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    Le ragioni del bene e del male: per una fondazione antropologica della morale



    Giannino Piana

    (NPG 1982-1-18)

    La ricerca teologico-morale è chiamata oggi a fare i conti non soltanto con le questioni relative allo strutturarsi del fatto etico, ma, più radicalmente, con quelle concernenti la sua stessa fondazione, e pertanto la sua possibilità.
    La crisi di civiltà, che attraversiamo, ha contribuito a mettere in luce i limiti delle legittimazioni tradizionali, ma può portare - se esasperata - alla negazione tout court dell'istanza etica, considerata come una sovrastruttura alienante, alla quale l'uomo deve sottrarsi per essere se stesso e vivere fino in fondo l'avventura della sua libertà.
    Il problema di fondo è allora più che mai quello della ricerca di un fondamento, che giustifichi la necessità di orientare e di guidare la condotta umana, caricando di senso i diversi comportamenti quotidiani. Prima di procedere all'elaborazione dei contenuti normativi dell'agire umano, è infatti necessario interrogarsi su ciò che sorregge l'esigenza di normazione per verificarne, in modo critico, l'autenticità.
    È quanto tenteremo di fare in queste note che, partendo da un'analisi dell'attuale crisi di fondazione (prima parte) si sforzeranno di far luce sulle prospettive antropologiche emergenti (seconda parte), per giungere, infine, a proporre, risituandola, la prospettiva di fondazione cristiana (terza parte).

    LE RAGIONI DELLA CRISI

    Nella cultura del passato la possibilità di fondazione del fatto morale era un dato scontato. L'universo simbolico sacrale faceva pacificamente da supporto all'interpretazione globale della vita e del suo senso. L'etica veniva immediatamente dedotta dalla religione come un suo corollario necessario ed irrinunciabile. Il quadro dei valori ai quali si faceva riferimento trovava la sua radicazione nel messaggio cristiano e la sua giustificazione ultima nel rapporto dell'uomo con Dio. Il problema del fondamento non si poneva in termini espliciti, ma riceveva implicitamente soluzione al di dentro della risposta più globale alla questione del senso della vita nel quadro della fede.

    La fondazione kantiana illuministica: la morale della ragione

    La rottura dell'universo sacrale, provocata dal fenomeno della secolarizzazione, ha determinato una progressiva autonomizzazione dei significati della realtà e una conseguente frammentazione dell'esperienza umana. Il processo di emancipazione, che ne è derivato, non riguarda soltanto la natura e l'attività politica, ma investe, più profondamente, la cultura e gli stessi valori in base ai quali l'uomo compie le sue scelte. Si è così fatta strada la convinzione che l'etica è un fatto umano, secolare e storico, perciò non strettamente dipendente dall'orizzonte religioso.
    È stato Kant a rivendicare per primo, in termini di rigoroso approccio filosofico, l'autonomia della morale, rintracciandone il fondamento nella soggettività umana: la ragione umana diviene per il filosofo tedesco ragione morale in virtù dell'imperativo categorico, che costituisce l'apriori o la categoria formale, capace di determinare il comportamento dell'uomo. Alle etiche tradizionali, fondate sulla preesistenza di un ordine naturale e, in ultima analisi, di un principio trascendente, si sostituisce in tal modo un'etica totalmente accentrata sulla coscienza come misura ultima - non misurata da altro che da se stessa - del bene e del male.
    La svolta kantiana, alimentata dalla fiducia illuministica nel potere della ragione umana, dà luogo alla nascita di un'etica razionale, totalmente laica, disancorata cioè da qualsiasi presupposto di ordine religioso. Questo processo prende via via sempre più consistenza in concomitanza con l'estendersi della secolarizzazione della vita, fino al punto che si giunge ad affermare la necessità della negazione di Dio come condizione indispensabile per la realizzazione dell'uomo nella sua libertà e responsabilità, perciò come soggetto morale.

    La crisi della morale fondata sulla ragione

    Questo modello fondativo entra, tuttavia, ben presto in crisi. La fede cieca ed assoluta nella ragione umana cede, infatti, il posto all'emergere di un atteggiamento pessimistico nei confronti di essa. Le scienze umane evidenziano il peso dei condizionamenti bio-psichici e socio-culturali sulla condotta dell'uomo. Lo spazio della libertà e delle opzioni personali tende a restringersi fino ad essere totalmente annullato. Alla enfasi posta sul soggetto e sulle sue possibilità subentra la tendenza inversa alla destrutturazione del soggetto. Lo studio delle dinamiche soggiacenti all'agire umano mette a fuoco il determinismo e il meccanicismo delle reazioni, ingenerando l'impressione che non esista, di fatto, differenza qualitativa tra il comportamento umano e quello subumano. L'uomo viene sempre più concepito ed analizzato come una macchina eterodiretta, incapace di padroneggiare i processi a lui interni, e perciò da essi totalmente dipendente.
    La conclamata autonomia del soggetto si tramuta in totale negazione della possibilità da parte di esso di assumersi il peso della responsabilità nelle decisioni. L'etica tende allora a diventare scienza del costume, descrizione fenomenologica del comportamento umano, rinunciando per ciò stesso ad esprimere giudizi di valore che non siano quelli fondati sul criterio della convenzione sociale.

    Il problema di fondo: conciliare libertà e valori

    Paradossalmente, per quanto di segno opposto, questi due atteggiamenti - quello della totale autonomia dell'uomo e quello della più radicale dipendenza - hanno origine dalla stessa matrice: la mancanza cioè di una corretta antropologia, che sappia cogliere l'originalità del mondo umano e lo sappia nello stesso tempo circoscrivere entro i limiti che gli appartengono. La conseguenza più immediata è l'incapacità di mediare, all'interno del fatto etico, il momento soggettivo e quello oggettivo, l'affermazione del soggetto, nella sua unicità ed irripetibilità, e la sua costitutiva apertura ad un orizzonte che lo trascende e che gli è, in qualche modo, predato.
    L'eticità affonda, in ultima analisi, le sue radici nella libertà del soggetto, ma esige, nello stesso tempo, per potersi sviluppare, il riferimento ad un quadro di valori in base ai quali progettare la propria autorealizzazione. Una libertà fine a se stessa, ridotta a pura indeterminazione, finisce per autodistruggersi; d'altra parte, il valore cessa di essere tale se non viene visto in stretta relazione con la libertà, se non viene cioè percepito dal soggetto umano come concreta risposta alle proprie aspirazioni e ai propri bisogni più profondi.
    L'analisi fenomenologica dell'esperienza morale evidenzia la necessità dell'interazione dialettica tra questi due aspetti, che appartengono originariamente al mondo dell'eticità. La libertà di scelta non è, infatti, che un inizio; è data all'uomo per la sua liberazione. Riducendo la libertà ad un'esigenza soggettiva dell'uomo esistente, senza alcun contenuto obiettivo, si finisce inevitabilmente per farla coincidere con la necessità della situazione, togliendo pertanto ogni carattere di responsabilità e di rischio all'agire dell'uomo. D'altronde, l'esperienza del valore, per poter far spazio alla libera scelta umana, deve apparire come esperienza di qualcosa che non si pone come un dato già preconfezionato, bensì come l'oggetto di un'elezione che tende dinamicamente a realizzarlo attraverso un progetto ininterrotto.
    La vita morale assume dunque i connotati di una continua tensione tra ciò che siamo e ciò che vogliamo e dobbiamo essere, tra la situazione presente e la vocazione che siamo chiamati a realizzare. Purificata da ogni elemento accessorio, essa appare quindi come la correlazione perenne ed inesauribile tra l'identità soggettiva dell'io libero e il senso che egli ricerca e intende dare alla propria esistenza. Nella libera opzione morale, l'io costruisce se stesso e si progetta secondo un ideale quadro di valori che lo trascende e al quale si sforza di adeguarsi più o meno perfettamente, con maggiore o minore successo.

    VERSO UNA FONDAZIONE PERSONALISTICA

    Libertà e valore trovano pertanto il loro momento fecondo di impatto nel mistero della persona umana, che è insieme all'inizio e alla fine della vita morale. All'inizio, nel senso che essa è la realtà ontologica, che fonda la possibilità di un'azione autonoma; alla fine, nel senso che, considerata in rapporto alla sua vocazione, la persona non è ancora che una promessa, che sarà mantenuta dalla pienezza di un'esistenza esercitata e di attività svolte nella direzione dei valori.

    Il primato odierno attribuito alla soggettività

    Da questo punto di vista, l'accento posto dalla cultura moderna sul primato della soggettività rappresenta un elemento prezioso per la ristrutturazione del fatto morale. Esso ha, infatti, determinato un capovolgimento radicale di prospettiva rispetto alle impostazioni tradizionali. La morale sviluppatasi in passato, anche nell'ambito del mondo cattolico, era una «morale degli atti», attenta cioè all'aspetto oggettivo-materiale dell'agire umano. Ciò che contava, e costituiva l'oggetto della valutazione etica, era prevalentemente, o addirittura esclusivamente, il contenuto dell'azione, e non tanto il rapporto di essa con l'intenzionalità del soggetto e, in senso più esteso, con il progetto globale di esistenza. L'agire dell'uomo veniva così oggettivato ed atomizzato in un succedersi di atti singoli, posti l'uno accanto all'altro, senza possibilità di coglierne le dinamiche interne e la più profonda ispirazione.
    La tendenza oggi in atto va invece - giustamente - in direzione opposta. L'agire umano viene, infatti, sempre più considerato come l'ambito dell'autorealizzazione del soggetto, il luogo entro il quale egli esprime la tensione allo sviluppo totale di sé. In tale contesto, assume sempre maggiore significato l'aspetto formale-personale dell'attività umana, cioè il rapporto che gli atti hanno con l'intenzione del soggetto e con la globalità della sua storia personale. L'analisi di tale aspetto conduce al riconoscimento dell'esistenza di opzioni di fondo, che animano la vita dell'uomo e costituiscono il punto di riferimento necessario per la comprensione-interpretazione del senso del suo agire concreto.

    Contro una «morale delle intenzioni»: la persona come «soggetto di relazioni»

    Esiste, tuttavia, il rischio che, in questa nuova tendenza interpretativa, si sostituisca la «morale degli atti» con una «morale delle intenzioni» altrettanto pericolosa, perché unilaterale e riduttiva. Per superarlo è necessario ricuperare una corretta concezione della persona, quale emerge dalle analisi della fenomenologia e del personalismo moderno. La persona umana non può, infatti, essere considerata un individuo, un essere chiuso in se stesso, ma un «soggetto di relazioni». Essa si comprende ed esiste in quanto dice relazione all'altro e al mondo. Il che significa che la intersoggettività e l'essere-nel-mondo appartengono alla definizione della sua stessa natura. L'uomo come persona non è comprensibile al di fuori di un contesto di relazioni che determinano il suo modo di essere e di agire.
    La vita morale non può, conseguentemente, essere espressione di scelte puramente individuali, ma soltanto di scelte personali, che tengono concretamente conto degli altri e della situazione storica e socio-culturale entro la quale si collocano. È come dire che il fondamento della moralità è allora l'intersoggettività, ed una intersoggettività situata, che fa spazio alle vere esigenze della liberazione umana individuale e collettiva. Se è vero che l'uomo è essenzialmente un essere sociale, in altri termini che la società appartiene alla definizione dell'uomo come essere personale, allora ogni atto umano - anche quello apparentemente più privato - ha un'essenziale dimensione sociale e deve pertanto essere valutato, non soltanto in base all'intenzionalità soggettiva, ma anche in base a ciò che, di positivo o di negativo, produce nell'ambito delle relazioni umane.
    Solo un'antropologia relazionale è in grado di dare fondamento compiuto all'agire morale giustificando, da una parte, il primato della soggettività e non rinunciando, dall'altra, a valorizzarne le dimensioni oggettive, le quali appartengono costitutivamente alla realtà della persona in quanto soggetto di relazioni.

    Una concezione globale dell'uomo a fondamento della morale

    La virtù che condensa in se stessa tutto il senso dell'eticità è dunque la virtù della giustizia, poiché essa esprime l'esigenza del rispetto dei reciproci diritti delle persone e costituisce il punto di riferimento per la determinazione del vero significato delle relazioni umane. Essa deve, d'altronde, concretizzarsi nella formulazione di una serie di norme, che hanno come compito proprio quello di tradurre, nel vivo della situazione storica, le istanze fondamentali ed irrinunciabili della persona, promuovendone la crescita in tutte le direzioni mediante lo sviluppo di forme di convivenza a misura d'uomo.
    La necessità della norma e della sua obbligazione è dunque, in ultima analisi, fondata su di una concezione globale dell'uomo. Essa non nasce dal di fuori, ma dal di dentro della soggettività umana e ne esprime le esigenze più vere. Il dualismo, e persino la contrapposizione, tra aspetto soggettivo e aspetto oggettivo viene così a cadere, perché fondato su una visione riduttiva della soggettività. E si apre lo spazio per un'impostazione articolata del fatto etico come ambito all'interno del quale liberazione individuale e liberazione sociale sono dimensioni correlative ed interdipendenti.
    La vita morale ha come obiettivo ultimo la realizzazione della persona, la quale, tuttavia, non può avvenire che nel quadro di un mondo di relazioni che la costituiscono e alle quali deve costantemente fare riferimento.

    NEL SEGNO DELL'ALLEANZA

    La morale biblica non si discosta da questa impostazione. Anzi, la assume e conferisce ad essa il fondamento ultimo. La persona umana ci appare, infatti, nel quadro della rivelazione, come un essere costitutivamente relazionale. La relazione all'altro e al cosmo ci vengono presentate, fin dai primi capitoli della Genesi, come dimensioni essenziali dell'essere dell'uomo, e perciò come momenti ineludibili del processo di autorealizzazione soggettiva.

    La persona umana nell'orizzonte del rapporto con Dio

    Ma la radice di tale relazionalità viene posta nella fondamentale relazione che unisce l'uomo a Dio: relazione di dipendenza ontologica, che dà origine alla stessa esistenza dell'uomo. La persona umana può essere pensata solo nell'orizzonte di tale rapporto, che è rapporto di dipendenza nella vita. Al di fuori di esso l'uomo diventa un non-senso.
    La stessa categoria di «immagine di Dio», mediante la quale la bibbia esprime la natura dell'uomo, è fondamentalmente una categoria relazionale. Il termine «immagine» non viene, infatti qui usato - come ad una prima impressione potrebbe sembrare - per designare una rappresentazione sbiadita della realtà, ma una proiezione nel visibile del mistero invisibile di Dio; essa descrive cioè una vera e propria continuità ontologica. Così l'uomo, in quanto immagine di Dio, è un essere simile a Dio; è l'interlocutore che Dio dà a se stesso, colui che, unico fra tutte le creature, può ascoltare la parola di Dio e rispondere ad essa. La dipendenza, che l'uomo vive nei confronti del suo Signore, assume pertanto connotazioni precise e peculiari: egli è il vero partner di Dio, chiamato a vivere con Lui in un rapporto analogo a quello del figlio nei confronti del padre.

    L'alleanza, chiave interpretativa del significato ultimo della morale

    Il senso profondo di questa relazione è esplicitato attraverso il grande fatto storico dell'alleanza. L'alleanza designa, nello stesso tempo la vicinanza e l'infinita distanza tra Dio e l'uomo, e costituisce la chiave interpretativa di tutto il significato della vita morale. Il Dio dell'alleanza è un Dio lontano, che si è fatto, di sua iniziativa, vicino all'uomo, entrando nella sua storia per un atto di pura gratuità, ma che non cessa per questo di restare un Dio diverso, inaccessibile, assolutamente altro. È come dire che l'uomo è chiamato a vivere la comunione personale con il suo Signore, ma che la può vivere unicamente accattando fino in fondo la dipendenza, non pretendendo di porsi sul suo stesso piano, di decidere cioè autonomamente del bene e del male.
    La legge morale ha, anzitutto, questo compito e questo valore. Essa ricorda all'uomo la sua condizione di creatura, lo rende consapevole che solo Dio è Dio e che la condizione per vivere la comunione con Lui è la fedeltà alla sua volontà, l'obbedienza incondizionata al suo disegno. Il decalogo, che regola il comportamento dell'uomo nei rapporti con Dio e con i suoi simili, non è perciò un'imposizione esterna, né un mezzo di autogiustificazione, ma la risposta dell'amore fedele all'iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio. Come tale, esso non è fine a se stesso, ma è unicamente strumento per la conservazione e l'approfondimento della comunione di amore e di vita, che Dio vuole realizzare con l'uomo.

    Cristo fondamento e modello della vita morale del credente

    Tutto questo trova il suo perfetto compimento nel mistero di Cristo «immagine del Dio invisibile» (2 Cor 4,4; Ebr 1,3; Col 1,15-18). L'evento-persona di Gesù di Nazaret è la realizzazione compiuta della alleanza. Egli è insieme chiamata di Dio e risposta dell'uomo. In Lui Dio ha detto di sì in modo totale e definitivo all'uomo, e l'uomo ha dato il suo pieno assenso al progetto di Dio. Cristo diviene in tal modo il fondamento e il modello della vita morale per il credente: una vita che si costruisce nella partecipazione-imitazione del suo mistero e che ha come obiettivo la crescita nella comunione di amore con il Padre.
    L'eticità è dunque essenzialmente costruzione di una relazione di amore, che non si esaurisce nel rispetto del diritto, ma trova la sua completa espressione nel dono di sé. La carità, che assume la giustizia, ma, nello stesso tempo, la supera, è il contenuto fondamentale della legge nuova. Essa norma tutto il mondo delle relazioni, conferendo ad esse il senso vero e definitivo. L'amore di Dio, riversato nel cuore dell'uomo mediante il dono dello Spirito, spinge l'uomo ad amare fino a perdere se stesso e la propria vita in un atto di assoluta gratuità. La vita morale, in quanto vita di relazione, ha in questo la sua norma ultima: la persona si realizza donandosi a Dio e ai fratelli.
    D'altronde l'uomo scopre pienamente se stesso soltanto trascendendosi. La percezione simultanea del limite e della tensione all'assoluto è la ragione profonda del bisogno di apertura, che gli è connaturale. Tale bisogno può essere appagato solo nell'incontro con un Dio personale, che offre all'uomo il suo amore infinito.

    Conclusione

    L'antropologia relazionale, che costituisce la struttura portante dell'eticità, raggiunge perciò nell'orizzonte della relazione assoluta il suo senso compiuto, La morale, in quanto fatto umano e dunque autonomo, perché fondato sulla persona e sulla sua esigenza di realizzazione, rinvia al di là di se stessa; ricupera, in altri termini, la sua legittimità e possibilità nel quadro di un rapporto, che è fondamento e misura di tutti gli altri rapporti. Così le ragioni del bene e del male non sono più astrattamente da ricercare in un ordine oggettivo, totalmente estraneo al soggetto, ma nella relazione fondamentale che lo costituisce e lo fa persona. Solo nell'incontro con Dio il soggetto umano ritrova se stesso e si dispone a vivere, in tutta la ricchezza dei loro significati, le relazioni con gli altri e con il mondo.


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