Armido Rizzi
(NPG 1982-7-17)
LA VITA QUOTIDIANA COME DOMANDA
Concezioni inadeguate
La scoperta della vita quotidiana come luogo del senso è stata negli ultimi anni l'altra faccia della crisi dell'ideologia, soprattutto di quell'ideologia - il marxismo - che aveva sostenuto a cavallo tra gli anni '60 e '70 lo slancio utopico verso una rivoluzione globale. Ma questa concomitanza, se da una parte è innegabile, dall'altra è fonte di un grosso equivoco. Per molti, la caduta dell'ideologia ha significato il ripiegamento delle vele esistenziali sugli interessi esclusivi e miopi del privato; per costoro l'ideologia era l'unico supporto all'impegno, alla responsabilità, alla solidarietà, così che il suo venir meno ha determinato il disimpegno, la deresponsabilizzazione, l'individualismo; tutto ciò che è stato sintetizzato nel termine di “riflusso”. Vita quotidiana è così diventata sinonimo di questo riflusso, il luogo del ristagno e del dissolvimento di ogni volontà di militanza e di ogni speranza di trasformazione.
Esiste però anche una tendenza interpretativa opposta, che nel ritorno al quotidiano vede, quasi automaticamente, un ricupero di autenticità, un accrescimento di personalità. È il caso di coloro che sono sensibili alla minaccia della collettivizzazione, sia che questa si presenti nella forma esplicita di una dittatura comunista, sia che prema alle porte nella forma mascherata della società capitalista. Vita quotidiana può allora diventare il nuovo nome del vecchio sogno della comunità, del villaggio, del gruppo primario, spazio dei rapporti ricchi di senso perché immediati e spontanei e gratificanti.
Non è su questa strada di un giudizio di valore aprioristico che si può ottenere un'idea corretta della vita quotidiana. Essa infatti non è, in quanto tale, né positiva né negativa, né ricca né spoglia di valore, né autentica né inautentica; non è il luogo dove il senso automaticamente ed esclusivamente fiorisce, così come non è il luogo della sua eclissi. La vita quotidiana è una struttura formale, entro la quale si instaura la ricerca del senso; che questa ricerca approdi a un risultato positivo o faccia naufragio non dipende dalla struttura come tale, ma dal suo aprirsi o meno a un dono di senso che viene da altrove.
Fenomenologia della vita quotidiana
Ogni uomo, vivendo, dischiude attorno a sé un “mondo”. Mondo non è infatti prima di tutto l'insieme delle cose che riempiono l'universo (o l'universo stesso come loro contenitore) ma l'insieme delle relazioni che un individuo apre attorno a sé entrando in contatto con uomini e cose che lo circondano. Ognuno ha il proprio mondo, fatto più o meno delle stesse realtà che abitano il mondo altrui ma vissute in modo diverso, in riferimento a quel diverso centro animatore che è, di volta in volta, l'individuo.
La vita quotidiana non è altro che questo mondo, che s'interseca e s'intreccia con il mondo degli altri, reagisce e interagisce, riceve e risponde, ma trovando sempre nella corporalità vissuta del soggetto individuale il perno animatore e principio organizzatore.
Ora, in che modo l'individuo entra in relazione con le altre realtà e istituisce il suo mondo? Evidentemente, attraverso l'azione. Ma che cos'è l'azione, qual è il suo costitutivo, quel fenomeno che permette all'uomo di rapportarsi alle cose in maniera specificamente umana e di disegnare attorno a sé, appunto, un mondo?
Ciò che qualifica l'azione, differenziandola dal semplice movimento fisico, è la presenza, in essa, della volontà di senso. Un movimento può anche avvenire senza perché; se ha sempre una causa, non sempre ha un fine; si pensi alla valanga che rotola, al ramo che oscilla, al relitto sospinto sulla spiaggia. L'azione è invece inconcepibile senza fine; è soltanto il profilarsi di questo che la sollecita, letteralmente la “genera”, la scatena, e poi la orienta, la guida. Agire è sempre agire per, in vista di qualcosa; all'azione può mancare tutto il resto, non può mancare il fine. Ora il fine dell'azione è ciò che le dà senso; più esattamente: il senso di un'azione non è altro che il fine pre-contenuto in essa come idea, come richiamo, come stimolo. Un'azione può riuscire o fallire, a seconda che riesca o meno a raggiungere effettivamente il proprio fine; ma essa ha comunque senso perché ha potuto tendersi, tentare, impegnarsi, lottare, sperare.
La vita quotidiana dell'uomo non è altro che l'insieme dei sensi parziali che abitano nelle sue diverse azioni; un insieme non caotico e casuale ma sempre più o meno organizzato; una costellazione di sensi. Lavorare, nutrirsi, vestirsi, abitare, amare, spostarsi, giocare...: in ognuna di queste attività si dispiega un disegno di senso che, da una parte, è soltanto settoriale, regionale, dall'altra, è già il coordinamento di più azioni cellulari che concorrono alla sua riuscita.
Eppure, né ognuna di queste regioni né la loro somma esauriscono la problematica umana del senso. Anzi, si può dire che essa sorge tanto più netta quanto più efficacemente vengono risolti i problemi inerenti al singolo ambito d'attività. Chi ha fame o cerca casa difficilmente si chiede che senso ha la vita. E non perché sia un superficiale, ma perché nella ricerca del pane e della casa c'è operativamente la ricerca del senso della sua vita in questo momento. Eppure, assieme al bisogno di pane e di casa, di vestito e di gioco - dimensioni già ricche ognuna di un suo senso - la storia testimonia anche un bisogno di senso che va oltre quelle manifestazioni parziali: il senso del soggetto come tale, il significato della mia vita (e, implicitamente, di ogni vita) come unità e totalità indivisibile.
Notiamo che non si tratta di una domanda di carattere teoretico, cui possa soddisfare una compiuta e razionalmente ben fondata visione del mondo. D'altra parte, il senso cercato non è neppure quel sentimento di pienezza, quello stato di ebbrezza interiore che a volte invade e quasi travolge un individuo. Visione razionale o pienezza affettiva sono elementi d'appoggio; ma la sostanza del trovare il senso è una certezza che getta le radici nel più profondo dell'anima, che accompagna come una luce sobria ma inestinguibile l'individuo nelle sue riflessioni e nelle sue scelte, aldilà di emozioni e di teoremi, utili ma non indispensabili.
Ma da dove viene questa certezza? La vita quotidiana, in cui matura la domanda del senso, non sa dare da sola una risposta.
LE RISPOSTE
Religione e perdita del senso
Per millenni la risposta è stata data dalle religioni. Si può anzi dire che l'essenza della religione è l'affermazione del senso: dell'uomo e del mondo e del loro rapporto. Per millenni quest'affermazione è stata l'asse attorno a cui si è organizzata l'esistenza di individui e collettività, la base del vivere e convivere umano.
Questo significa che la religione non era il punto d'arrivo ma il punto di partenza; non era la risposta a una domanda prima formulata ma una risposta che anticipava la domanda stessa, non le dava tempo di formularsi e tanto meno di esprimersi come dubbio. Si può dire che la religione era allora tutt'uno con la vita quotidiana, era il suo “riempimento di senso” spontaneo, connaturale.[1] Insieme con il pane e il lavoro l'uomo trovava il mito, insieme con la casa e il lavoro trovava il rito; e mito e rito gli dicevano in maniera convincente, invincibile, che pane e lavoro e casa e amore non erano soltanto brevi avventure o nudi attrezzi ma momenti di un significato generale, portati dalla grande avventura della vita.
La secolarizzazione è allora, nella sua accezione più profonda, la perdita del senso. Su questo punto bisogna intendersi bene. Nel processo di secolarizzazione c'è stata una prima tappa, che è consistita nella traduzione compiutamente mondana delle figure trascendenti - cioè religiose - del senso, in particolare delle figure cristiane. Così Dio è diventato la Storia con le sue leggi, alla fede in lui si è sostituito la conoscenza razionale di quelle leggi, alla preghiera e alla obbedienza al suo disegno è subentrata la prassi conforme al più profondo divenire storico. Si pensi a Hegel, al marxismo utopico, o allo stesso positivismo nella sua versione ottocentesca. Si è realizzata in questo modo una secolarizzazione della teologia della storia.
Ma, se l'essenza della religione è l'affermazione del senso, essa non viene abolita in questi sistemi; viene piuttosto ritrascritta in figure immanenti. Se vogliamo, da religione diventa ideologia in quell'accezione forte che equivale a nuova religione. C'è dunque, a questo livello, una crisi della religione tradizionale; non c'è una crisi del senso.
È soltanto con la seconda tappa della secolarizzazione che entra in crisi l'affermazione stessa del senso. L'orizzonte della scienza e della tecnica, diventato orizzonte ultimo e globale, cancella ogni idea di una legge immanente alle cose, di una teleologia che guida la storia (sia dall'alto sia dal di dentro); ormai unica legge è quella convenzionale dei modelli di conoscenza, unica teleologia è quella imposta dai progetti dell'uomo (tecnologia, economia, politica).
Questo nuovo sentimento della realtà dà all'uomo la vertigine della libertà assoluta. Vertigine vuol dire ebbrezza, scoperta di non avere altri doveri che quelli che io stesso m'impongo; ma vuol dire anche spaesamento, incapacità di trovare punti di riferimento normativi per l'azione. In altre parole: nulla ha più senso in sé; tutto ha soltanto quel senso che io decido di dargli. Non c'è nulla da scoprire nella vita, c'è tutto da inventare. Natura, persone, relazioni non sono il più grande libro in cui leggere la rivelazione del mistero degli esseri; sono dati da analizzare, materiali da manipolare, per costruire, come in una ingegneria esistenziale, la vita individuale e sociale.
Annunciare il senso della vita: alcune proposte
Come aiutare l'uomo d'oggi a ritrovare il senso della vita? Soprattutto: come aiutare il giovane, che è il più profondamente colpito dall'eclissi del senso, il più esposto a cercarne surrogati anche mortali?
Una prima risposta possibile è quella istituzionale. Se il senso viene affermato nella religione, a sua volta la religione non vive mai come esperienza pura, ma viene custodita entro una configurazione oggettiva che è una comunità organizzata e un sistema culturale (credenze, riti, norme, ecc.): una istituzione. Si tratta allora di riportare gli uomini all'istituzione religiosa; concretamente: alla chiesa come istituzione della religione cristiana. Il pathos del pontificato di Giovanni Paolo II sta in questo tentativo, che è centrato insieme sull'uomo e sulla chiesa. Come testimoniano soprattutto le sue encicliche programmatiche (Redemptor hominis; Dives in misericordia), il Pontefice vede la Chiesa come il luogo dove è custodita la pienezza dell'umano, e interpreta la crisi del senso che investe l'Occidente come un risultato dell'apostasia dell'uomo contemporaneo dalla Chiesa. La contraddizione, che alcuni trovano, tra l'ispirazione “umanistica” di Giovanni Paolo II e il suo “ecclesio-centrismo” si risolve tenendo presente la convergenza dei due poli o fuochi - uomo e chiesa - che caratterizza il suo pensiero.
Una seconda risposta alla crisi potrebbe essere formulata con l'espressione “vieni e vedi”: è l'invito a condividere un'esperienza. Vi sono comunità in cui la fede in Cristo (o in Dio) non solo è il fondamento di ogni parola e azione, ma ne è il riferimento esplicito e sottolineato. Coerenza di vita, serenità e gioia di comportamento, sostegno e collaborazione fraterni, eloquenza dei gesti e momenti di preghiera: questa ricchezza d'esistenza testimonia che qui il senso non è solo certezza intellettuale ma entusiasmo che permea ogni manifestazione di vita.
Una terza proposta risolutrice della crisi del senso è quella che potremmo chiamare kerigmatica: la volontà di purificare la prassi ecclesiale dagli ibridismi politici e culturali cui si è a volte abbandonata, per riportarla agli atti che essenzialmente la definiscono: predicazione e sacramenti, annuncio di Cristo e comunione con lui. C'è, in questi atti, una forza intrinseca che aspetta solo operatori fedeli per sprigionarsi e irradiare la propria efficacia.
LA PROPOSTA MESSIANICA
Vogliamo qui rapidamente disegnare una quarta proposta. Non si tratta, ovviamente, di una contrapposizione netta alle possibilità già enunciate (che d'altronde non costituiscono neppure reciprocamente un'antitesi esclusiva); si tratta di diverso accento, o meglio, di diverso centro, attorno a cui far ruotare tutti gli altri aspetti. Chiamerei dunque la nostra proposta: utopia messianica nella vita quotidiana.
Il messianismo nella bibbia
Nella bibbia il problema del senso appare come problema di un mondo dove regnano “giustizia e pace”, cioè armonia di rapporti e pienezza di beni. I testi più noti che presentano questo ideale sono le profezie messianiche, dove giustizia e pace vengono proiettate in un futuro sempre più lontano, legate a un intervento diretto e risolutore di Dio o di un suo inviato (il messia, appunto).
Ma se portiamo l'attenzione, invece che sui nomi, sulle cose stesse, non è difficile vedere che la sostanza del futuro messianico - l'immagine del mondo giusto e buono - è già presente in Israele prima delle profezie, come utopia e promessa della sua vita di ogni giorno. La terra promessa è precisamente l'utopia quotidiana del popolo di Dio. Dove “quotidianità” non vuol dire soltanto che è a disposizione ora, giorno dopo giorno; ma, soprattutto, che non è mai acquisita definitivamente, una volta per tutte, ma giorno dopo giorno va riconquistata. In altre parole, la terra promessa non è mai un dato su cui si possa tranquillamente contare; rimane sempre una possibilità che bisogna continuamente tradurre in realtà nell'“oggi” di una prassi responsabile.
È questo il senso più profondo della legge in Israele: terra e legge sono i due poli del dono che Dio ha fatto al suo popolo: un polo oggettivo - la terra, la natura - ricco di risorse, di tutti i beni che possono allietare la vita dell'uomo; un polo soggettivo - la legge, la libertà responsabile - che è la condizione perché quei beni non restino inutilizzati o non vengano utilizzati secondo una logica di possesso e di ingiustizia.
Israele sa (è questo il segreto della sua elezione e dell'alleanza con Dio) che la vita dell'uomo sulla terra ha un senso; e sa pure che il senso non è una realtà bell'e fatta, un patrimonio garantito, ma un'ardua vocazione, un dono affidato alla sua libertà. Ed è proprio in base a questa vocazione che i profeti possono denunciare come fallimentare la storia del loro popolo: se la terra non ha dato i frutti promessi, non è perché Dio abbia mancato di parola ma perché Israele ha mancato di fedeltà. Dunque la disfatta, la perdita della terra, l'esilio. Poi, nuova inattesa promessa: la prospettiva di un rilancio: un futuro - il tempo messianico - che realizzerà ciò che il passato ha mancato, che sarà davvero tempo di giustizia e di pace.
Ma la vera novità di questa prospettiva è la promessa dello Spirito: Dio donerà al popolo e a ognuno dei suo membri il proprio Spirito, perché diventi nel loro cuore il principio di una libertà fedele, continuamente rinnovata, all'altezza della loro vocazione. Lo Spirito non è un bene messianico accanto ad altri; è la condizione perché tutti gli altri possano realizzarsi: l'esercizio responsabile, positivo, secondo giustizia e pace, della libertà umana.
Quando la comunità cristiana primitiva annuncia in Gesù il messia e nella sua venuta l'arrivo dei tempo messianici, non vuol dire che ormai l'umanità sia installata, automaticamente, in un mondo giusto e buono; vuol dire che essa è inabitata dallo Spirito messianico che è il principio per realizzare un mondo giusto e buono. Il cristianesimo è la religione messianica non perché prometta una giustizia e una felicità che piovono dal cielo, ma perché la salvezza vi appare “principalmente come dono dello Spirito rinnovatore, come liberazione dalle potenze che tengono asservita la coscienza dell'uomo e gli impediscono l'esercizio della sua libertà per il bene. Si tratta cioè di una salvezza dal peccato e dalle sue conseguenze, dalle radici che l'ingiustizia ha nel cuore dell'uomo, attraverso una riabilitazione e rinnovazione della persona che si estende a tutte le relazioni sociali di cui si compone l'esistenza umana”.[2]
Attualizzazione
La caduta dell'ideologia da una parte, la crisi del senso dall'altra, ritagliano uno spazio entro cui l'annuncio di Gesù Cristo può ritrovare la sua collocazione più appropriata. Bisogna affermare il senso della vita senza riaffermare l'ideologia: non è questa l'accezione profonda dell'utopia messianica nella vita quotidiana? Non possiamo darne qui che un disegno schematico.[3]
Il centro della proposta messianica è definito dal rapporto “legge-terra”, cioè dalla relazione che lega il soggetto giusto e il mondo buono. Non c'è una giustizia (né una conversione) che si consumi dentro l'interiorità, così come non c'è una riuscita del mondo che sia tutta e soltanto esteriore, cioè risultato di fortunate congiunture e di indovinate strategie. Il soggettivo si invera nell'oggettivo, e l'oggettivo vive della qualità del soggetto.
Questo vuol dire due cose. Anzitutto, che bisogna escludere l'illusione di sistemare il mondo una volta per tutte, attraverso l'applicazione di mezzi che ne garantiscano il buon funzionamento. Certo, vi sono problemi che vanno risolti attraverso grandi programmazioni politiche e tecnologiche (si pensi al problema dell'alimentazione delle popolazioni sottosviluppate); ma quanto più ci si avvicina all'ordine del senso, tanto più politica e tecnica si rivelano impotenti, e aspettarsi da esse gli interventi risolutivi è puerile. L'affermarsi del senso è legato all'esercizio concreto e positivo della libertà, ed è quindi continuamente in gioco nell'“oggi” delle nostre decisioni. La politica può e deve darmi il pane e la casa; ma non può darmi la ricchezza di significato che pane e casa possiedono quando vengono visti e vissuti nell'orizzonte dell'alleanza: come dono di Dio, come luogo di fraternità, come sapore della natura.
Ma - ed è l'altra faccia della questione - il senso non deve essere intenso come realtà tutta interiore, che possa prescindere dall'oggettività dei rapporti con uomini e cose. Soggetto del senso non è l'“anima” ma l'uomo nella sua corporalità vissuta; e il senso dell'uomo fa tutt'uno con il senso delle realtà che lo circondano, con i frutti della terra e dell'amicizia. Questo significa che bisogna prendere sul serio il carattere di “segno” della chiesa e dei suoi gesti essenziali. Il segno dice qualcosa d'altro da se stesso; i gesti ecclesiali non sono, in una prospettiva messianica, fine a se stessi; sono espressione del mondo giusto e buono: espressione come trasparenza di quanto è già realizzato e, soprattutto, come promessa di quanto è ancora lontano.
Si può avere l'impressione che tutto ciò equivalga a stabilire il primato dell'etico sul religioso, della laicità sulla confessionalità; o, per riprendere una terminologia cara alla chiesa italiana, della promozione dell'uomo sull'evangelizzazione. L'impressione non è del tutto falsa, ma è comunque superficiale. Guardando in profondità, si deve dire che ognuna di queste coppie di termini esprime, da due diversi punti di vista, il mistero della libertà inabitata dallo Spirito, la divina creatività della vita teologale. La dimensione religiosa ne dice l'origine, l'iniziativa etica ne manifesta la fecondità. Ciò che distingue la proposta messianica da quelle prima indicate non è né una maggior passione per l'uomo né una minor passione per Dio; è di svolgere in maniera più coerente la convinzione che l'uomo è la passione di Dio, e che il luogo privilegiato dove incontrare l'uomo è la nostra vita quotidiana.
L'utopia messianica è la pienezza di senso del quotidiano perché diffonde in esso, attraverso l'operosità della prassi umana, l'infaticabile ricchezza della creazione e dell'alleanza.
NOTE
[1] Ciò non significa che la religione fosse la stessa vita quotidiana; era in essa senza identificarvisi formalmente, come testimoniano i momenti specificamente religiosi (la festa, il rito, ecc.).
[2] C.M. Martini, Comunità primitiva, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare, Torino 1977 (Marietti), vol. I, 556.
[3] Per uno sviluppo meno inadeguato, vedi: A. Rizzi, Messianismo nella vita quotidiana, Torino (Marietti) 1981.