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    Tema generatore e linguaggio della fede



    Claudio Bucciarelli

    (NPG 1983-1-20)


    LA DINAMICA DEL «TEMA GENERATORE»

    Nel pensiero di Paulo Freire (= PF) uno dei punti più nodali del suo metodo psico-sociale è caratterizzato dal fatto che ogni contenuto è proposto come problema. Infatti, il processo metodologico della coscientizzazione evidenzia in modo particolare questo principio, in quanto è costituito dal passaggio della coscienza alienata (= coscienza magica, mitica, ingenua) ad una nuova coscienza in processo di liberazione (= coscienza critica, politica, storica).
    Per PF, quindi, il contenuto di un progetto e di un programma educativo e di azione politica potrà essere organizzato solamente a partire dalla situazione presente, esistenziale, concreta, che rifletta l'insieme delle aspirazioni del popolo. Da ciò emerge l'assunto di proporre il «contenuto come problema», che richiede al popolo stesso una risposta sia sul piano intellettuale e sia su quello d'azione, e che esige un dialogo sulla stessa visione del mondo, dialogo che sia frutto di una riflessione di tutti, espressa in un pensiero e in un linguaggio esistenti solo al di dentro di una realtà cui tutti (= il gruppo, la comunità) si riferiscono.

    I temi come segmenti di prassi per un cammino di liberazione

    In questo contesto l'educatore e/o il politico, per una efficace comunicazione in un linguaggio e in un pensiero autentici e consoni a quelli del popolo, devono ricercare il contenuto di un progetto o di un programma nella realtà e nella coscienza relativa alla stessa realtà, vista nella sua fattuale concretezza.[1] Nel momento di questa ricerca inizia il dialogo dell'educazione come pratica della libertà, ed è il momento in cui si realizza l'indagine di quel campo che PF chiama universo tematico del popolo o l'insieme dei suoi temi generatori.
    Alla constatazione di un tema generatore, però, in quanto dato concreto si arriva solo attraverso la nostra esperienza esistenziale e la riflessione critica sui rapporti uomini/mondo e uomini/uomini, impliciti nei primi. Tale processo, comunque, non può e non deve essere identificato con la tradizionale ricerca «intellettuale» di una verità astratta. Infatti per una specie di corruzione o più semplicemente di modificazione della cultura, quando si parla di verità, molti sono sempre portati (o siamo) a ritenerla come un oggetto della mente, che si propone agli altri con la parola. Così di mente in mente la verità si trasmette. Questa la tradizione classica dei filosofi, la traditio cioè concetto-parola-concetto-parola-concetto.
    La nostra scuola, molte istituzioni educative, la stessa istituzione Chiesa, spesso e volentieri ci hanno abituato a questa trasmissione di concetti privi di un riferimento al concreto (= indottrinamento), per cui l'unico loro approdo era quello di allargare in noi la zona di vuoto e di sterilità, anche se tali concetti, a volte, potevano avere una funzione emotivamente consolatoria e suggestiva.
    Ora, per PF, la ricerca dell'universo tematico, il passaggio dalla parola generatrice (= alfabetizzazione) al tema generatore (= avvio verso la coscientizzazione) per mettere in moto il processo di liberazione e di umanizzazione, parte sempre da un assioma: l'inseparabilità tra la parola e il fatto, tra la parola capita e l'azione eseguita. E per esprimere questa unità egli assume una parola tipica del pensiero marxiano: la prassi. Nella prassi il concetto e il fatto sono così indissolubili che se togliamo il fatto il concetto è svuotato di significatività e rimane sterile, e se togliamo il concetto - cioè il momento mentale, riflessivo dell'esperienza - il fatto è un dato empirico insignificante.
    Gli uomini, attraverso la loro prassi, creano cultura e storia; producono, in un divenire permanente, beni, idee, concezioni, valori, istituzioni, sfide che in un rapporto di interazione dialettica con i loro contrari, formano i temi dell'epoca storica in cui vivono, o i temi di «quella» frangia di storia vissuta in «quel» determinato luogo. Queste tematiche non sono perciò tout-court idee, concetti, astrazioni, ma segmenti di prassi muniti:
    - di una consistente carica evocatrice che ha potere di attrazione per facilitare il passaggio dalla parte al tutto, dal frammento alla globalità, dall'effetto alla causa, dalla «domanda-bisogno» iniziale alla evoluzione di tale «domanda»;
    - di significativi elementi vitali che costituiscono il «punto d'attacco» e il «punto di partenza» per coscientizzarsi (dalla conoscenza all'interpretazione) su un determinato e attuale tema esistenziale, creando le condizioni per evitare il rifugio nel privato o la fuga nell'utopia senza sopportare il confronto con il realismo storico;
    - di rilevante capacità moltiplicatrice che non offre tanto risposte-prefabbricate-a-domande, ma sollecita a prendere responsabilmente in mano la propria esistenza per ricercare risposte, per prendere posizione, per scommettere sulla praticabilità di questa operazione, per realizzare in concreto l'aspirazione ad «essere di più». In questa ottica ogni ricerca tematica coscientizzatrice diviene pedagogica ed ogni educazione autentica si fa indagine del pensiero. Quanto più ricerco con il popolo il suo pensiero, tanto più ci educhiamo insieme. Quanto più ci educhiamo, tanto più ricerchiamo. Educazione e ricerca tematica, nella coscienza problematizzante dell'educazione, diventano momenti di uno stesso processo.
    Dal pensiero freiriano, quindi, si deduce che nell'educazione problematizzante e dialogica, il contenuto non è certo un «deposito» nei confronti dei cosiddetti «educandi», bensì è emersione della visione del mondo dell'educando «in cui si trovano i suoi temi generatori». Il contenuto è un sapere vivo, incompiuto, che si fa e si rifà ogni giorno, man mano che avanza lo stesso processo di deciframento e di trasformazione della realtà.
    Il compito dell'educatore consiste nel promuovere, in una équipe interdisciplinare, l'elaborazione di questo universo tematico raccolto nell'indagine, per restituirlo come problema e non come «dissertazione», agli uomini da cui è stato ricevuto. È evidente, poi, che in una visione «liberatrice» e non più «depositaria» dell'educazione, il contenuto di un progetto e di un programma educativo non è l'involucro degli obiettivi da imporre al popolo, ma il riflesso dei suoi bisogni esistenziali, delle sue attese, delle sue aspirazioni e delle sue stesse speranze, perché parte e nasce dal popolo in dialogo con gli animatori/educatori, che a loro volta saranno educati nel dialogo, perché educare non significa tanto «dare qualcosa» ma innanzitutto accettare il rischio di un rapporto, porsi in relazione a seconda della modulazione dei reciproci bisogni e attese, con la sincera intenzione che ciascun polo (= partner) della relazione, accetti di cambiare e di trasformarsi.
    Per concludere questo sintetico excursus di un «punto nodale» del pensiero freiriano occorre perciò sottolineare che:
    - l'universo tematico di un'epoca è ricerca coscientizzatrice e inizio del processo educativo e politico;
    - i temi generatori, coscienza di un universo tematico, sono la prima tappa perché un uomo diventi libero, creativo, sociale, in una parola perché un uomo diventi «umanizzato».

    Quale tipo di trasposizione?

    Dopo questa ampia premessa sorge spontanea una domanda: la ricerca di PF e l'applicazione del suo metodo è nata in un contesto socio-culturale ed economico-politico, diverso dal nostro; ebbene è possibile che questa sua stimolante intuizione pedagogica sia applicabile al nostro contesto?
    Personalmente ritengo che la cosa sia possibile, a condizione però che non si tratti di una meccanica trasposizione metodologica.
    Ogni intuizione pedagogica necessita di ermeneutica quando si tratta di una sua applicazione in contesti diversi da dove è nata, ed è per questo che in una società così «complessa» come la nostra in cui è assai difficile condurre ad unità i problemi reali e ad individuare l'interdipendenza che li lega, ritengo che l'ipotesi dei temi generatori è occasione privilegiata per questa operazione: essi possono rappresentare il concreto «punto d'innesto» per arrivare anche solo parzialmente, al sistema di significato; possono portare all'assunzione della «fragilità del frammento» o della «precomprensione intuita», per avviare il processo che va dalla parte al tutto, dal soggettivo all'oggettivo, dall'emotivo all'esistenziale, in modo significativo e significante.
    Perché tale intuizione pedagogica, perciò, sia oggi storicamente traducibile, è necessario porre attenzione a due passaggi:
    - il tema generatore non deve essere assunto come un modello ideale, generalizzabile e disseminabile, perché in questo caso esso potrebbe favorire forzature anacronistiche, inerzie utopistiche e fughe nel privato. Il «tema generatore» nel suo germe sostanziale non è un modello da ripetere e da imitare, ma è un messaggio ed un messaggio non si imita mai, è sempre un appello a nuove creazioni, pur nel rispetto dei suoi processi metodologici;
    - il tema generatore... genera veramente qualcosa di nuovo a seconda della qualità del «futuro» che si sceglie come obiettivo. Se l'animatore/educatore prospetta un futuro sulla linea di continuità del presente, allora, anche se facesse scuola all'oppresso per amor di Dio, egli di fatto serve l'ingiustizia e soffoca la verità; se invece egli sceglie il futuro autenticamente atteso dagli oppressi e temuto dai detentori del potere, allora, ovunque egli sia, anche in un gruppo di «figli del dottore», egli si muove sulla linea della liberazione per la vera umanizzazione. Se questo avviene, gli oppressi coscientizzati (gli operai?... i giovani?... le donne?...) si distaccano volentieri dal privilegio e riconoscono la propria umanità futura negli ideali per cui pacificamente lottano.

    LA DINAMICA DEL LINGUAGGIO DELLA FEDE

    Senza fare indebite trasposizioni e salti di livelli qualitativi diversi, a me pare che, per analogia metodologica, la dinamica del «tema generatore» è aperta anche alla dinamica del linguaggio della fede.

    La prassi evangelica e l'incontro con un tu

    Infatti in Gesù, iniziatore del cristianesimo, il tratto specifico del suo messaggio è stato sempre l'inseparabilità tra la parola e il fatto. E così nella fede, non c'è intervallo tra la parola capita e l'azione eseguita: Cristo con la testimonianza della sua persona aveva già inventato la prassi.
    Non a caso Gesù non consegnò il suo messaggio a degli uomini «dotti», perché il rischio continuo di ieri e di oggi, purtroppo, è sempre quello di trasformare tout-court la concreta e vitale verità dell'evangelo in una «dottrina», in una «filosofia», in una «ideologia», in una «cultura» E il messaggio evangelico non è un fatto che si vive ripetendolo meccanicamente. Esso è parola morta se non diventa Parola viva per l'obbedienza al Dio della fede, più che dare ascolto ripetitivo alle parole ereditate o alle parole scritte.
    L'ascolto di fede è un evento che si giustifica da se stesso, appunto perché le altre giustificazioni, quelle tratte dalla filosofia, dalla teologia, dalla tradizione sono sottoposte al mutamento storico. Esse non reggono, oggi meno che mai. Soltanto quando la fede si rifà al confronto con il Dio della rivelazione, con il Dio che ci parla in Gesù Cristo, trova la motivazione che regge.
    Per questa via ritroviamo la ragione per un impegno storico, anche quando tutte le ragioni sono finite e le ideologie cambiano, perché l'obbedienza al Dio della fede si appoggia ad una ragione di fondo e assume i suoi contenuti dalla realtà dell'uomo vivente, perché in nessun altro luogo è Dio se non nell'uomo. È qui la forza straordinaria della fede; la «forza» e non il «fanatismo» integralista che assume brandelli di tradizione o parole scritte o relitti culturali per riproporli al mondo d'oggi.
    Nessuno, quindi, può vivere autenticamente la fede ripiegandosi su di sé; se rompe il rapporto con il «tu», la fede è già morta. Dal rapporto con il «tu» emerge il tema generatore che provoca l'esodo verso la liberazione. Il Dio di Abramo è un Dio che affida ad Abramo, a Mosè e ad ogni credente, tutte le genti; ma tale apertura è puramente «formale» ed attende i contenuti concreti dalla storia. Ed essi arrivano di continuo, in ogni epoca, in ogni situazione. Solo che prima di articolarsi con il significato della fede, i contenuti storici vanno verificati con l'esperienza e con l'analisi razionale. E in questo il credente è solo, come gli altri che non hanno Dio. Perché non ci si serve di Dio per risolvere i problemi via via emergenti dalla società. Dio non è uno strumento conoscitivo: Egli è nella nube e dalla nube viene la parola. Dio non è una specie di condensato di principi da cui dedurre le risposte risolutive. Tale uso di Dio appartiene alle mistificazioni storiche di ieri e, purtroppo, anche di oggi.
    Questa è la fede cristiana che Gesù ha annunciato e che i suoi hanno vissuto, in un contesto diverso, ma del tutto liberi ormai dalla suggestione del Tempio, della Legge e dei riti. Questa è la nostra certezza, perché della sua Parola ci si deve fidare; perché aver fede significa fare un patto con Dio, anche se è un darsi la mano nel buio con Lui e rimanere stretti nel buio. In questa ottica la fede è sempre una ricerca di significato, perché essa corre lungo i tramiti della umana ricerca del senso della vita e delle cose.

    Una ricerca di senso dentro la vita

    In effetti, la ricerca (non di tipo scientifico, ma esistenziale) è il clima interiore della fede, che perciò diventa anche continua messa in discussione delle certezze gelide, fisse, stabilite. È un problematizzare e un problematizzarsi per cercare «un di più» di qualità. «Che cosa cercate?...», disse il Signore ai suoi discepoli. A tale domanda si potrebbe rispondere, oggi come ieri, che si ricerca un senso alle cose non appagato dalla cultura acquisita, che si ricerca un senso della vita e che non sia un «concetto» sulla vita, ma sia una vita essa stessa. Quando ci si imbatte in qualcuno che, anche solo in germe, ha in sé la ricerca di questo «senso», magari senza nemmeno sapere di averlo, ecco che la certezza accende certezza, la fede accende fede.
    Il tema generatore di una sia pur modesta ricerca esistenziale apre così alla ricerca di significato. Muore in noi la cosiddetta fede «depositaria», che si trasmette cioè come un deposito di certezze e di significati ricevuti dagli antichi, e si accende una fede che ha gli stessi modi delle certezze vitali.
    E perciò il suo vero luogo è il vivere normale, quotidiano: la fede, infatti, non crea necessariamente spazi suoi, accanto alla vita, ma è dentro. Ed è una certezza che per la sua qualità, non identificandosi con nessun'altra, tende a rifiutare l'oggettivazione, l'identificazione: è un messaggio che passa dentro i vari messaggi, per cui di qualunque cosa parliamo e viviamo, la fede passa come il trasparire di una certezza che chi ci ascolta e ci vede ha il presentimento che ci sia.
    Sembra la scoperta dell'uovo di Colombo, ma è così: il messaggio della fede nel Dio di Gesù Cristo passa attraverso gli stessi modi con cui si trasmettono i messaggi vitali: infatti, la stessa funzione comunicativa del linguaggio umano è intimamente legata alla funzione vitale; e tale vitalità del messaggio implica una reciprocità di contatti a livello umano, una ricerca comune che costituisca la scintilla per una ulteriore «produzione di senso» Orbene, un annuncio di fede impersonale, alla maniera dei mass-media o di formule giuridiche o di dichiarazioni epistolari, arriva di solito alla coscienza già morto, senza nessun messaggio vitale da trasmettere, senza significati da scoprire. Mentre la fede autentica ha il suo vero luogo nel sentiero umano in cui si cammina insieme: il linguaggio della fede, infatti, produce ricerca e libertà, perché parte rispettosamente da chi coscientemente afferma «io non so, perciò ricerco», mentre il linguaggio della religione si affretta a dire «è così!»; il linguaggio della fede si sviluppa proponendo un «se tu vuoi...», mentre il linguaggio della religione afferma «tu devi»; il linguaggio della fede fa tutto per amore dell'uomo, mentre il linguaggio della religione spesso fa violenza a Dio con la scusa di amarlo di più; il linguaggio della fede guarda prevalentemente alla terra, mentre il linguaggio della religione rimanda sovente al cielo; il linguaggio della fede ama le strade, la religione costruisce templi.
    Certo, l'esperienza del passato ci dice che non si dà fede senza religione, ma questo nesso testimoniato dalla storia è oggi necessario o contingente?... E se è necessario, qual è il principio in base al quale si può dire che quel determinato «linguaggio religioso» è inverato dalla fede?... Non c'è alcun dubbio: il principio di legittimità della fede cristiana è il servizio dell'uomo e soprattutto dell'uomo oppresso da ogni forma di potere.
    E nell'affermare ciò non si corre nessun pericolo di snaturare la fede che ci è donata da «Radicalmente Altro», perché la dimensione totalizzante di questo dono da esercitare nella storia non ha carattere esclusivizzante, non entra cioè in competizione con altre totalità; la fede in Cristo ha invece un carattere inclusivo, nel senso che offre alla dimensione storica ed esistenziale un ulteriore «significato possibile» e sempre rinvia ad una assolutezza mai realizzabile su questa terra.

    QUALE IMPEGNO PER LA PASTORALE GIOVANILE?

    Quali conclusioni trarre da questa problematica per la pastorale giovanile? E possibile innescare quello che P. Tillich chiama il «metodo della correlazione» tra la dinamica del tema generatore secondo l'intuizione freiriana e la dinamica del linguaggio della fede secondo la proposta del Dio di Gesù Cristo?
    A me pare di non essere lontano dal vero se affermo che oggi tale tentativo di correlare metodologicamente le «due dinamiche» in questione, non solo è possibile, ma si impone con una certa urgenza educativa.

    Per uscire dall'infantilismo e dall'illuminismo ingenuo

    Senza entrare nel vivo dell'analisi sulla condizione giovanile odierna, mi pare che un dato fenomenologico inoppugnabile sia quello che vede le tendenze dei giovani degli anni '80 dibattersi soprattutto tra alcune evidenti contraddizioni:
    - dalla molecolarizzazione dei comportamenti alla ricerca di significati parziali, per comparti di esperienza;
    - dalla frammentazione delle esperienze al bisogno di una propria identità personale e di gruppo;
    - dalla frantumazione esistenziale al bisogno di una autorealizzazione carica di soggettività e di desiderio;
    - da comportamenti di tipo «adattativo» per cui si recuperano i cosiddetti «beni rifugio» quali la famiglia, la ludicità, il privato, la religiosità come securizzazione psicologica, a comportamenti di tipo «distruttivo» di carattere «esterno» come le varie forme di violenza e di terrorismo, di tipo «interno» come i casi che si riferiscono all'uso della droga e al suicidio;
    - dal ritorno ad un nuovo «gregarismo» che trova nel gruppo dei pari la sostituzione di una fonte di autorità e di valori comportamentali, alla spinta di un «protagonismo» esasperato che si pone come nuova fonte di valore, maturando ed esasperando tutti quegli elementi di «società dello spettacolo» che pur caratterizzano la vita pubblica degli individui e delle istituzioni;
    - dall'appannamento dei vecchi schemi di moralità che portano a fenomeni di amoralità o di deresponsabilizzazione collettiva, alla rilevante assenza di «memoria storica» che favorisce ulteriormente l'appiattimento del presente incerto;
    - dall'accentuazione del bello sul vero, della natura sulla ragione, del simbolico sul dimostrativo, della contemplazione sull'azione, del linguaggio del sentire e del fare sul linguaggio del capire, al prevalere ancora, circa i problemi fondamentali della vita, di una razionalità deterministica su una razionalità progettuale.
    In conclusione, pensando a queste tendenze non è errato parlare di una sorta di «perdita di senso» della vita quotidiana che sollecita il superamento del meccanismo dello stadio infantile (il tutto o il nulla; la sacralizzazione o la demonizzazione), come pure dell'illuminismo ingenuo nella vita individuale e collettiva: la scommessa è nell'accettare il rischio quotidiano dell'esistenza, partendo dai suoi «temi generatori» per entrare in un processo di liberazione e, perciò, di umanizzazione.
    E dire la fede in un contesto del genere a me pare la strada giusta: i due «linguaggi» - quello del tema generatore e quello della fede - possono incontrarsi, le due «dinamiche» sono aperte all'innesto, le due «parole» possono diventare la stessa Parola carica di significato.

    Piste possibili di esplorazione

    In quale direzione lavorare, allora, in prospettiva? Non ci sono ricette, come è evidente, ma piste di ricerca da esplorare e sperimentare:
    - è importante recuperare una cultura di progetto nella vita quotidiana di ciascuno di noi, senza riferimenti illuministici, bensì in una situazione di «indeterminatezza»;
    - è necessario esplicitare, far propria e trasmettere una filosofia del rischio che emerga da una razionalità progettuale e che perciò rifiuti le fughe rassicuranti rivalutando il «criterio della tolleranza», nella convinzione che la malizia del presente non si vince restando «prima» della storia o andando «oltre» di essa;
    - è urgente offrire ai giovani strumenti per sostenere ed alimentare una cultura di progetto ed una scelta di rischio, che consenta di rivitalizzare un circuito di innovazione reale tra i loro atteggiamenti di rifiuto-difesa-protesta-proposta.
    In tale itinerario progettuale la «povertà del frammento» (= tema generatore) disponibile alla ricerca di significato è un fatto emblematico che non può essere disatteso da chi ha responsabilità educativa e non per una captatio di frettolosi e impersonali consensi, ma per un funzionale approccio educativo tendente alla maturazione del seme.
    Tale metodologia è per non pochi giovani l'ultima spiaggia per rintracciare i segni di una nuova humanitas; per molti altri è l'unica strada che conduce ad una produzione di senso nella propria esistenza, nell'autonomia e nella responsabilità. Creare, quindi, le condizioni per liberare la coscienza, perché essa sia in grado di fare innovazione nella propria vita e nella società e di inventare il modo di innovare, è un impegno che in radice è evangelico. Infatti un annuncio di liberazione, di qualsiasi liberazione, è già annuncio evangelico sebbene spesso in modo soltanto incoativo.
    Ebbene, il «tema generatore» può rappresentare tale incoatività: in esso è riposto il seme del «realismo storico» e dell'«utopia». Dipenderà da un saggio e corretto approccio educativo perché le due realtà siano coniugabili.
    In questo senso il «tema generatore» può essere interpretato come un vitalissimo embrione ricco di queste due valenze: ma noi sappiamo che l'utopia è sì il grembo materno del realismo storico, ma sappiamo anche che il ventre materno può diventare in determinate circostanze un indebito luogo di rifugio invece di essere un fecondo luogo di nascita.


    NOTE

    [1] Per una più chiara e dettagliata comprensione di questa dinamica rimando allo «schema» (p. 810) di un mio saggio: Educazione e politica nel metodo psico-sociale di Paulo Freire: una alternativa per la liberazione, in «Orientamenti Pedagogici», n. 5, 1978.


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