua però in modo privilegiato quella di Gesù e dei suoi primi discepoli. Può sostenere la nostra debole fede e impegnarci in una decisione che coinvolge tutta la nostra esistenza.
    La pastorale è servizio della comunità ecclesiale per attuare nel tempo la salvezza di Dio. È servizio di uomini per i loro fratelli. Lo Spirito di Gesù sostiene questo servizio. Dà forza specialissima ad alcuni segni; dà autorevolezza particolare ad alcune parole.

    Un modello globale di esistenza cristiana

    La meditazione dell'evento dell'Incarnazione offre infine alla pastorale suggerimenti e indicazioni per costruire un modello globale di esistenza cristiana.
    Ripensiamo al vecchio schema, ereditato, spesso a cuore leggero, dalla teodicea ellenistica.
    Dio abita sull'alta montagna, tra gli splendori inaccessibili della sua potenza. L'uomo sogna di incontrare Dio. Ne ha bisogno, come dell'aria che respira. E si getta, con coraggio un po' temerario, nell'impresa disperata: scalare la montagna dove dimora Dio. La salita è lunga, irta di difficoltà. Ogni tanto ci si ritrova al punto di partenza, precipitati in basso dal peso greve del fardello che ci trasciniamo.
    L'uomo sapiente ha scoperto una via d'uscita. Abbandona per strada la zavorra che appesantisce il suo passo. Libero da tutto quello che non gli serve, può salire più spedito. Così lascia gli affanni della vita di tutti i giorni; affranca il suo spirito dal carcere del corpo; controlla sentimenti e affetti, per ritornare alla pura razionalità.
    Anche per lui la salita resta faticosa. Ma è praticabile. E la meta gli sorride ormai vicina. Lo incoraggia e lo sostiene l'esempio di coloro che, prima di lui, hanno percorso, liberi e spediti, i tornanti della montagna inaccessibile. Gli altri restano bloccati ai piedi del monte, inceppati dal peso dei bagagli di cui non vogliono liberarsi.
    Ho usato un linguaggio scherzoso; ma ho tracciato un quadro abbastanza realistico del modello di spiritualità che ha dominato la pastorale per troppo tempo.
    È strano. Abbiamo proclamato con entusiasmo riconoscente la certezza che Dio ha abbassato ormai tutte le montagne e ha colmato le valli, per rendere più spedito e gradito il cammino verso casa ai reduci dall'esilio (Lc 3). L'abbiamo cantato preparandoci a celebrare il Natale. Abbiamo da sempre collegato l'Incarnazione alla fede che Dio si è fatto dei nostri, per permetterci un ritorno a casa più facile e felice. Ma la pastorale pratica non ne è rimasta influenzata. Il Natale si è trasformato in un mistero da contemplare astrattamente, invece di risuonare come un evento da imitare: un evento che si fa criterio.
    L'Incarnazione spinge l'uomo a consegnarsi nell'abbraccio del suo Dio. Lo fa però ricordando che Dio ha abbandonato gli splendori della vetta inaccessibile, per rivestirsi dell'abito povero dell'uomo di Nazareth. Chiama l'uomo a sé; e gli si fa vicino e solidale per farsi incontrare.
    Il padre del ragazzo fuggito di casa per ubriacarsi di libertà, ha atteso con ansia il ritorno del figlio. L'ha atteso sulla soglia della sua casa. L'ha accolto in un lungo abbraccio, appena ha bussato alla porta. Il Dio di Gesù ha fatto di più: si è messo alla trepida ricerca dell'uomo, si è fatto suo compagno di cammino, per aiutarlo a ritornare a casa.
    L'Incarnazione ci suggerisce un modello di vita cristiana. La pastorale ha molto da imparare, alla sua scuola.


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