Maria Teresa Bellenzier
(NPG 1984-7-12)
Di fronte a un mondo femminile il quale in questi ultimi quindici anni è diventato punto di riferimento ineludibile per cogliere e capire molti dei principali mutamenti in atto, ci poniamo ora con obiettivo educativo. Nelle nostre comunità ecclesiali, che trovano nel momento formativo una fondamentale ragion d'essere, occorre riflettere e cercare linee di intervento educative che rispondano alle richieste delle giovani generazioni femminili, spesso espresse senza sufficiente chiarezza o magari in termini contraddittori.
PARTIRE DALL'ESSENZIALE
La nostra proposta educativa prende le mosse da una riflessione sulle condizioni per una formazione umana e cristiana della donna.
La prima condizione non è specifica per un'educazione della donna, ma per la formazione cristiana tout court: ed è quella di partire dal centro, dall'essenziale, che va presentato, capito e fatto penetrare in sé prima di qualunque altro aspetto, che ne è conseguenza. Ci vuole cioè anzitutto una proposta seria e impegnativa di fede, di per sé non diversa per uomo e donna, anche se poi necessariamente assumerà connotazioni diverse quando ad accoglierla e a farla diventare vita sia l'uomo o la donna. Ci sarà quindi un modo di essere cristiani, un «vissuto» della fede, che risulterà diverso per i due sessi, proprio perché la proposta cristiana non può che seguire la strada dell'incarnazione, e quindi della concretezza esistenziale della singola persona che l'accoglie.
Andare al nocciolo del discorso di fede, fornendo i criteri per distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario, ciò che è radice da ciò che è ramo, o foglia, o fiore che può anche sfiorire e cadere.
Un'impostazione del genere è sempre stata valida, e nella tradizione formativa della chiesa mai è stata dimenticata. Tuttavia ripresentarla con forza può essere opportuno specie occupandosi della donna, nei confronti della quale tale distinzione non si è sempre avuta chiara. Le indicazioni pratiche fornite nell'opera educativa (scelta dello stato di vita, ruoli da svolgere, comportamenti specifici da mettere in atto, ecc.) sono spesso risultate sullo stesso piano delle ragioni di fondo dell'essere cristiani. Donde il duplice rischio, ancora presente, di dare maggiore importanza alle indicazioni morali che non al loro radicamento nel rapporto con Cristo, e di arrivare ad una impropria dogmatizzazione di tutto ciò che veniva detto e insegnato nell'ambito ecclesiale.
Si pensi, positivamente, agli echi suscitati dall'esortazione apostolica di Paolo VI sul culto mariano, per il fatto di aver denunciato le troppe indebite applicazioni alla formazione della donna di un modello socioculturale proprio dei tempi di Maria e poi inevitabilmente superato.
FORMARE ALL'AUTONOMIA
Si può obiettare che un modello del genere non veniva presentato alla donna solo dalla Chiesa, ma da tutto il contesto sociale, e ciò è innegabile. Perciò il punto di partenza per una rinnovata formazione cristiana per la donna dev'essere necessariamente una rinnovata formazione umana. E ci sembra che un punto qualificante di tale rinnovamento debba essere la formazione della donna all'autonomia.
Sono però necessarie molte precisazioni in merito.
Quale autonomia?
Autonomia infatti può suonare come equivalente a indipendenza e quest'ultimo termine si colora immediatamente di toni rivendicazionistici e libertari, che hanno spesso avuto il sopravvento nel discorso femminista, rafforzando per reazione in molti (uomini, ma anche donne) la convinzione che tali rivendicazioni fossero lesive della femminilità e deleterie per l'equilibrio e la tranquillità di famiglia, società, chiesa.
E, per contro, è stato facile che il neofemminismo trovasse seguaci in tutte quelle donne che vivevano male la loro situazione di dipendenza: dalla famiglia d'origine o da quella che si erano formate, da un ambiente di lavoro che le poneva ai livelli meno qualificati, da una cultura opera quasi esclusiva di uomini, da una realtà ecclesiale che di fatto le relegava in ruoli subalterni, da un sistema socio-economico politico in cui sono assenti.
Autonomia va intesa come riflessione sul valore della persona indipendentemente dalla sua realizzazione secondo gli schemi che oggi vanno per la maggiore: affermazione e successo, prestigio, efficienza.
Non è infatti nel riuscire ad attuare sempre i propri programmi, nell'ottenere gratificazione e successo in ciò che si fa, il criterio unico del realizzarsi. Se così fosse esso dipenderebbe da ciò che si riesce a fare, ad avere, non da ciò che si riesce ad essere.
Ma una simile prospettiva non deve ancora una volta tradursi nel dire alla donna di non avere grandi ambizioni, non puntare troppo in alto, non impegnarsi tanto in progetti: in una parola, la prospettiva rinunciataria che troppe volte porta le donne a convincersi che non vale la pena ascoltare e dar corpo alle proprie inclinazioni, esigenze, desideri.
Dev'essere invece, questo significato dell'autonomia, un efficace correttivo del diffuso deprezzamento che tante donne hanno di sé in quanto non sono nelle condizioni di fare qualcosa che ottenga una valutazione sociale di un certo livello (vedi lavoro casalingo, per il quale si cominciano a spendere parole di apprezzamento, purché però nei fatti resti di competenza femminile).
Autonomia come disponibilità ad assumersi responsabilità, a pagare di persona. Non si può infatti indulgere a facili contestazioni e polemiche contro il mondo maschile oppressore e prevaricatore se poi si continua ad appoggiarvisi nei momenti difficili, delegandogli decisioni e azioni risolutive. Il che può verificarsi in ogni ambiente, dal piccolo cerchio familiare al mondo del lavoro, alle varie strutture, alla vita sociale e politica.
Verso una nuova accettazione di sé
Autonomia come conoscenza di sé, il più possibile indipendentemente dalle prefigurazioni dell'identità femminile di cui è piena la nostra cultura. Solo infatti se la donna riesce a rivolgersi a se stessa con novità di sguardo, o almeno senza occhiali deformanti, può giungere anche ad una accettazione di sé che è premessa indispensabile per accettare anche la diversità altrui senza entrare inevitabilmente in crisi. Occorre, cioè, una sostanziale sicurezza di sé, che nasce anche dal non sentirsi costrette entro aspettative troppo esigenti o non corrispondenti alle inclinazioni e capacità personali.
E occorre accettarsi anche come donna, compreso il peso del vissuto storico femminile, di cui ogni donna subisce l'influsso, ma che può diventare elemento di ricchezza se assunto consapevolmente e in maniera critica.
La troppo fragile identità femminile (si pensi a quante donne hanno tentato di rassicurarsi puntando tutte le loro carte sull'essere madri, o casalinghe perfette, o amanti insostituibili, o magari anche lavoratrici efficienti) deriva in gran parte da una mancata o carente consapevolezza del proprio valore anzitutto come persona, e persona in relazione, che dev'essere in grado di mettere continuamente in discussione il metro con cui regola tali rapporti.
FORMARE AD UN RAPPORTO COSTRUITO SUL «DARE» E «RICEVERE»
La formazione della donna all'autonomia viene così integrata dall'altro polo, irrinunciabile, costituito dalla consapevolezza che ogni crescita umana comporta un rapporto relazionale, sia a livello di dinamiche psicologiche che a livello di valori. Il biblico «non è bene che l'uomo sia solo» vale non soltanto per la relazione coniugale, ma per ogni tipo di situazione umana. Non è bene, perché l'isolamento altera la percezione di sé, che pure necessita di momenti e di esperienze di solitudine per chiarirsi e diventare elemento di maturazione.
Un incontro con l'altro nella verità
Nella relazione con l'altro, si è costretti a rischiare.
L'incontro effettivo non può avvenire che nella verità reciproca, nello svelamento di sé che è pur sempre un consegnarsi, un rinunciare alle difese della diffidenza e dell'avarizia. Solo a questa condizione si giunge alla scoperta reciproca, che riserba sorprese gradite perché la realtà autentica con cui ci si incontra è sempre preferibile (in quanto più nuova, più insolita) a quella che ci si prefigurava e si esigeva con le proprie aspettative.
L'essenzialità del rapporto con l'altro (il prossimo, che con il Vangelo arriva a comprendere anche il nemico) non è certo nuova nell'insegnamento cristiano. Ma se, come spesso avviene nella catechesi, se ne accentua troppo l'aspetto di misericordia e di carità (fino all'eroismo di chi risponde col bene al male che riceve), si trascura di mettere in luce ciò che si riceve donando, e quanto arricchente sia l'esperienza relazionale per entrambe le parti.
Ancora una volta questa osservazione è soprattutto pertinente per la donna, alla quale la proposta della dedizione agli altri tradizionalmente è stata fatta coincidere con il suo «naturale» ruolo di sposa e madre (anche quando si trattasse di maternità spirituale). Ma, in tal modo, la relazionalità può essere vissuta a senso unico, come dovere morale più che come positiva dinamica affettiva, senza una chiara consapevolezza che anche i rapporti più apparentemente «naturali» (quelli madre-figlio appunto) esigono, per essere autenticamente umani, di essere assunti e vissuti con senso di responsabilità ma al tempo stesso di gratitudine e di gioia per quanto da essi si riceve.
Ritrovare la prospettiva di fecondità e maternità
Allargando un momento il discorso al tema della sessualità e della procreazione, ci pare che una delle difficoltà odierne ad accettare la posizione del magistero in proposito (e cioè il necessario collegamento del significato unitivo con quello procreativo nella sessualità) stia in una insufficiente presentazione dell'essenzialità della prospettiva procreativa per una autentica relazionalità. Non si realizza, cioè, un valido rapporto con l'altro, se non in una prospettiva di fecondità: l'altro ci aiuta, e noi aiutiamo l'altro, a tirar fuori, esplicitare, esprimere, e quindi far nascere ciò che di meglio e di nuovo è potenzialmente presente in ogni persona.
Si dirà che altro è esplicare la propria creatività sul piano intellettuale, spirituale, affettivo e operativo, altro è farlo sul piano biologico dando vita a un figlio.
Ma, ferme restando tutte le doverose considerazioni sulla procreazione responsabile, non si può negare che troppo spesso la separazione fra uso della sessualità e procreazione diventa esclusione della seconda. E non si può neanche negare che simili atteggiamenti si traducono con allarmante frequenza in un impoverimento della relazione sessuale, nella quale, senza un punto lontano verso il quale guardare insieme, lo specchiarsi soltanto l'uno nell'altra suscita chiusure egoistiche e continue tentazioni di prevaricazione.
Quando il neofemminismo, dopo una prima fase di radicale critica al ruolo materno, ha lanciato lo slogan «madre è bello», ponendo l'accento sulle potenzialità gratificanti per la donna della maternità, ha posto i termini di un problema fondamentale, anche se con modalità troppo spesso sfocianti in un individualismo in cui il figlio può diventare strumento del benessere della donna.
E poiché nella crescita della donna l'esperienza materna resterà pur sempre un tema con cui fare i conti, occorre per affrontarlo sgombrare il campo di tutti gli schemi precostituiti, e ancora così profondamente radicati nella mentalità e nel costume, i quali provocano ormai nella maggior parte delle donne rifiuto e atteggiamenti polemici. Ma la maternità può e deve diventare tutt'altro che fattore di mortificazione e dipendenza da un ruolo: purché si capiscano e si accettino i dinamismi psicologici e spirituali della persona umana.
Una consacrazione religiosa che non mortifichi il «dare» e il «ricevere»
L'importanza di una chiara consapevolezza dell'arricchente potenzialità della relazione con l'altro appare anche quando si considerino altre scelte di vita, quali la consacrazione religiosa o comunque scelte di servizio a tempo pieno a Cristo attraverso i fratelli.
Non è certo agevole analizzare in tutti i suoi aspetti il fenomeno della crisi delle vocazioni religiose femminili; non ne è questa la sede. Certo è che la tradizionale impostazione di tale scelta come impegno di totale dedizione (e quindi sacrificio, dimenticanza e rinnegamento di sé) mal si accorda con quella forte sottolineatura del valore della soggettività che, bene o male, è il risultato più evidente e diffuso nella mutata percezione dell'essere donna.
Rientra allora nel compito educativo il chiarire come tale valore non sia necessariamente mortificato da un atteggiamento oblativo.
A patto che questo non venga presentato e vissuto come donazione a senso unico, in cui nulla si aspetta in cambio e tutto si accetta e si sopporta del comportamento altrui .
Proprio perché l'esigenza della relazione (in cui si è in due a dare e ricevere) è radicata nel profondo della psiche, mortificarla in modo improprio diventa rischioso. Ne derivano infatti tutte quelle sottili e contorte forme di rivalsa che è facile riscontrare nel rapporto madre-figlio (possessività, gelosie, ricatti affettivi) o anche in altre situazioni in cui alla donna tutto è richiesto (proprio perché donna) in termini di generosità disinteressata.
Relazione e conflitto
Altro elemento da tener presente: ogni relazione umana è anche conflittuale.
Nell'educazione femminile punto fermo era la presunzione della vocazione conciliatrice della donna. A lei è sempre stato richiesto (dalla mitologia, dalla storia, dalla società, della chiesa) di svolgere un ruolo di pacificazione, di salvaguardia dei valori della mitezza e della misericordia.
Ma una simile attesa/pretesa può diventare mistificante se porta a considerare come male ogni contrasto, ogni confronto faticoso e tempestoso. Se si vive nella paura del conflitto, è facile ricorrere a comportamenti solo apparentemente risolutivi: si evade il problema, si tace, si fa finta di niente, si cede sistematicamente.
Il paradigma più emblematico di tale problema è proprio il rapporto uomo-donna. A parte i casi in cui a livello individuale donne e uomini, grazie alle loro personalità felicemente maturate, hanno raggiunto e raggiungono intese profonde e ricche, ci pare che sia mancato finora, a livello formativo, un chiaro discorso capace di mettere la donna in grado di affrontare in modo adeguato, ossia da persona responsabile e matura, la problematica del suo affrontarsi con l'uomo (suo simile, certo, ma anche - come più esattamente andrebbe tradotto quel termine biblico - colui che le sta come contro»).
Solo accettando la fatica di non voler sempre risolvere tutto, stabilire con esattezza il torto e la ragione, dire l'ultima parola, in altri termini scegliere la pace «come la dà il mondo» (che è solo mancanza di guerra), si possono instaurare rapporti umani veramente rispettosi della complessità e della originalità delle persone. Senza questa preparazione ci si può illudere di risolvere il problema con una lotta all'ultimo sangue (come certo separatismo neofemminista), assumendo un'ottica che è sostanzialmente maschile anche se espressa con linguaggio femminile. L'opera educativa deve invece anche aiutare ad accettare e usare una pluralità di linguaggi. Quello femminile, espressione del vissuto e dell'esperienza delle donne, dev'essere usato nel rapportarsi a quello maschile non come eccentrico esibizionismo, ma come offerta di ciò che si è per incontrarsi in una reciproca autenticità.
Perché non «vere amiche»?
Un altro aspetto della formazione femminile all'autonomia è dato dalla capacità di instaurare rapporti di amicizia, con persone del proprio o dell'altro sesso.
Anche qui manca per la donna una tradizione in proposito: normalmente impensabili amicizie con l'uomo, facilmente riduttive e carenti quelle con altre donne (si pensi allo stereotipo sociale delle «amiche»: valvole di sfogo per le lamentele nei confronti della vita familiare, sinonimo di pettegolezzi, complici o rivali nelle manovre per attirare l'attenzione maschile, e via dicendo). Nella nostra cultura e nel nostro costume c'è la figura del «vero amico», non quella della «vera amica».
Eppure non si vede perché anche per la donna non possano realizzarsi rapporti basati sul rispetto dell'autonomia e della diversità reciproche, disinteressati e volti alla ricerca del bene altrui. Il fatto che esperienze del genere esistano e siano sempre esistite non basta; occorre che dal piano dell'eccezione senza rilievo sociale passino a quello della proposta educativa, che ne mette in luce le potenzialità positive e desiderabili.
La coeducazione: da coesistenza a confronto
Si aprirebbe qui il capitolo della coeducazione, tema di cui molto si parla ma che raramente si riesce a tradurre efficacemente in pratica. Se infatti ci si ferma all'aspetto esteriore del problema, si potrebbe dire che ormai quasi sempre ragazzi e ragazze svolgono insieme le più varie attività. Non esistono più (sulla carta) scuole esclusivamente maschili o femminili, e ben raramente troviamo classi scolastiche separate per sesso. Nelle comunità ecclesiali vi sono stati vistosi mutamenti, anche se attualmente si registra al contrario la tendenza a tornare ai gruppi separati.
Ma lo stare insieme o l'essere divisi non è di per sé l'elemento determinante; bisogna esaminare le motivazioni che portano all'una o all'altra prassi. Se la separazione - come avveniva in passato - è intesa quale misura protettiva (ovviamente della donna) e precauzionale, siamo lontani non solo dalla coeducazione ma dalla stessa educazione; e soprattutto da quella educazione all'autonomia di cui qui si parla. Così pure, un separatismo che nasca (come in certe frange del femminismo) da sistematica opposizione e rifiuto del mondo maschile, non può che accentuare l'incomprensione reciproca.
Se ci si separa invece per avere occasioni più favorevoli per un lavoro di coscientizzazione, di riflessione e di allenamento ad esprimersi, cosa che obiettivamente risulta più difficile per le donne nei gruppi misti, la cosa può avere una sua funzione costruttiva.
L'importante, quale che sia la soluzione pratica adottata, è che ragazzi e ragazze siano aiutati a trasformare quello che può essere una semplice coesistenza più o meno pacifica, in un vero confronto di affinità e diversità, in cui nessuno debba rinunciare alla propria originalità e possa venir valutato per ciò che è, e non per ciò che genericamente si pensa del sesso cui appartiene. Ci vuole cioè un incontro che non sia livellamento, un confronto che non si esaurisca in polemica, ma renda tutti consapevoli che insieme si hanno più doni a disposizione.
UNO SPAZIO PER LA DONNA NELLA CHIESA
La donna è sempre stata un grande referente dell'azione pastorale della chiesa, specie da quando le condizioni socio-economiche hanno reso la famiglia (e la donna in essa) l'agente primario e più efficace della trasmissione dei valori religiosi alle nuove generazioni. Sarebbe certo ingiusto e riduttivo affermare che la continua sottolineatura che il magistero fa del ruolo materno sia da leggersi solo in un'ottica funzionale, dato che ogni situazione familiare disastrata si traduce in effetti negativi per l'equilibrata crescita umana e religiosa dei figli.
Una religiosità naturale?
Ma il rivolgersi prevalentemente alla donna sottintende certo anche la diffusa convinzione di una maggiore religiosità naturale della donna.
Come sempre, quando ci si muove sul terreno del rapporto natura-cultura, si rischia di imbarcarsi in un problema irrisolvibile, se non si vuol cadere in affermazioni semplicistiche che ormai lasciano il tempo che trovano. È chiaro infatti che le diversità della struttura anatomica e fisiologica dei due sessi non possono non avere riflessi considerevoli anche sul piano psichico e spirituale. Né si possono sottovalutare gli effetti di un modo di essere che le donne hanno vissuto per secoli in base a determinate impostazioni teoriche e pratiche della vita culturale e sociale. Ma se tutto questo dovesse produrre un tipo di «naturalità » che finisce per mettere in secondo piano la libera adesione della fede (quasi che per la donna credere sia più spontaneo e facile) o la riduca a fatto soprattutto emotivo, ciò è inaccettabile.
Come essere umano la donna ha le stesse esigenze di impegnare tutte le sue facoltà nella vita di fede, con una solida preparazione culturale e senza preoccupazioni di modelli spirituali da seguire. Se così facendo esprimerà la sua specificità, ciò sarà a vantaggio di tutta la Chiesa, troppo a lungo privata dell'apporto femminile sul piano della riflessione e dello studio.
Le attese «pacificatrici» e di abnegazione
Si è già detto delle attese che si sono sempre rivolte alla donna affinché in ogni comunità umana svolga una funzione pacificatrice: attese improprie, se tale funzione dev'essere semplicemente rimedio all'aggressività maschile, al fatto che secondo lo stereotipo sociale preminente il maschio è - e dev'essere - bellicoso. In tal modo si è operata una femminilizzazione di fondamentali virtù cristiane, e le beatitudini hanno finito per riguardare separatamente uomini (lotta per la giustizia, affrontamento delle persecuzioni) e donne (mitezza, misericordia, purezza).
Così si dica per la capacità di abnegazione e di sacrificio, nella quale generazioni di donne sono state maestre, spesso però solo perché donne, cenerentole della storia, e quindi ritenute per natura pronte a ciò.
Tanto poco naturale, invece, che oggi conosciamo il macroscopico fenomeno di bambini ormai disavvezzi a qualunque anche minima privazione e incapaci di sopportare ritardi all'appagamento di qualunque desiderio. Dietro di loro ci sono madri del tutto incapaci di resistere ai capricci infantili, sempre ansiose di assicurare ai loro pargoli ogni forma di protezione e di comfort. Né è da escludere in molti casi una forma di rivalsa per forzate rinunce a favore dei componenti maschili della famiglia. O più semplicemente, le madri odierne risultano più facilmente influenzabili dalla pressione consumistica, proprio perché meno formate ad una autonomia di giudizio.
Eppure non si è cristiani se non si capisce e non si accoglie la lezione della croce, di fronte alla quale non vi sono distinzioni di sesso. Ma è una lezione che si pone sul piano della fede e dell'amore, non su quello delle caratteristiche psicologiche sessuali. Ed è quindi insieme che uomo e donna devono apprendere quella lezione, incarnandola nella loro vita.
Vivere la corporeità
Le donne hanno un'esperienza secolare di maggiore dimestichezza con il corpo, sempre però un corpo altrui, da generare, nutrire, curare, sostenere, comporre sul letto di morte.
Nell'esperienza cristiana una vastissima iconografia mariana ha sottolineato questi vari aspetti del rapporto femminile con il corpo. Nessuno quindi, sembrerebbe, può avere un senso più vivo e concreto dell'incarnazione.
Quell'esperienza avveniva però in genere a scapito della corporeità femminile: la donna doveva dimenticare se stessa, soffocare le più legittime esigenze del suo fisico, per rispondere compiutamente al modello materno e consolatore che le veniva presentato.
Si capisce quindi come mai lo slogan femminista della «riappropriazione del corpo» abbia avuto così vasta eco nell'universo femminile. Le donne hanno scoperto in maniera spesso rozza ma forte di essere state troppo a lungo espropriate della loro corporeità.
Non per nulla - ad eccezione dell'esperienza delle mistiche - la spiritualità femminile ha avuto connotazione sempre molto «spirituali», in cui il corpo era realtà da dimenticare il più possibile.
Se dunque oggi riconosciamo validità all'esigenza di vivere la propria corporeità senza indebite colpevolizzazioni e con lo scopo di recuperare nel profondo il senso unitario dell'essere umano, di un soma che non è sinonimo di materialità, la donna deve in ciò percorrere un cammino originale e nuovo.
E sarà a beneficio di tutta la chiesa, che troppe contrapposizioni deve ancora ricomporre per presentare al mondo una realtà che non mortifichi alcun aspetto umano.
Obbedienza o adesione responsabile?
Se oggi a quanto pare «l'obbedienza non è più una virtù», ciò è tanto più vero per quanto riguarda la posizione della donna nella chiesa. È infatti nel mondo femminile che anche in Italia si sono verificati vistosi fenomeni di allontanamento dalle indicazioni del magistero (si pensi ai risultati dei referendum sul divorzio e sull'aborto, nonché ai dati che ogni indagine mette in luce circa l'uso dei contraccettivi). E dato che nella nostra cultura l'obbedienza era considerata virtù soprattutto femminile, il mutamento appare oggi più grave. Ora, non si può negare che su tali fatti abbia influito il discorso semplicistico della «chiesa come nemica della donna». Tuttavia l'impatto con tale discorso sarebbe stato diverso se avesse dovuto fare i conti con una prassi educativa che anche per la donna avesse dato più spazio all'importanza della convinzione personale nell'obbedire alla ricerca di motivazioni valide che trasformano l'obbedienza in responsabile adesione a valori ritenuti importanti.
Ogni intervento educativo è oggi ben convinto di ciò; ma non sempre nella chiesa si riescono a trovare «le parole per dirlo» che solo potrebbero correggere quel senso di estraneità che le donne avvertono con forza nei confronti delle direttive magisteriali soprattutto nell'ambito della sessualità. Il discorso vale ovviamente anche per l'uomo, il quale tuttavia non figura mai come il principale referente di tali direttive.
Per dare il meglio di sé
Altro argomento critico, per il quale le motivazioni portate a sostegno della posizione ufficiale della chiesa non riescono ad essere veramente convincenti, è la questione del sacerdozio ministeriale negato alla donna. Ovviamente l'interesse in materia è ben più limitato rispetto ai temi sopra citati, ma proprio perché comporta un'attenzione elitaria può avere un notevole effetto perturbatore dell'immagine tradizionale della donna nella chiesa. Si pensi allo scalpore suscitato dall'intervento di sorella Kane durante la visita di Giovanni Paolo II negli Stati Uniti.
Ma il problema di una presenza femminile nella chiesa che sia adeguata alla nuova consapevolezza di sé che sta maturando nella donna, non si limita certo al sacerdozio ministeriale. Malgrado innegabili progressi in molti campi (possibilità di accedere alle facoltà teologiche, attribuzione di posti di responsabilità in organismi delle chiese locali) siamo ancora ben lontani da una situazione paritaria, o almeno tale da permettere a tutte le donne di dare il meglio di sé.
Ciò è indispensabile se si vuol far maturare un senso della comunità ecclesiale ancorato con forza e chiarezza a motivi di fede e non solo ad esigenze umane di un ambiente propizio alla comunicazione e alla condivisione. Rischio presente per tutti, specie a livello giovanile.
Pur non rifiutando questa funzione di supplenza (particolarmente importante in assenza quasi totale di luoghi e centri di aggregazione giovanile che non siano di mero divertimento), è anche ovvio che l'opera educativa da svolgersi nelle comunità ecclesiali deve scavare più a fondo.
Tutte le considerazioni fatte più sopra sull'essenzialità della relazione per la crescita equilibrata della persona, trovano nella vita del gruppo ecclesiale un terreno di applicazione molto fecondo, se integrate nell'ottica di fede. Altrimenti si può riproporre lo schema tradizionale di un'accettazione rassegnata di quanto non funziona, richiesta poi, nei fatti, più alle donne che agli uomini.
Non sarà più tanto questione di «promuovere» la donna nella chiesa, ma di aiutarla a scoprire e a vivere le radici di una vita ecclesiale in cui ognuno possa trovare il posto che meglio risponde alle capacità e aspirazioni individuali, poiché la chiesa va costruita da persone che si sentano pietre vive.