Documento redazionale
(NPG 1986-05-4)
L'ambito in cui si è mossa la nostra riflessione è quello che segna il nodo fondamentale della pastorale giovanile: l'educazione e l'educazione alla fede. E' il nodo che incrocia ogni riflessione, sia a partire dal basso, dal desiderio di una rinnovata comprensione del mondo giovanile, delle sue aspettative e dei suoi bisogni, sia a partire dall'alto, da riflessioni sulla salvezza e sulla missione della chiesa.
Pensare insieme, tuttavia, è sempre «un'avventura»: si sa da dove si parte e non si sa (soprattutto quando si ricerca con autenticità) dove si arriva e attraverso quali strade.
In questo caso siamo partiti «dal basso», e il punto di partenza è stata la constatazione di un disagio, alcune volte chiaramente avvertito, alcune volte appena percettibile: il disagio in cui si trova la pastorale giovanile quando esce fuori dalle riflessioni teoriche e cerca vie o canali di comunicazione verso i giovani. E' il disagio di una comunicazione che non comunica, di un incontro che non avviene o raramente avviene: due strade parallele, quella della vita dei giovani e l'offerta ecclesiale, che non si incontrano: parallele all'infinito.
La parola ricorrente, su cui si rileva un largo se pur differenziato consenso, è quella di «crisi»: crisi della pastorale giovanile, crisi di comunicazione, crisi dei meccanismi di trasmissione culturale, crisi dell'educazione, crisi generalizzata delle istituzioni.
Una crisi che resta aperta nonostante momenti di apparente dialogo e di incontro: perché tocca il problema del senso e delle ragioni del vivere.
Sulle tracce di questa crisi si è snodato il discorso, attraverso i vari incontri di redazione.
IL NOSTRO PUNTO Dl OSSERVAZIONE
Ci muoviamo certamente in un ambito e da precomprensioni credenti: e quindi si avverte che la crisi non può essere assunta fino in fondo, fino alla dichiarazione esplicita della sua non-intelligibilità, delle non possibili vie di uscita, della disgregazione e nichilismo totali. Questo però non significa che non si possano guardare i problemi con disincanto, nella loro «pesantezza», nel significato che oggettivamente e soggettivamente assumono per chi vi è immerso. Assumere la crisi generalizzata come punto di partenza può rappresentare il primo gradino di una comunicazione vera tra culture diverse, la cui separazione fa sentire da tempo i suoi effetti negativi.
Il consenso di base su una valutazione generale della situazione della pastorale giovanile, ha permesso un andamento della riflessione, per così dire, «a spirale»: accanto a larghe condivisioni, emergevano elementi in qualche modo «dissonanti» che obbligavano a ripercorrere il tracciato, riconiugando in continuazione il pensiero usuale, la memoria consolidata e i «dati» sull'attuale situazione.
Dissonanti non erano solamente le riflessioni nuove, a più diretto contatto e di più diretta emanazione dalla cultura o da nuove sottolineature teologiche, ma anche le riflessioni che nascevano quando ci si metteva a discutere su realtà «marginali», come i giovani (che erano l'oggetto specifico delle redazioni) o, per affinità di «rilevanza marginale», come la questione femminile e il laicato: tutta quella esperienza, cioè, che per la sua natura e per le sue ragioni storiche non si situa all'interno della tradizione consolidata, che non ne prevede l'esistenza se non lateralmente.
Essi sono risultati contributi rilavanti, che hanno portato nel dialogo della redazione quelle riflessioni che nella situazione attuale premono sul pensiero e sull'esperienza tradizionali come «giudizio» e come spinta in avanti.
Tutto ciò ha significato, per la riflessione condotta, un capovolgimento metodologico.
Esempi significativi di questo capovolgimento e di questa «provocazione» sono stati individuati nella teologia politica, nella teologia della liberazione, nella teologia femminista: esse rappresentano, a parte ogni giudizio di merito, un tentativo di formulare teoricamente alcune delle questioni in cui maggiormente si avverte la differenza, di punti di riferimento e di contenuti, con le questioni classiche.
Proprio in virtù della loro specificità e individuazione storica, tali tentativi sono attualmente portatori di quel segno di distanza e/o differenza che, difficilmente esprimibile con le categorie tradizionali, pure chiede di essere espresso. E' evidente che quando questi si proponessero come esaustivi di ogni problematica teologica o, comunque, come uniche letture possibili dei punti focali della cultura contemporanea, diventerebbero ideologici e perderebbero così ogni capacità interpretativa.
Lc questioni che hanno prodotto queste riflessioni, comunque (e qui sta un'altra «novità» metodologica), non appartengono soltanto ai soggetti storici che ne sono i principali portatori, ma a tutti; e, soprattutto, esse sono un ulteriore arricchimento di quel bagaglio di coscienza storica che entra come elemento determinante nella riflessione teologica. Queste teologie rappresentano, in definitiva, esempi di come le «storie parziali» possano fornire indicazioni per uscire dalla attuale situazione di stasi; mentre constatiamo che impostazioni più «globali» e per forza di cose più «astratte» sono sempre meno significative per l'uomo contemporaneo, questi tentativi che partono dal «basso» dimostrano vivacità e una possibilità notevole di comunicare con la cultura attuale.
Esse ci invitano a dialogare da e tra diversi, per mettere a frutto la differenza.
IL PUNTO Dl PARTENZA
La constatazione di uno stato di «crisi» in cui si dibatte la pastorale giovanile, dicevamo, ha dato l'avvio alla riflessione. Tale crisi e perlopiù avvertita come una situazione di disagio, talvolta pesante e diffuso, più che chiaramente percepita.
L'impressione è soprattutto in chi opera sul campo, a diretto contatto con i giovani, particolarmente quelli al di fuori delle grandi aggregazioni.
Ma se la crisi non ha i contorni ben definiti e individuabili, può essere tuttavia fatta risalire abbastanza facilmente ad una serie di fattori che in parte l'hanno causata, in parte accompagnata, e in parte seguita, e che globalmente sono indicabili a tre livelli: ecclesiale, culturale, «politico».
Motivi di ordine ecclesiale, anzitutto. Si può tentare di individuarne alcuni.
Anzitutto la carenza di una adeguata ed efficace pastorale degli adulti, che spesso quindi non sono in grado di educare alla fede i giovani e di essere testimoni «autorevoli» di quell'universo religioso che è fonte di valori e di senso.
In secondo luogo il prevalere degli orientamenti pastorali ed educativi derivanti da movimenti e associazioni che spesso agiscono in maniera autonoma (quando non concorrenziale e dissonante) rispetto ad altri luoghi pastorali tipici, quali la famiglia, la scuola, la parrocchia; tanto più quando essi presentano elementi di settarismo o di integrismo, e non sono in grado di restare aperti al dialogo e al confronto.
Ancora: la non chiarezza delle tante proposte di un pluralismo ecclesiale che si stenta a riconoscere come ricchezza, mancando di fatto unità su temi fondamentali.
Con maggior riferimento alla pastorale giovanile propriamente detta, andrebbe rivista l'impostazione degli obiettivi e della metodologia: obiettivi che possono essere élitari, o spingere verso un eccessivo spiritualismo dimentico dei compiti storici, o poco preoccupati della reale situazione dei giovani.
Non ultima una certa stanchezza e mancanza di entusiasmo e creatività degli operatori.
A livello culturale si evidenzia una persistente frattura tra cultura pastorale e cultura giovanile, sempre di più caratterizzate da punti di riferimento e da linguaggi estranei l'uno all'altro. Viene così a mancare la possibilità di «dire qualcosa» di condiviso - situazione che talvolta si traduce in silenzio - in riferimento ad aspetti decisivi della vita (lavoro, presenza nella società e nel territorio, scelte etiche); oppure le risposte offerte passano attraverso linguaggi e proposte troppo dichiaratamente «religiose», incapaci quindi di interpretare appieno le dimensioni di vita e di esperienza del giovane, aiutandolo a comprendere la crisi e a uscirne.
La pastorale giovanile non sembra allora toccare le radici culturali della crisi: distruzione del senso, mancanza di una speranza umana di vincere il dolore, sfiducia di comunicare con l'altro, impotenza dell'uomo a dominare la realtà...
A livello politico alcuni osservatori notano l'emergere, seppure in maniera non avvertita, di una dinamica non risolta tra potere di gruppi emergenti e dimensione popolare: non esisterebbe più una identità collettiva, ma si starebbe affermando, dentro e fuori della chiesa, una identità di tipo neo-corporativo che si esercita come pressione, come strumento di gestione e di comprensione-definizione della realtà.
La chiesa, nelle sue diverse attuazioni, è chiamata direttamente in causa: non tutte le immagini che essa offre di sé sembrano adeguate a mediare l'evento-salvezza nel mondo dei giovani.
I tre ordini di motivi emersi sono per forza di cose strettamente interconnessi, ed è praticamente impossibile trovare ipotesi di soluzione a partire dai dati analitici.
Pensiamo tuttavia che, all'interno di tutte queste indicazioni, esista e debba essere individuato un angolo di visuale privilegiato da cui osservare il tutto, quasi una questione-asse che si presenta come chiave interpretativa della situazione intravista, e come eventuale risoluzione di essa.
LA QUESTIONE DEL SENSO E LA SUA CRISI
Tale questione-asse è apparsa immediatamente quella del senso. Essa, in fondo, è l'unico possibile punto di incontro tra domanda dei giovani e offerta ecclesiale.
Nessuna offerta ecclesiale infatti può essere accolta dai giovani oggi qualora non si presenti come soggettivamente significativa; e inoltre l'offerta di fede e la risposta accogliente dei giovani si incontrano sul terreno delle ragioni di vita e di senso dell'uomo. Ed è proprio qui che l'incontro/comunicazione non avviene: si è parlato a questo proposito di crisi di messaggio e di contesto, della difficile collocazione della fede rispetto al senso.
Ma la questione del senso rimanda oggi immediatamente alla figura della sua crisi. Tale crisi emerge infatti essenzialmente quando il senso non è più unitario e condiviso: quando cioè si è spezzato, ridotto in frammenti, non più valido per tutti: è entrato in crisi; non solo nella sua socializzazione, ma nel suo stesso fondamento. Ed è probabilmente questo il motivo di fondo della crisi della pastorale giovanile.
Su tali questioni la discussione si è fatta meno sicura e più faticosa.
Se questo tema del senso è ritenuto da tutti essenziale quale unico luogo di incontro fede/giovani, non è tuttavia univoco il giudizio sul suo presunto «stato di crisi».
Secondo alcuni infatti la crisi apparterrebbe al sociale, alla situazione storica, e non ai fondamenti filosofici del senso; e qualora anche li riguardasse, ciò non toccherebbe minimamente le posizioni del credente, che nella fede trova sicurezza e solidità. Secondo altri invece non solo la crisi sociale investe il pensiero filosofico, ma essa è rilevante anche per i credenti, che non ne possono risultare immuni, quasi fossero in un'isola separata. Appare evidente che è necessario interrogarsi più a fondo su quanto si andava nominando come «crisi» e sulla necessità di descrivere e capire «cosa sta accadendo»: esiste davvero questa crisi? o è soltanto la crisi di alcune categorie di pensiero che, non essendo più comunicative, creano una situazione di disagio negli adulti? o è in crisi la fede coi suoi fondamenti?
La frammentarietà della cultura e dell'esperienza attuale presenta realtà che non si riesce ad interpretare e collocare adeguatamente nei nostri schemi mentali, se non a prezzo di grosse censure sul vissuto o sulla ricerca.
Il nostro pensiero abituale non è sufficiente per indicarci direzioni di soluzione; quella che ci troviamo a fronteggiare è una situazione di incertezza, del tutto inedita, soprattutto per alcune generazioni.
E' sembrato che la crisi investa sia il senso soggettivo della esistenza che quello oggettivo, con reciproci influssi.
Storicamente, il senso oggettivo era contenuto nelle «grandi risposte»; oggi le grandi risposte, i modelli univoci tradizionalmente trasmessi non sono in grado di raccogliere la pluralità delle esperienze e delle riflessioni. Se il soggetto è in crisi non lo è tanto o soltanto perché gli sfugge la dimensione personale del senso, ma perché la realtà nel suo insieme è percepita come vuota di senso.
Si possono individuare alcuni fattori che determinano le dinamiche «reali» della crisi. Anzitutto l'accelerazione velocissima dei processi culturali, che fa sì che nello spazio storico di un'esistenza i modelli rivelino tutta la loro insufficienza e «cadano» continuamente.
Un orizzonte continuo di senso è impossibile, contrariamente a quanto succedeva nei tempi in cui le ideologie garantivano orizzonti stabili.
L'uomo, inoltre, possiede oggi mezzi molto più numerosi per realizzare i suoi progetti e le scelte che va maturando. Prima viveva l'intero spazio della sua vita nella tensione per un progetto, del tutto identificato con l'ideale. Questa situazione offriva al contesto vitale un senso continuo; non si faceva in tempo a verificare i limiti del progetto o a metterlo in discussione. L'identificazione progetto-ideale oggi è del tutto caduta; la realizzazione dei progetti in tempi reali ha rivelato pesantemente la differenza tra i due termini.
Oggi appare evidente che nessun progetto storico è in grado di incarnare un ideale, dal momento che ogni progetto rivela la sua inadeguatezza ad essere portatore di senso. Questa separazione si è risolta in una crisi radicale degli ideali che sembrano irrealizzabili.
Altro esito di questo movimento, soprattutto ma non esclusivamente, per quanto riguarda alcune generazioni, è stato un disimpegno politico piuttosto radicale e una diffusa esperienza di apatia. Il «dopo '68» ha mostrato che i progetti storici erano inadeguati alla realizzazione di una società diversa; tra coloro che parteciparono alla utopia del '68 è rimasta la memoria di un entusiasmo che, proprio in quanto tale, porta con sé l'esperienza della impotenza del disinteresse e della disintegrazione del senso della esistenza.
Tali movimenti di ordine culturale e sociale hanno inoltre, nella loro traduzione esistenziale, un forte impatto sui soggetti.
I diversi «contenitori» ideologici che hanno funzionato per tanto tempo provvedevano a difendere la gente dagli urti che l'esistenza comporta, fornendo schemi di interpretazione largamente condivisi che permettevano di sostenere e percorrere situazioni conflittuali.
Oggi essi non ci sono più e la gente vive, forse per la prima volta, la sua soggettività in modo immediato e crudo, facendo l'esperienza del nonsenso e della indeterminazione della propria esistenza.
Si va constatando, però, che sembra possibile fare a meno di un «grande senso» unitario, o che, quantomeno, ci stiamo abituando a vivere in un contesto sociale che gestisce anche il nonsenso. Nonostante la durezza di questa esperienza, sembra che oggi la gente non si interroghi più e, pur soffrendo, non raggiunge più una riflessione sull'esistenza, non ricerca un «ulteriore».
L'ESPERIENZA Dl FEDE E LA CRISI
Questa situazione ha delle conseguenze sull'esperienza di fede. Non si può più attribuire alla fede la gestione unica del senso; se si restituisse oggi alla fede la sua antica funzione ideologica, questa risulterebbe assai più totalizzante che in passato.
Essa non «funziona» più come unico schema di interpretazione del mondo, della vita e delle sue ragioni. La realtà umana sembra sorgere e scorrere lontano dai punti di riferimento classici offerti dalla fede. La gente vive la sua esperienza umana in termini di provvisorietà, frammentarietà, senza che tutto questo abbia necessariamente un filo conduttore. Sembra difficile che la fede possa comunicare con questo universo di esperienze, tanto più se esse sono interpretate come totalmente prive di senso o segnate dal caos, e che possa quindi entrare in dialogo con alcuni aspetti della cultura attuale. Essa infatti, oggi meno che nel passato, non richiede alla fede quel contributo di indicazioni sulle ragioni del vivere e del morire che, almeno tradizionalmente, erano l'ambito proprio della fede. Termini come «salvezza», «redenzione», «peccato» e i significati ed esperienze che sono loro connessi sembrano indifferenti e, per la pastorale, «non commerciabili».
Si pone quindi il problema di come ridire la fede e l'orizzonte di senso ultimo in essa contenuto, e comunicare la salvezza in questa cultura.
La discussione è stata ampia e diversificata, le posizioni talvolta non conciliabili. Un elemento, però, è risultato chiaro: essere cristiani oggi in Italia, soprattutto per i giovani, è un fatto tutt'altro che scontato. La difficoltà più grande sembra essere proprio la mancanza, almeno in superficie, di quelle domande circa il senso e i valori che rappresentavano il primo gradino di una iniziazione cristiana e di cui la fede era interlocutore privilegiato. Per questo la questione del senso, che è una delle questioni originarie della fede, è sembrata ancora un «tema generatore» adatto per la riflessione e la pratica attuale di pastorale giovanile.
Da prendere in seria considerazione.
UN ITINERARIO DEBOLE
Parlare di senso come della ragione unica e oggettiva delle scelte quotidiane appare quindi inadeguato: il significato complessivo dell'esperienza sembra nascere infatti da una combinazione spesso indistinta di significati.
Il senso allora si trasforma nella volontà di interpretare, dentro la storia personale, il significato dell'esperienza che si va incontrando, in un quotidiano spesso opaco e tendenzialmente alienante.
All'interno di questo quadro, se le interpretazioni «forti» presuppongono che un senso unico e assoluto si può trovare, quelle «deboli» partono dalla consapevolezza che nessuna interpretazione è totalizzante. Ma solo attraverso di esse sono possibili ipotesi di «uscita».
Si tratta di accettare la debolezza delle singole e collettive posizioni e esperienze per creare da lì itinerari percorribili, per accompagnare la gente nel suo cammino, senza la pretesa di conoscere in anticipo le strade da percorrere.
Interpretazioni o risposte deboli, allora, segnano un itinerario di ricerca che prende sul serio la realtà così come essa si viene progressivamente e frammentariamente manifestando; indicano una modalità dell'esistenza per cui non si possiede un senso preconfezionato valido sempre. E' un atteggiamento, in definitiva, di povertà.
Una grossa difficoltà per l'accettazione di tale modello debole è la diversità, rispetto agli schemi tradizionali, della concezione di verità; in esso infatti la verità si va progressivamente cercando e progressivamente si rivela.
Ma noi siamo figli di un pensiero, di una esperienza e di una tradizione che non si autocomprendeva né si voleva debole. Per tale compito, quindi, vi è la necessità di modelli e parole nuovi. Si rendono necessarie mediazioni teologiche diverse.
La teologia tradizionale indicava con certezza la meta da raggiungere; oggi si progetta un cammino in cui proprio il camminare stesso è più importante della meta.
«Deboli» sono le riflessioni e le risposte perché «relative» (messe in relazione) alla realtà, e accettano la rivelazione di senso della vita quotidiana. «Debole»: non insicuro o incerto, ma parziale e frammentario.
Un itinerario debole non mira però alla accettazione della crisi in modo passivo e rinunciatario, con grossi tagli sulla progettualità personale e collettiva e, in più, con la scissione dell'esperienza di fede da quella storica. Se così fosse, le linee di ricerca sarebbero estranee alla esperienza di fede e tenderebbero alla formazione di individui deboli. Un progetto educativo invece mira a formare uomini la cui forza stia proprio nella accettazione della condizione di «debolezza», accettazione che consenta di vivere in una dimensione di stabilità e fedeltà. Non si tratta di eliminare i conflitti magari riducendo i contenuti o la speranza, ma di trovare modelli che educhino a «portarli» con forza.
L'ESPERIENZA DEL FONDAMENTO
L'itinerario debole rappresenta un'apertura, una strada, dal momento che l'esperienza umana sembra consistere di piccoli frammenti. Esso dovrebbe condurre a elaborare «piccoli sensi» che vanno crescendo fino a comporre, negli spazi e nei tempi di una vita, una immagine completa. Il piccolo senso che il quotidiano ha rivelato rappresenterebbe la tessera di un grande mosaico di cui non si conosce fino alla fine dell'opera il disegno, e che comunque esige una specie di «grammatica di significati» per essere decifrato. Ma è qui che si gioca, fondamentalmente, la compatibilità della esperienza cristiana con un itinerario debole.
Rivisitando infatti l'esperienza cristiana, ci si rende conto che essa non solo è costituita dalla consapevolezza della precarietà dell'esistenza, del destino di morte e di una chiamata all'«oltre», ma anche (essenzialmente) dall'esperienza del fondamento: la fede cristiana ha un fondamento che è irrinunciabile.
Come si collegano, allora, la ricerca di senso nel quotidiano con il fondamento certo e assoluto della fede cristiana? Cosa vuol significare il fondamento nel quadro di un itinerario debole e di una esperienza frammentaria?
Noi siamo abituati, in fondo, a pensare la questione del senso in termini di contenuti; l'itinerario debole invece collegato al fondamento conduce altrove.
Il fondamento indica che realmente il cammino è solido, sensato, ma non dice nulla sui singoli passi che si stanno compiendo o che si dovranno compiere.
Essi però, frammenti di esperienza e piccole disorganiche rivelazioni, sono contenuti in una grande esperienza di senso, che è quella che la fede annuncia.
In questa direzione, l'itinerario debole rivela la sua forza: esso permette di riconoscere, con realismo, che il carattere frammentario e multidimensionale della esperienza umana non è necessariamente indice di patologia, ma può essere occasione per un esercizio di fede adulto e significativo.
Portare i giovani all'esperienza del fondamento, tuttavia, non sembra tanto semplice. Oltre a itinerari praticabili, occorrono anche testimoni capaci di rivelare in trasparenza la fatica e la sofferenza del camminare, e insieme la certezza del cammino.
La preoccupazione di restare ancorati alla tradizione ecclesiale, pur raccogliendo la novità dell'esperienza, ci ha condotti ad una preoccupazione più specificamente educativa.
Non possiamo dimenticare infatti che ogni uomo (e tanto più il giovane) vive all'interno di una rete di rapporti in cui cresce e matura.
Il soggetto della ricerca del senso diventa dunque la comunità, al cui interno è possibile trovare spazi e tempi che consentano rapporti reali e ricerca autentica.
In quest'ottica il gruppo assume una connotazione particolare, come luogo di incontro tra realtà percepita e memoria consolidata, in cui il linguaggio si confronta ed evolve, nella percezione della appartenenza alla tradizione e insieme della necessità vitale di nuove espressioni.
PROBLEMI APERTI
Individuata come questione di fondo la crisi del senso, ci si può interrogare se essa è davvero la questione asse della condizione giovanile e, di conseguenza, della pastorale giovanile. Potrebbe trattarsi, effettivamente. di uno schema di lettura dovuto proprio ai punti di riferimento tradizionali, quelli che si cerca di percorrere criticamente. La questione del senso potrebbe venire da una logica che un senso lo prevedeva e non era abituata a sospettarne. Ciò, tuttavia, non dice ancora molto; i giovani potrebbero essere «portatori» di una crisi che non è loro propria, ma che ugualmente subiscono, e che gli adulti dovrebbero verificare e farsene carico sul piano educativo.
Un secondo problema riguarda l'itinerario debole: esso necessita di mediazioni teologiche per dire le «cose nuove» senza staccarsi dalla tradizione ecclesiale.
Abbiamo bisogno di modelli, di un quadro di riferimento che permetta un itinerario percorribile.
Potrebbe essere utile l'esperienza dell'uomo biblico? Nell'esperienza di crisi egli non ha cercato risposte astratte o ideologiche, ma nuovi modi di vivere, e ha interpretato questi suoi movimenti in termini di fede.
Vi è un qualche modo per far ripercorrere al giovane d'oggi la medesima esperienza?