Luis A. Gallo
(NPG 1984-23-32)
Qualche mese fa partecipavo a Gerusalemme ad una conferenza del prof. Manns sull'ebraismo contemporaneo. Mi colpì tra l'altro ciò che disse sullo yom kippur o giorno dell'espiazione. In quell'occasione venivano perdonati agli ebrei che compivano certe cerimonie soltanto i peccati commessi contro Dio; quelli invece contro i fratelli dovevano venir perdonati dai fratelli stessi.
Un po' prima avevo letto su un giornale argentino la coraggiosa denuncia di un Vescovo di quella Chiesa: i peccati pubblici, diceva, devono venir perdonati pubblicamente. Si riferiva concretamente alle torture e assassini commessi dal regime militari negli ultimi anni (1976-1983).
Questi due dati marcano la direzione della mia relazione. Mi propongo di mettere in evidenza alcune impreteribili implicanze della riconciliazione, di quelle cioè contenute nelle parole «comunione e partecipazione».
PECCATO: OFFESA Dl DIO O MALE DELL'UOMO?
È chiaro che, in un contesto di fede cristiana, riconciliazione e peccato sono termini correlativi. La riconciliazione, infatti, avviene attraverso e mediante l'eliminazione del peccato. Risulta logico, quindi, che da come viene concepito l'uno venga concepita anche l'altra.
Da una visione cosmocentrica ad una visione antropocentrica
Orbene, una delle concezioni più diffuse del peccato tra i cristiani, anche per influsso di una certa formazione catechistica, è quella che lo pensa come offesa di Dio. Due caratteristiche spiccano in tale concezione: la verticalità e un certo tipo di antropomorfismo.
Anzitutto, la verticalità. Il peccato viene definito formalmente nei confronti di Dio. È un qualcosa che ha a che vedere fondamentalmente con lui in quanto Signore assoluto, fondatore e garante dell'ordine creaturale. Poiché è tale, la sua onnipotenza dispone tutto saggiamente per il bene delle sue creature, specialmente dell'uomo. Perciò, qualunque violazione dell'ordine da Lui stabilito costituisce una ribellione contro questa sua volontà e, di conseguenza, una negazione pratica della sua signoria.
È questo tratto di insubordinazione e di disubbidienza ciò che conferisce all'atto umano, di qualunque entità esso sia, il suo carattere peccaminoso. In tale senso si può dire che questa concezione di peccato del cristianesimo non si scosta da quanto avevano già pensato e vissuto gli uomini religiosi di altri tempi, e di quanto pensano e vivono gli uomini di altre religioni attuali. Tanto i manuali classici di teologia morale quanto i catechismi che li ricopiavano in miniatura, facevano propria detta concezione quando definivano il peccato come violazione della legge di Dio in materia grave (peccato mortale) o in materia lieve (peccato veniale).
L'altro tratto che caratterizza questa concezione di peccato è, come dicevamo, un determinato tipo di antropomorfismo. Infatti, il pensare l'insubordinazione e disubbidienza come un'offesa arrecata a Dio, suppone un modo di concepire Dio come un grande signore (magari un signore feudale!) che ci tiene al suo onore e considera una lesione alla sua dignità il fatto che la sua volontà non venga rispettata.
Non è difficile individuare lo sfondo culturale di tale concezione. Si tratta di una visione della realtà di tipo cosmocentrico, quella che il cristianesimo incontrò e assunse soprattutto nel suo inoltrarsi nel mondo greco-romano. Una mentalità che non ha scoperto ancora la singolarità della persona-soggetto nell'insieme degli esseri, e che pensa Dio e l'uomo con categorie cosali mutuate dall'esperienza del cosmo. Risulta ovvio che una sensibilità di questo tipo sia anche spiccatamente teocentrica e verticale, dal momento che Dio viene da essa visto come la prima sostanza dalla quale prende origine tutto il resto della realtà.
La scelta antropocentrica del Concilio
Una simile visione delle cose è oggi fortemente in crisi. Ad essa si sta sostituendo sempre più largamente un'altra, di tipo antropocentrico. Che questa nuova visione metta a soqquadro tutto il modo di pensare e di vivere la fede cristiana, non credo ci sia bisogno di dimostralo. Neanche è necessario evidenziare quanto essa sia minacciata dal rischio di ateismo, come lo rilevava già a suo tempo il Vaticano II nella costituzione «Gaudium et Spes» (nn. 19-20).
Eppure, fatta la necessaria cernita, tale mentalità deve venir assunta dalla fede, come lo fu la precedente. È in gioco il regime di incarnazione. Lo stesso Concilio, infatti, ha avuto il coraggio di intraprendere quest'assunzione. È illuminante e allo stesso tempo confortante ciò che, al riguardo, disse Paolo VI nella sua omelia-bilancio del 7 dicembre 1965. In essa il Papa si chiede con realismo e raccogliendo una delle obiezioni rivolte al carattere religioso del Concilio: «Tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio, ha forse deviato la mente della Chiesa in Concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna?». E risponde, laconicamente: «Deviato, no; rivolto, sì». Due cose bisogna rilevare in questa frase: anzitutto, l'aperto riconoscimento del carattere antropocentrico della cultura contemporanea, cosa mai fatta, almeno ufficialmente, prima; poi, la decisa affermazione dell'orientamento della Chiesa conciliare in tale direzione. La prima dimostra la chiaroveggenza di un papa che, pur nella sofferenza e con non pochi tentennamenti, seppe cogliere il nocciolo di quanto sta accadendo, a livello culturale, nell'umanità odierna. La seconda dissipa ogni dubbio riguardo all'atteggiamento da prendere nei suoi confronti.
Come ripensare il peccato in una teologia antropocentrica
Se dunque l'intero contenuto del messaggio cristiano va sottoposto al processo di inculturazione esigito dal momento storico in cui viviamo, anche il peccato, quale sua componente, vi resta coinvolto. Esso deve venir pensato a partire da questo nuovo orientamento antropocentrico. Un peccato definito prioritariamente come offesa di Dio non è in sintonia con chi ormai non vibra più in una cultura cosmocentrica. Forse si radica qui la ragione di quella perdita del senso del peccato di cui si è venuto parlando in questi ultimi decenni.
Più che di perdita del senso del peccato in genere, si dovrebbe allora parlare di scomparsa di quel determinato modo di concepire il peccato che è stato in vigore per secoli fra i cristiani.
Come ri-comprendere dunque il peccato? come ri-definirlo per l'oggi? Ci viene qui in aiuto l'intuizione geniale di S. Tommaso. Come lo ha fatto vedere J.B. Metz, l'Aquinate ha dovuto, per forza di cose, sistematizzare teologicamente un messaggio eminentemente antropocentrico, come è quello biblico-cristiano, avvalendosi di un impianto culturale cosmocentrico, quale era quello greco da lui conosciuto. Frequentemente però la sua mentalità antropocentrica di fondo diventa trasparente forzando, per così dire, le categoria di pensiero di cui si serve.
Un caso caratteristico è quello del capitolo 122 della Summa contro Gentiles, nel quale parla appunto del peccato. Quasi come di passaggio, nel discutere la gravità di un determinato tipo di peccato sessuale, fa quest'affermazione, per noi estremamente suggestiva: «Il peccato non offende Dio, se non per il fatto che noi agiamo contro il nostro proprio bene».
Nella prima parte della sua affermazione Tommaso è ancora debitore alla mentalità medievale del suo tempo, che pensa il peccato in termini di offesa. Ma la novità sta qui nella seconda parte della sua frase. Secondo essa, il peccato è un qualcosa che ha a che vedere anzitutto (negativamente) con il bene dell'uomo e poi, come di rimbalzo, anche con l'onore di Dio. Il fatto che dica che «solo perché» il bene dell'uomo viene menomato ne segue l'offesa di Dio, conferisce al peccato una portata antropocentrica straordinaria. Siamo nella stessa linea della conosciuta affermazione di S. Ireneo: «La gloria di Dio è l'uomo vivente». Alla sua luce possiamo dire che tutto ciò che diminuisce la vita dell'uomo (in termini di S. Tommaso: tutto ciò che è contro il bene dell'uomo) diminuisce anche e perciò stesso la gloria di Dio.
In fondo è qui in gioco, come si può facilmente vedere, l'immagine stessa di Dio. Il Dio rivelatosi in Gesù di Nazaret è un Dio antropocentrico, dal momento che è un Dio-agàpe (1 Gio 4,8.16): non è centrato su se stesso, ma su colui che ha scelto nella sua libertà infinita di amare, cioè l'uomo. È per questo che toccare l'uomo è toccare la pupilla dei suoi occhi.
Questo ci porta allora a mettere in crisi la concezione eminentemente verticale del peccato, innanzitutto, e a sostituirla con un'altra più orizzontale: ma anche a mettere in crisi l'antropomorfismo dell'offesa, con cui veniva pensato, per sostituirlo con un'altra metafora, più consona con l'immagine del Dio di Gesù Cristo. Più che parlare di offesa di Dio, dovremmo parlare di dolore di Dio. Un dolore che non è espressione di egoismo o di egocentrismo, ma precisamente espressione di amore. È senz'altro conosciuta la discussione teologica svoltasi in questi ultimi anni attorno al problema del dolore o sofferenza di Dio. I suoi risultati ci autorizzano a utilizzare senza paure questo linguaggio che, appunto per la sua valenza metaforica ma non per questo meno reale, ci offre la possibilità di esprimere meglio la dimensione teologale del peccato.
Allora: offesa di Dio o male dell'uomo?
Riprendendo ora la domanda con cui abbiamo iniziato la nostra riflessione (peccato: offesa di Dio o male dell'uomo?) possiamo risponderci sostituendo l'o con un'e, ma ritoccando la prima parte della disgiuntiva (dolore, al posto di offesa) e affermando quanto segue: 1) che il peccato è anzitutto una menomazione dell'uomo prodotta da lui stesso, un andare contro se stesso, una autentica sua disgrazia; 2) che poi, e perciò stesso, il peccato è anche un dolore di Dio, del Dio che nella persona e nella vicenda di Gesù Cristo ha dimostrato la sua estrema filantropia.
Ovviamente, mentre il primo aspetto (male o disgrazia dell'uomo) può venire colto da chiunque, il secondo (dolore di Dio) è solo percettibile da chi crede nel Dio di Gesù Cristo. Soltanto il credente può dire, puntando con il dito: questo (il male procuratosi dall'uomo) è peccato.
Se il concetto di peccato cambia, anche il suo correlativo, la riconciliazione, deve cambiare. Ma di questo ci occuperemo in seguito.
IL MALE DELL'UOMO NEL SUO RISVOLTO ORIZZONTALE
Agire contro il proprio bene: ecco la disgrazia dell'uomo, conseguenza concreta della sua libertà, che produce il peccato. Ma, qual è questo bene dell'uomo?
La rivelazione biblico-cristiana ci fa sapere che esso gli viene dal fatto di realizzare giustamente le sue relazioni fondamentali. Quella verticale ascendente con Dio, come figlio; quella orizzontale con gli altri uomini, come fratello; quella verticale discendente con la natura, come signore. La mancata o sbagliata realizzazione di tali relazioni costituisce il suo male e produce la sua morte in svariatissime forme.
Vogliamo ora prendere in considerazione la dimensione orizzontale di questo male, cioè quella della relazione tra gli uomini. Sappiamo dal Vangelo e dall'esperienza che tale relazione non è assolutamente autonoma, poiché essa ha a che vedere con le altre due in maniera inscindibile. Il rapporto con Dio si verifica infatti nel giusto rapporto con gli altri e quest'ultimo esige in giusto rapporto con la natura e le cose. Ciò non vieta però di concentrare la nostra attenzione su questo aspetto orizzontale, data anche la sua importanza.
Se il bene dell'uomo da questo punto di vista consiste nella realizzazione della fraternità, si capisce che il suo male e la sua disgrazia consistano nella sua rottura. L'episodio biblico di Caino ed Abele (Gen 4) resta veramente emblematico al riguardo. La prima lettera di Giovanni lo esprime pure con parole perentorie: «Chi non ama [il fratello] rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna» (3.14b-15). La mancanza di fraternità verso gli altri produce la morte attorno a sé, ma anche in se stessi. È omicidio e suicidio allo stesso tempo. Si capisce perché tocchi il cuore di Dio, di quel Dio che è Signore amante della vita, come dice il libro della Sapienza (11,26).
Alla fraternità si oppongono l'accaparramento, che distrugge la comunione, e l'emarginazione, che impedisce la partecipazione. Queste violazioni dei rapporti fraterni si dispiegano in diversi ambiti, che ora passiamo a considerare.
Ambito individuale e sociale
Accaparramento ed emarginazione sono delle realtà che interessano in primo luogo i rapporti tra gli individui umani in quanto tali.
L'egoismo con il quale ognuno, in maggior o minor misura, mette se stesso al centro dell'universo e di conseguenza esclude gli altri, si manifesta in mille forme diverse che costituiscono altrettanti modi di distruggere la fraternità: orgoglio, invidia, infedeltà, ecc. Esse implicano, infatti, un accaparramento di se stessi per se stessi, il che provoca il ripiegamento su di sé e la chiusura alla comunione con gli altri.
Non solo, ma quasi sempre (per non dire sempre) questo accaparramento di sé va accompagnato dalla strumentalizzazione degli altri al servizio della propria autorealizzazione. Si cerca di crescere a spese degli altri, sfruttandoli. Si diventa delle sanguisughe. Allora l'altro lascia di essere veramente «altro», un soggetto assoluto, degno di rispetto e di collaborazione, per diventare un oggetto senza volto e senza originalità. Automaticamente, in quanto dipende da noi, resta escluso dalla possibilità di autorealizzazione, dal momento che viene privato dalla sua soggettività. Lo si ammazza.
Non si può non riconoscere alle correnti esistenziali e personaliste di questo secolo il merito di aver approfondito e affinato la sensibilità in questo aspetto. Con la loro focalizzazione sulla persona come soggetto, come libertà-in-situazione alla ricerca della sua autenticità soprattutto in e mediante l'incontro e la comunione intersoggettiva, hanno contribuito grandemente a scoprire l'estrema importanza dei rapporti interpersonali. E a scoprire anche l'enorme portata del male che significa, per la persona, la mancanza o la rottura di tali rapporti. Il fallimento esistenziale, il nonsenso della vita, sono infatti collegati ad essi.
Il peccato sociale
Parlare di peccato in questo ambito dei rapporti tra gli individui, anche a livello interpersonale, non è una novità nel cristianesimo. Fin dai suoi primordi, infatti, si sono denunciate come tali queste manifestazioni di egoismo perché contrarie all'orientamento evangelico dell'amore fraterno. I vangeli e gli altri scritti neotestamentari, soprattutto le lettere apostoliche, sono pieni di tali denunce. Più nuovo è invece parlare di peccato sociale.
Si è andato prendendo coscienza, specialmente in questi ultimi decenni, che soggetti di accaparramento ed emarginazione non sono soltanto gli individui, ma anche i gruppi umani in quanto tali. Piccoli (quali i gruppi familiari) o grossi (quali interi blocchi di popoli o di nazioni), essi vivono una forma di egoismo collettivo che li porta a badare solo ai propri interessi escludendo quelli degli altri, o addirittura a spese degli altri. Si riproduce, a questo livello e con le caratteristiche proprie, la situazione sopraccennata per l'ambito dei rapporti tra gli individui. Ne risulta una società antifraterna, nella quale alcuni gruppi cercano la propria autorealizzazione emarginando altri in ragione della razza, della religione, dell'ideologia, del sesso, ecc., o (il che è più grave ancora) sfruttandoli a proprio vantaggio.
Tre casi di peccato sociale
Per concretizzare voglio accennare a tre casi evidenti di questa situazione.
Il primo è quello del razzismo, non tanto come atteggiamento individuale (che pure esiste, e più di quanto si pensi), quanto come fatto sociale. Un esempio plateale e stato quello vissuto durante la seconda guerra mondiale. Milioni di ebrei sono stati sottoposti alla persecuzione, alle torture più raffinate e alla morte più ignominiosa in ragione della loro non-appartenenza ad una determinata razza, che si considerava l'unica veramente degna di esistere al mondo. Ma ancora oggi, come è risaputo, ci sono dei posti della terra dove il colore della pelle crea delle discriminazioni e delle emarginazioni che escludono interi gruppi della partecipazione ai beni sociali di altri.
Il secondo esempio è quello della caratterizzazione maschilista e patriarcale della nostra società in genere, ad ogni livello. Le donne, che costituiscono la metà dell'umanità, sono emarginate in certi aspetti importanti della vita sociale, in forza della loro condizione di donne. Una lunga storia di pregiudizi culturali pesa su questa situazione. Ma sta di fatto che ancor oggi, nonostante gli sforzi fatti, e non solo da parte dei movimenti femministi, la società umana è fortemente maschilista. E ciò è contro la fraternità.
Il terzo esempio è ancora più negativo, perché in esso non si tratta soltanto o principalmente di esclusione ed emarginazione, ma anche di palese sfruttamento. Si tratta del cosiddetto conflitto Nord-Sud dell'umanità, un conflitto che oggi sempre più si sta riconoscendo come il più vasto e radicale del mondo. La situazione è conosciuta, anche se non sempre sufficientemente valutata dal punto di vista della fede. Qui la rottura della fraternità passa attraverso il rapporto coi beni materiali. I popoli così detti sviluppati in ragione del livello di possesso e godimento dei beni materiali naturali e prodotti dal lavoro, raggiunti mediante l'applicazione delle scoperte scientifico-tecniche, crescono sempre di più, mentre gli altri sono sempre più immersi nella povertà e addirittura nella miseria. Con queste aggravanti: che i primi sono in numero molto ridotto mentre gli altri costituiscono la stragrande maggioranza dell'umanità, e che, cosa ancora più grave, la crescita e il progresso dei primi avviene a spese dei secondi, mediante lo sfruttamento delle loro risorse naturali e umane. In questo senso, e prendendo in prestito la simbolica biblica, si può dire che i popoli del Nord sono oggi il Caino che uccide l'Abele dei popoli del Sud. È questo indubbiamente il peccato sociale più grave dell'umanità attuale, la più larga espressione di accaparramento ed emarginazione.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Ma penso che siano sufficienti ad illustrare il concetto di peccato sociale che si sta aprendo strada sempre più decisamente nella coscienza ecclesiale e dell'umanità. Il chiudere gli occhi a questa realtà, per esempio concentrando l'attenzione solamente o principalmente sul peccato individuale o interpersonale, porterebbe ad un impoverimento nell'azione di riconciliazione oltreché a una privatizzazione della fede.
Ambito strutturale
Quanto abbiamo detto sul peccato sociale potrebbe restare ancora sull'astratto e non prendessimo in considerazione anche quest'altra dimensione. Le situazioni di non-comunione e non-partecipazione a livello sociale si cristallizzano, infatti, in strutture che le esprimono, le sostengono e fanno possibile la loro stabilità. In quanto tali esse possono essere chiamate con diritto strutture di peccato o peccato strutturale. Effettivamente, esse operano contro il bene dell'uomo e, di conseguenza, provocano il dolore di Dio.
Si dirà forse che in questo caso manca una componente importante del peccato, quella della libertà che rende responsabile l'uomo. Ma l'obiezione è relativa, perché queste strutture non sorgono da sole, ma sono create dagli uomini nella loro libera ricerca dei propri interessi egoistici. È vero che, una volta create, esse acquistano generalmente una certa autonomia e continuano a funzionare automaticamente fintanto che non intervenga un'azione concreta di cambiamento. Ma proprio qui entra in gioco ancora la responsabilità dell'uomo, dal momento che egli lascia che continuino a funzionare e non interviene per modificarle, per interesse o per comodità. Non cambiarle, potendolo, significa praticamente approvarle.
Strutture di peccato nell'ordine economico
Tra queste strutture del peccato vorrei riferirmi, per amore di concretezza, a due molto attuali, appartenenti però a due sfere diverse. Le prime sono quelle di ordine economico. Il suaccennato conflitto Nord-Sud si è cristallizzato prioritariamente in strutture economiche. È fondamentalmente il modo di rapportarsi ai beni materiali che crea e nutre tale conflitto. E questo modo è arrivato a delle realizzazioni strutturali che portano infallibilmente all'accaparramento progressivo di tali beni da parte degli uni e all'esclusione anche progressiva degli altri dal loro possesso. Fintanto che il sistema economico non cambi, finché non venga sostituito da un altro che permette la vera condivisione e la vera partecipazione di tutti i popoli della terra ai beni che la natura e il lavoro mettono a disposizione, l'umanità in quanto tale si troverà (per parlare in termini religiosi) in stato di peccato. Un peccato non attribuibile ai singoli componenti dell'umanità o dei gruppi che provocano il conflitto, ma che non per questo è meno reale. Basta contare le morti che provoca per convincersene. Le statistiche non ingannano.
Strutture di peccato nella sfera culturale
Le altre strutture di peccato sulle quali voglio richiamare l'attenzione appartengono alla sfera culturale. Perché esistono anche strutture di pensiero, oltreché strutture organizzative e istituzionali. Sono quei modi stabili di concepire le cose che, condivisi da gruppi più o meno larghi di uomini, stanno alla base del loro agire. E non poche volte tali strutture sono estremamente anti-comunionali. Si pensi, per esempio, a quelle che giustificano il razzismo, il maschilismo, il colonialismo nelle sue diverse forme, le discriminazioni religiose o ideologiche, ecc. Anche alla base delle ingiuste strutture economiche ci sono delle strutture di pensiero che le sorreggono e le alimentano. Quale sia poi il rapporto di priorità e il reciproco influsso tra esse, è un problema sempre scottante. C'è, infatti, chi dice che solo cambiando le strutture culturali si può cambiare quelle economiche e sociali e chi, forse con maggior realismo, sostiene che è impossibile cambiare i modi di pensare finché si è sotto il condizionamento delle strutture sociali ed economiche.
Checché ne sia di questa discussione (non priva per altro d'importanza, soprattutto strategica), ci interessa ora sottolineare l'influsso negativo enorme che possono avere le strutture di diverso ordine sulla fraternità umana, contribuendo così alla sua non-realizzazione.
Prima di finire questo aspetto, vorrei far rilevare ancora l'intima relazione che c'è tra fraternità e rapporto con la natura e le cose. Ne è una dimostrazione palese il problema ecologico attuale. L'affanno accaparratore che emargina milioni di esseri umani sta provocando pure, e per logica conseguenza, uno scempio della natura.
L'uomo, o meglio alcuni gruppi di uomini, stanno rovinando, per via dei loro egoistici interessi, la casa grande dell'uomo. Un dominio dispotico sulla natura, enormemente aumentato dalle possibilità offerte dal processo scientifico-tecnico, finisce per rivoltarsi contro l'uomo stesso. Un'altra manifestazione del peccato, che ha le dimensioni del mondo.
RICONCILIAZIONE NEL SUO RISVOLTO ORIZZONTALE
Se il peccato o disgrazia dell'uomo i questo ambito consiste nella rottura della fraternità attraverso l'accaparramento e l'emarginazione, la riconciliazione consisterà, logicamente, nel ricostruire la comunione e la partecipazione. Ricostruzione che, come lo stesso peccato a cui si oppone, dovrà interessare, a modo di cerchi concentrici, le diverse dimensioni del rapporto tra gli uomini.
Dimensione individuale e sociale
Il primo cerchio, quello più a portata d mano e anche spesso il più facilmente rilevabile, è quello del rapporto tra gli individui.
Riconciliazione significa qui ricreazione della comunione intepersonale e, di conseguenza, abbandono dell'egoismo che porta a fare di sé il centro di tutto e a ridurre gli altri a degli strumenti della propria autoricreazione. Un abbandono che deve tradursi non solo in atteggiamenti intimi, ma; anche in un agire concreto che si estende alle parole, alle azioni e perfino alle omissioni. Tutto si potrebbe condensare, da questo punto di vista, nella formula: eliminare l'accaparramento di se stessi e degli altri e l'esclusione o lo sfruttamento degli altri che ne consegue, e sostituirli con l'amore che fa dell'altro un soggetto e un assoluto.
Che l'autentica riconciliazione richiesta dalla fede cristiana miri a questa ricomposizione dei rapporti tra gli individui non è una novità. Anche nella formazione alla penitenza sacramentale si è ordinariamente insistito su questo aspetto, nel ricordo di quelle parole evangeliche riportate da Matteo: «Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che i tuo fratello ha qualche cosa contro di te lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (5,23-24).
Non sembra invece che si possa dire altrettanto per ciò che si riferisce alla riconciliazione sociale. L'eliminazione degli egoismi di gruppo, che creano accaparramenti ed emarginazioni collettive, per creare la vera fraternità sociale, non è una proposta di antica data nella Chiesa. Basta pensare, per esempio, alla giustificazione teologica data fino a non molto tempo fa alla divisione tra ricchi e poveri nella società. Sono le mutate circostanze storiche quelle che ci hanno portato a prendere sempre più chiara coscienza della peccaminosità di queste situazioni.
A prima vista, lo sforzo fatto in ordine ad una riconciliazione sociale sembrerebbe qualcosa di puramente profano. Ci sono dei non-cristiani e addirittura dei non-credenti che lo portano avanti con una dedizione alle volte pari, se non superiore, a quella dei cristiani. Eppure, visto in profondità e dalla prospettiva della fede, gli si deve riconoscere una valenza autenticamente religiosa, dal momento che contribuisce a debellare il male dell'uomo, che è la gloria di Dio. In questo contesto acquista pieno senso l'esortazione della Costituzione Gaudium et Spes ai cristiani-laici, ma che vale analogamente per tutti i fedeli: «Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità» (n. 43b).
Ancora una volta per non rimanere sull'astratto, voglio scendere brevemente alla considerazione di un caso di riconciliazione sociale che implica l'eliminazione di uno dei peccati di cui si è parlato sopra. Si tratta del conflitto Nord-Sud. Se si è d'accordo nel riconoscere in esso la più larga espressione di non-comunione fraterna nel momento presente della storia, come non concludere pure che esso richiede il massimo di impegno per il suo superamento? Come pronunciare la parola «fratello» in queste condizioni, quando si sa che tale parola resta, da questo punto di vista, vuota e senza senso reale? Lette in questa chiave sociale, le parole della prima lettera di Giovanni acquistano una nuova portata, estremamente scottante: «Se qualcuno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio?» (3,17). Non meno incalzante risulta, per esempio, la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro, sempre che la si legga, come segnalava Giovanni Paolo II in un suo discorso, in chiave politica ed economica, «in termini di relazione tra "Primo" "Secondo" e "Terzo" Mondo».
La riconciliazione tra gli individui è certamente importante e indispensabile: ne va di mezzo la loro vita stessa, la loro autorealizzazione. Ma per importante che essa sia, non può far dimenticare quest'altro aspetto sociale, a prima vista astratto e lontano, ma in realtà, visto nelle sue implicanze concrete, molto reale e vicino.
Dimensione strutturale
La riconciliazione sociale resterebbe ad un livello puramente ideale e perfino sentimentale se non tenesse conto di quanto si è detto sopra sulle strutture di peccato. Se queste non cambiano, il peccato oggettivamente rimane. Perché, come si è rilevato, esse sono la sua cristallizzazione e il suo nutrimento. Riconciliazione significa, quindi, eliminazione di tali strutture peccaminose e sostituzione di esse con altre di segno contrario. In alcuni casi, addirittura, riconciliazione significherà rivoluzione, nel senso di cambiamento globale e radicale di un intero sistema sociale.
Voglio accennare in questo contesto ad un problema molto sentito ai giorni nostri, quello della pace. È diventato urgente soprattutto per via della possibilità di autodistruzione dell'intera umanità che comporta una guerra fatta con le sofisticate armi moderne. Se c'è una situazione nella quale la mancanza di fraternità tra gruppi umani è evidente, è appunto questa. Una situazione in cui appare chiaro che la anti-fraternità è un suicidio. Fare la riconciliazione tra questi gruppi e aprire così una possibilità di vita e di futuro all'intera umanità è un compito che interessa l'ordine delle strutture che si sono andate creando: economiche, sociali, politiche, culturali e perfino religiose. Non basta appellarsi alla buona volontà dei singoli o degli interi blocchi in conflitto. Tale buona volontà, infatti, è condizionata in mille modi da tutto questo ordine (o disordine!) strutturale che, come si è detto, agisce anche automaticamente fintanto non venga bloccato e trasformato.
Quanto ho rilevato sul problema della pace vale anche, analogamente, per tantissime altre situazioni di non-fraternità sociale che esistono nell'umanità attuale. Tutte richiedono che lo sforzo per la riconciliazione passi per un'azione sulle strutture se si vuole che essa sia una realtà e non un puro desiderio chimerico.
Quale sia poi l'azione che ogni singolo cristiano e ogni singolo gruppo, piccolo o grande, debba svolgere in questo senso, è questione da definire volta per volta. Resta però il fatto che la vera ricomposizione della fraternità non può esimersi da un lavoro serio ed impegnato sulle strutture.
Parlando del peccato come rottura della fraternità facevo notare lo stretto rapporto che c'è tra la relazione fra gli uomini e la relazione di questi con la natura e con le cose. Ora dobbiamo trarne le conclusioni per ciò che si riferisce alla riconciliazione. Molto della riconciliazione fraterna, soprattutto a livello sociale e strutturale, passa per questo rapporto con il mondo infraumano. Una natura accaparrata egoisticamente da qualcuno o da alcuni è, come lo dimostra palesemente l'esperienza, una natura sottoposta alla violenza, che finisce per diventare ostile all'uomo. Una natura invece posta veramente al servizio del bene dell'uomo, di tutti gli uomini con uguaglianza di opportunità, è una natura riconciliata che contribuisce alla sua realizzazione. Il problema ecologico, piccolo o delle dimensioni cosmiche, è sempre un'istanza alla riconciliazione fraterna.
CONCLUSIONE
Ho voluto ricordare, a grandi tratti, ciò che la riconciliazione implica nella sua dimensione orizzontale dei rapporti tra gli uomini. Tale dimensione non è tutto, poiché l'uomo è anche in rapporto diretto con Dio e in rapporto con il cosmo. Ma essa occupa la maggior parte del compito affidato ai cristiani, dal momento che in essa trova la sua verifica concreta il rapporto con Dio e viene conglobato quello con la natura e le cose.
D'altronde, ho voluto soffermarmi più ampiamente sulle dimensioni sociali e strutturali di questo compito, perché sono quelle spesso meno evidenziate. Sono state meno evidenziate nel passato, in quanto, per motivi storici, la coscienza di queste dimensioni non era ancora maturata: lo sono ancora oggi laddove la fede tende a privatizzarsi e/o a chiudersi nell'ambito intimistico soggettivo o intersoggettivo, forse come reazione a certe esagerazioni degli anni dell'esplosione del sociale e del politico nella coscienza umana ed ecclesiale.
Resterebbe da chiarire le implicanze che tutto ciò ha per il sacramento che nella Chiesa celebra la riconciliazione. Non è mio compito il faro. Intuisco solo che, se quanto ho accennato è valido, tale sacramento dovrebbe cambiare notevolmente.