Come educare i giovani alle "cose"


Mauro Laeng

(NPG 1984-10-16)


Fra le tante discusse e discutibili affermazioni sull'età giovanile, v'è quella che sostiene che essa «non esiste»: o meglio, che essa non esiste «in natura», mentre esiste artificialmente nella vita di società. Secondo coloro che sostengono questo punto di vista, la natura ci farebbe passare direttamente dall'infanzia all'età adulta; è la società che ci trattiene, che ci impone una forzata attesa, una sorta di «moratoria», e che a tale scopo prevede e organizza «aree parcheggio».
Questa affermazione non è del tutto sbagliata, ma è esagerata. Anche fra gli animali superiori i «giovani adulti» attraversano un periodo di transizione non facile, anche se più breve di quello umano.
D'altra parte, è pur vero che la società moderna ha allungato a dismisura i tempi d'attesa. Lasciamo alla discussione in altra sede la questione, limitandoci a trarne uno spunto per il nostro argomento. Ciò che caratterizzerebbe il giovane in stato artificiale di transizione sarebbe il fatto di essere «consumatore-non produttore».

«IMPASSE SOCIALE»

Questa condizione, a ben vedere, è quella propria dell'infanzia; in essa gli adulti «investono» volentieri danaro e fatiche, perché nei piccoli vedono un prolungamento di se stessi, e la natura e la tradizione confermano a vicenda questo atteggiamento. Ma il bambino stesso desidera crescere, vuol «diventare grande»; e appena è in condizioni di farlo cerca di emanciparsi dalla tutela dei genitori; diventa scontroso e difficile, afferma senza troppi riguardi i suoi desideri.
Il giovane fatto vive questa contraddizione in maniera anche più sofferta; egli «sarebbe» già in grado di vivere da sé, ma ciò gli è letteralmente interdetto dalla situazione sociale.
Egli deve perciò dipendere economicamente dalla famiglia d'origine, mentre si rafforza in lui un vero complesso d'inferiorità; può tutt'al più «arrangiarsi» con alcuni lavoretti, ma avverte oscuramente che essi non sono il lavoro «vero», che rimane remoto e oscuro. In soggetti passivi ciò conduce ad una sorta di rassegnazione inerte, di aspettativa perché i «pubblici poteri» provvedano, passando dall'assistenzialismo tollerato all'assistenzialismo garantito.
Bisogna riconoscere che questo aspetto paradossale delle società «affluenti» che esonera dal lavoro attivo una parte sostanziale della popolazione, e anzi proprio quella che dovrebbe lavorare di più, costituisce un motivo di preoccupazione grave per il presente e ancor più per il futuro. Quanto più disporranno di una eccedenza di beni e di servizi, tanto più si porrà il problema di ridurre i tempi di lavoro degli occupati per far posto ad altri; aumenterà la disponibilità totale di tempo «libero», ma è importante che ciò accada in maniera equilibrata per tutti, e non nelle forme abnormi della disoccupazione o dell'attesa protratta di prima occupazione. Il bighellonaggio dei giovani sfaccendati è una potenziale carica esplosiva, una scuola parallela di demotivazione e di dissipazione, in cui rischia di perdersi il meglio delle capacità giovanili, indeterminate ma disponibili.

L'ALTERAZIONE ESTETICO-EDONISTA DEL RAPPORTO CON LE COSE

È a questo punto che la condizione dei «consumatori-non-produttori» scivola inavvertitamente verso un'alterazione del rapporto verso le cose. Queste non sono più il prodotto del lavoro, l'oggetto cui si applica l'attività trasformatrice, che costa fatica e merita premio; sono oggetti disponibili, offerti di per se stessi. Basta prenderli. E se qualcuno si oppone, tanto peggio per lui.
La mentalità consumistica, che ordinariamente è controbilanciata dal produttivismo, qui diventa consumismo allo stato puro. E quindi consumismo allo stadio di mero uso di un bene o di un servizio, che «consumandolo» lo distrugge (come la fame divora il cibo) senza riprodurlo. Al limite, si finisce per pretendere quel bene o quel servizio come «dovuto», senza minimamente tener conto del lavoro altrui (che è come realtà «sconosciuta»). L'esito finale è il parassitismo.
In realtà, si tratta di parassitismo «indotto» dalla società, che ne risulta affetta come da una malattia: una malattia che ne porta seco altre. A poco a poco, si diffonde l'opinione che ogni carenza di beni e servizi non sia dovuta a squilibri economici, ma a cattiva «volontà politica». L'artificialismo e realismo infantili, così bene descritti da Piaget, si spostano ai giovani e agii adulti che si aspettano tutto da una sorta di volontà «magica». Devi darmi questo; se non me lo dai è perché non vuoi; quindi sei cattivo. Una visione oggettiva dei meccanismi economici è quanto mai remota da questa attesa miracolistica, frutto di una esperienza monca e in gran parte immaginaria.
Ma queste diagnosi sono ancora superficiali; il guasto è più profondo. La mentalità del «consumatore non produttore», se si consolida per molti anni nell'età decisiva per la formazione del proprio mondo di valori, conduce al prevalere di una visione della vita di tipo estetico-edonistico. Ciò che conta è il percepire e il godere, dato che non esistono altre valide esperienze di affermazione della persona. Questi diventano i parametri decisivi; a tal punto che, quando finalmente si apre il mondo del lavoro, esso è già fondamentalmente svalutato e ridotto a mero strumento per la finalità preminente saldamente installata. Non è raro il caso di giovani lavoratori drogati, per i quali il normale impegno ha perso ogni attrattiva di fronte alla competizione divorante della falsa promessa dei paradisi artificiali.
Non spingiamoci comunque fino a questi esiti. Nelle condizioni quotidiane della gente comune, che lavora e non si droga e non insegue altre illusioni, la prevalenza della prospettiva estetico-edonistica va guadagnando proseliti. Forse abbiamo avuto il torto di pretendere per secoli che la gente abbracciasse volentieri penitenze e sacrifici, ripartiti socialmente in maniera per lo meno dubbia; e ora ne paghiamo le conseguenze. Altre cambiali sono in scadenza nei paesi della fame. Non ci si potrà stupire se, passato lo spettro di condizioni inumane, anche in quei paesi ci sarà un'esplosione di consumismo. È accaduto anche da noi dopo le guerre. Quello che dovrebbe farci meditare è se per l'uomo ci sia solo l'alternativa fra questi due estremi, oppure ci sia una via d'uscita verso una condizione più equilibrata.

NECESSITÀ Dl RITROVARE L'«ESSERE»

Il problema, hanno chiarito alcuni filosofi, è tutto nel ripristinare un corretto rapporto fra l'essere e l'avere. L'uomo è un centro: e come tale è una struttura, un sistema. Le cose si riferiscono a lui, più di quanto egli si riferisca ad esse. Se il rapporto viene invertito, l'uomo esce da se stesso, si perde nella periferia del suo essere, ove esso è a contatto con i rapporti esteriori, mutevoli e contingenti dell'avere. L'essere sta, l'avere va e viene. Chi pone il suo bene nell'avere, è infelice perché non ne controlla che in minima misura le condizioni. È intrinsecamente insicuro, esposto all'ansia della perdita, all'insidia «dei ladri e delle tignole».

POSSIBILITÀ EDUCATIVE

Per fortuna, i giovani sentono molto il significato dell'appello a rientrare in se stessi. Dalle soglie dell'adolescenza, aspirano con tutta l'anima alla propria identificazione, hanno fame e sete di autenticità. È proprio la cocente delusione di un riuscirvi, e di trovare intorno a sé così pochi esempi di persone autentiche, che li lascia scivolare a poco a poco nell'indifferenza. Occorre contrastare questo movimento all'ingiù, e rilanciare il movimento all'insù.
Si può sfruttare per questo proprio quel relativo disprezzo delle cose che è conseguenza del loro abuso; l'esperienza di S. Agostino a questo proposito insegna; il «nostro cuore è inquieto» perché non trova nulla che possa saziarlo completamente; ma proprio questa testimonianza ci spinge a cercare oltre i beni transitori e finiti.
Si può sfruttare inoltre allo stesso scopo il geloso senso di sé che non manca neppure ai soggetti apparentemente più inerti e sfiduciati. Anche chi si sente sconfitto, difende comunque il suo operato dicendo di non aver potuto fare diversamente. Allora, noi diciamo al giovane di sollevarsi: non è degno di lui esser schiavo delle circostanze e delle «cose». Dobbiamo far appello al suo residuo «senso di dominio» perché non sia sopraffatto da ciò che val meno di lui.
Per cominciare, il rapporto alle cose può essere di due tipi, che i latini chiamavano l'uti e il frui, l'usare e il fruire. L'usare è un atto fisico che consuma; il fruire è un partecipare che non consuma, ma aggiunge ricchezza a ricchezza. L'aspirazione a percepire e a godere non è in sé condannabile, tutt'altro: c'è nella nostra natura una ben fondata tendenza alla felicità. Il difetto della concezione che abbiamo chiamato estetico-edonistica è tuttavia quello di soggiacere alla fascinatio nugacitatis, al fascino delle inezie: come dire, allo specchietto per le allodole. I beni soggetti alla dialettica dell'avere si acquistano e si perdono, sono fugaci e passeggeri. I beni soggetti alla dialettica dell'essere entrano a far parte di noi stessi, non si sradicano più. La conoscenza e la saggezza sono pozzi senza fondo; la pietà e la benevolenza verso tutte le creature non sono mai bastanti a lenire tutti i dolori.

AL CENTRO: IL RECUPERO DELLA CAPACITÀ CRITICA

È troppo chiedere al giovane di lasciare la schiavitù delle cose per diventare egli stesso un esigente padrone? Nessun padrone è più esigente della ragione, soprattutto quando essa diventa non oziosa contemplatrice ma attiva operatrice di un ordine migliore, collaboratrice della creazione. Il giovane deve recuperare in pieno la sua capacità critica; non per fare dell'opposizione sterile, ma per rimettere in discussione se stesso e gli altri. Proprio la tragedia dei «pentiti» nelle carceri ci ha svelato e ci sta svelando quante preziose risorse sono andate perdute e si sono rivolte contro la vita in nome di una protesta che si faceva violenza senza sbocco, e che oggi riconosce il suo fallimento storico. Ma c'era in quella violenza una disperata speranza, il sogno rivoluzionario. Esso partiva dalla constatazione delle contraddizioni della società chiamata in blocco «capitalistica» (non ristretta all'Occidente, ma coinvolgente anche l'Oriente con le sue forme oppressive di capitalismo di Stato). Lasciamo cadere gli slogans e le frasi fatte ripetute fino alla noia, e che cosa rimane? Un gigantesco J'accuse contro il consumismo e la civiltà dell'avere. Era un errore ritenere di poterla sconfiggere ricorrendo proprio ad uno dei suoi più sofisticati prodotti (le armi) per conquistare l'illusione del potere nella sua forma estrema (la dittatura, magari del proletariato, in concreto di coloro che se ne arrogano la rappresentanza esclusiva).
Oggi, la riflessione approfondita sugli «anni di piombo» ha anche questo significato; non ci sarebbe stato uno sviamento così imponente da parte di giovani intelligenti e impegnati se non ci fossero stati dei motivi profondi di disagio. Il terrorista è stupido e vigliacco: stupido perché crede con azioni marginali di «colpire il cuore dello Stato», vigliacco perché colpisce alle spalle, nell'ombra, e fugge. Ma dietro il terrorista c'è alta e solenne una condanna che sorge dalla coscienza: una società che ha perduto il senso dei valori è condannata da sé alla propria autodistruzione. Oggi è il malessere sotto pelle, domani potrebbe essere la catastrofe nucleare.
Credo che la riflessione su questi problemi, che trova i giovani immediatamente rispondenti, abbia un grosso pregio: nasce dall'esperienza vissuta, e contiene il suo immanente giudizio. Non è una predica scontata, non è un pezzo di repertorio moralistico, ma è come uno schiaffo in faccia.
Sveglia i dormienti, fa pensare i vigilanti. È giunto per tutti il momento di tentare un bilancio consuntivo e preventivo, per affrontare l'inizio del terzo millennio. I «giovani» di ieri sono ormai già adulti e vengono senza sosta sostituiti da altre leve che rinnovano gli interrogativi e che sono tentate di rinnovare le stesse esperienze. Ma la storia si ripete soltanto in parte. Oggi la disponibilità di mezzi di informazione e le possibilità di incontro sono moltiplicate, e con esse la possibilità di chiamare i giovani a raccolta perché, una buona volta, prevalga la «qualità della vita» riaffermando i valori dell'essere come primari su quelli dell'avere.