Giampiero Bof
(NPG 1981-08-21)
La comprensione della morte appare in stretta correlazione con le interpretazioni generali della realtà: è ovvio infatti che la morte assume differenti significati all'interno di una visione rigidamente naturalistica, o collettivistica, o individualistica, o personalistica. Così come appare chiaro che ogni tipo di individualismo o personalismo non aperti alla trascendenza incontrano nella morte una minaccia, che non pesa allo stesso modo sul collettivismo e sulle concezioni personalistiche aperte alla trascendenza.
NEI SISTEMI RELIGIOSI LA MORTE È PASSAGGIO AD UN ALTRO MODO DI VITA
È possibile addirittura avanzare l'interrogativo se, da un lato, le concezioni generali non si differenziano in ultima istanza per la valutazione che offrono della morte; e dall'altro lato, se la comprensione della morte non sia determinata dall'inquadramento in un certo sistema interpretativo.
Di qui il rilievo che acquista la morte in una concezione religiosa, vale a dire in una prospettiva che può venir identificata come quella che non permette la chiusura dell'uomo e della realtà entro i limiti dell'immanenza empirica e mondana.
Una forma rilevante nella quale le religioni arcaiche hanno espresso la coscienza loro di questa apertura alla trascendenza è quella del rapporto affermato tra il mondo dei vivi e quello dei morti: rapporto che si fa concreto in un commercio spesso assai intenso, sino a gareggiare, per incidenza ed efficacia, con quello che si svolge tra i viventi. Non a torto Van der Leeuw scrive:
Tra il morto e il vivo non c'è molta differenza; non ha perso né il dato né la possibilità. La sua sopravvivenza è ovvia, appunto perché è garantita dai riti... Il seppellimento segna così l'inizio di una nuova vita... La morte non è un fatto, ma una condizione diversa da quella della vita... Essenzialmente la morte è solo un passaggio come un altro e il defunto non è un individuo cancellato dai ruoli... È al più qualcuno che ritorna e, più in generale, qualcuno che è presente.[1]
Il linguaggio «religioso» nella morte: rivelazione o scacco alla trascendenza?
Non dobbiamo però misconoscere la problematicità del rapporto fra la trascendenza e la morte, tale da aprire due opposte prospettive: nella prima la morte è rivelazione della trascendenza, nella seconda ne è la più insidiosa minaccia. Tanto più delicato il problema si presenta quando, superato il concetto di morte come semplice accadimento, la si veda come realtà coestesa alla vita.
Problematica appare per tal modo ogni forma religiosa, che si presenti come affermazione di questa trascendenza. La ambiguità assume anzi nella religione e nelle sue espressioni risonanze ancor più sensibili e preoccupanti.
Si richiami la solenne dignità che la morte acquista quando, disvelando la caducità della vita, si presenta come premessa per la affermazione di una realtà assoluta, di Dio stesso. Si pensi ancora quale potenza acquisti l'aspirazione alla giustizia, e quale profondità l'anelito dell'anima oppressa, di fronte alla inesorabilità della morte, la quale finalmente non ha più riguardo di alcuno, né risparmia i privilegiati e i dominatori di questo mondo e tutti conduce, nella nuda verità del loro essere, dinanzi al giudizio di Dio.
Ma non si dà anche, nella enfasi sulla implacabilità della morte, un maligno compiacimento per il fallimento della impresa umana di una autonoma costruzione di sé e del proprio mondo? E nello stesso tempo non si tenta di coinvolgere la convinzione della vanità della vita nella convalida degli ordinamenti religiosi, etici, sociali, ecc., che si vogliono imporre all'uomo? Così, per esempio, per quanto concerne il nostro passato cristiano, dobbiamo rilevare con disincantata verità che l'attenzione rivolta alla morte era espressione e causa di un sistematico depotenziamento della vita, contro il quale ha reagito l'età moderna, anche se nella sua ideologia borghese essa ha poi interpretato la vita piuttosto nella direzione della produzione e del possesso dei beni, che della crescita dell'uomo.
Il passato ci ha esemplificato con larga dovizia la morte subita per valori universalmente riconosciuti: talvolta esplicitamente religiosi, tal'altra non immediatamente tali (come l'onore, l'amor di patria e altri), ma valutati in modo che il rapporto con essi mal si distinguerebbe da un effettivo atteggiamento religioso.
L'indagine non può arrestarsi di fronte a questa morte, anche se alla comprensione critica si oppongono le remore di una sua possibile «profanazione»: solo a questa condizione è sperabile una qualche luce non solo sulla morte, ma anche sulla religione genuina. E non va taciuto che ingannevole è anche la tendenza a riconoscere nel passato il segno della pietà e dell'affetto, e nel presente invece il disinteresse, la trascuratezza, il disincanto. Troppo spesso le forme rituali, oggi interpretate come segno di pietà per i defunti, furono mezzi di difesa dal morto, che si temeva pericoloso.
La concezione cristiana della morte tra fede e cultura
La concezione cristiana della morte si è sviluppata all'interna del complesso contesto culturale al quale il nostro discorso s'è costantemente riferito, e di esso ripropone la eterogeneità. Essenziale è il riferimento alle fonti bibliche, che rivelano molteplici fattori culturali e religiosi estranei alla cultura classica, greca e latina, che peraltro offre le fondamentali categorie concettuali, entro le quali essi si interpretano e si fanno storicamente presenti. Per mille rivi giungono all'idea cristiana, ed entrano nella sua costituzione, i tratti caratteristici della mentalità arcaica. Essa li compone, li trasfigura, e intanto ne garantisce la sopravvivenza e infonde loro nuova energia. Non è difficile riconoscerne la presenza nei riti di esequie o nella preghiera di suffragio, nel seppellimento in luogo sacro o nella struttura delle indulgenze...
Non è meno riconoscibile, all'interno della tradizione cristiana, un processo di desacralizzazione, consentito e anche promosso dalla coscienza biblica. Anche questo non ha mancato di influire sulla comprensione della morte, sulla quale hanno agito poi le spinte secolarizzanti dell'età moderna, piegandola nella propria direzione.
Lungo la storia dovrebbero allora essere individuate le diverse epoche, nella loro definita singolarità, entro la quale acquistano genuino significato i fattori che, trasferiti in altro contesto, perdono consistenza e contenuto, o altro ne acquistano, finendo coll'esser di fatto trasformati. Con sant'Ambrogio, ad esempio, la teologia cristiana parlava di triplice morte, intendendo la morte corporale, quale conclusione della condizione terrena dell'uomo; la morte spirituale, consistente nella separazione da Dio, fonte di vita; e poi la morte mistica, quale partecipazione, già durante la vicenda terrena, alla vita intima di Dio. Quale rapporto con la morte prima e seconda, cui allude S. Francesco nel Cantico delle Creature? Sarebbe tanto arbitrario supporre una qualche coincidenza tra le due articolazioni, quanto insensato sommarle, per ottenere una concezione cristiana unitaria.
Una coscienza illuminata opererà in diversa direzione, non limitandosi a elencare aspetti e momenti, ma cercando di comprenderli nella singolarità del loro contesto di origine, e eventualmente inseguendone le trasformazioni intervenute a partire dalla loro trasposizione in contesti diversi.
Punto decisivo sarà però ancora un altro: vale a dire la possibilità di integrare il tutto nel nucleo essenziale della fede cristiana: il rapporto di Dio con l'uomo in Cristo, la salvezza della comunità umana, la vocazione personale e responsabile di ogni uomo. Di qui deve illuminarsi ogni dato della comprensione cristiana della morte.
Vediamo ora come fede e cultura in epoca moderna si sono reciprocamente interrogate e messe in discussione a proposito del significato della morte.
IL «SOSPETTO» SULLA FUNZIONE CONSOLATORIA DELLA RELIGIONE
La funzione consolatoria che la religione in generale, e il cristianesimo in particolare, esplicano nei confronti della morte, esercita un indiscutibile fascino, così da suscitare il sospetto che essa sostituisca il valore di verità delle affermazioni sulle quali la fiducia pretende di trovare il proprio appoggio.
La speranza ed il piacere confusi con la verità
L'aveva già indicato Nietzsche con chiarezza; sulla sua scia lo ripropone Adorno:
Nietzsche ha formulato, nell'Anticristo, il più forte argomento non solo contro la teologia, ma anche contro la metafisica: che la speranza viene confusa con la verità; e che l'impossibilità di pensare, di vivere felici, o anche soltanto di vivere, senza un assoluto, non dice nulla a favore della legittimità di quell'idea. Egli confuta la cristiana «prova della forza»: la fede è vera, perché rende beati. Poiché sarebbe mai la beatitudine - per dirla tecnicamente: il piacere - una prova della verità?... La prova del piacere è una prova per il piacere e nulla più: e perché mai al mondo i giudizi veri dovrebbero procurare più piacere dei falsi e, secondo un'armonia prestabilita, trarre con sé, per forza di cose, sentimenti piacevoli?[2]
Già nei lavori giovanili, Marx aveva formulato qualcosa di simile, riconoscendo nel volgo una permanenza della paura animale, che però «appare qui nella forma della paura umana, nella forma del sentimento», così che nell'appello all'amore, si riafferma semplicemente la paura, che è la risposta egoistica di fronte alla minaccia della estinzione individuale. «Ci vien detto che la brama d'essere è il più antico amore; effettivamente il più astratto e quindi il più antico amore è l'amore di sé, l'amore del proprio particolare essere».[3]
L'affermazione della sopravvivenza per sé e per gli altri, in definitiva «... non vuol dire altro che l'individuo brama avere la coscienza della propria singola empirica esistenza. Il manto dell'amore era semplicemente un'ombra; il nudo empirico io, l'amore di sé, il più antico amore, è il nocciolo, e non ringiovanisce in alcuna forma più concreta e più ideale».[4]
Alla affermazione dell'immortalità dell'anima sopravviene una connotazione: l'attesa di una differenza qualitativa della vita futura rispetto alla presente. Ma «questa differenza qualitativa viene di nuovo ammantata di una finzione: la vita non viene elevata in una più alta sfera, ma viene traslata altrove. Essi si pongono quindi semplicemente come spregiatori della vita e niente di meglio hanno da fare, che ammantare semplicemente le loro speranze in una pretesa».[5]
L'al di là come strumento di controllo sociale
Siamo dunque messi in guardia dalla traduzione del piacere in verità, della speranza in pretesa, e dal ricercare nel sentimento la garanzia della realtà. Non sono però meno interessanti altre indicazioni.
In Marx, anzitutto, il possibile significato della continuità tra esistenza terrena e sopravvivenza di là della morte. Continuità dice non solo il permanere, ma il rafforzarsi, l'assolutizzarsi della realtà presente. Riconfermati restano dunque i canoni, i criteri, i principi della realtà presente, che il futuro non solo non compromette, ma garantisce nella loro assoluta, anche se appena ritardata, validità e fecondità. Il controllo sulla vita del singolo e dell'intera società lla trovato qui uno strumento possente. Marx contribuirà ad aprire la comprensione, anche nella specifica prospettiva della interpretazione della morte e della sua mistificazione ideologica nel mondo borghese e capitalista.
Che la coscienza cristiana abbia contribuito, con il richiamo ai novissimi (giudizio, morte, inferno, paradiso) e la prevalente sottolineatura del loro valore di minaccia, e di castigo, al controllo sociale, non abbiamo difficoltà ad ammetterlo. Così come ci pare da riconoscersi, che tale funzione il cristianesimo ha esercitato in maniera ridotta nel mondo moderno, borghese e capitalista, e progressivamente si va riducendo nel mondo industriale, grazie al prevalere di altre forme di controllo sociale, non più mediate dalla religione. Ma non è distinguibile la concezione cristiana da questa sua funzione di giustificazione della struttura capitalistica, e dalla disumanizzante ingiustizia che le è sottesa? Dal versante marxista la risposta giunge ancora corale, anche se non unanime:
Basandoci sulla dimensione di morte e di mancanza di futuro che il capitalismo sprigiona, la Chiesa introduce un ordinamento del mondo che non solo svaluta, ma impedisce la lettura delle vere cause della miseria sofferta. Sulla morte che il sistema produce - di fame, di miseria, di malattia, di repressione - fa planare la morte metafisica che sigilla ogni destino: unisce in un solo significato indistinto la morte umana inferta per mano dell'uomo e la morte ineluttabile che ci dà la natura. La religione non vive dell'incremento della vita ma della promozione della morte che le viene fornita, come preda, dai rapporti di dominazione capitalistica.[6]
Il lato debole di Nietzsche e Marx
Intanto si riaffaccia un motivo già apparso nel Nietzsche citato: il quadro determinante per la valutazione dei rapporti tra speranze e attese è in definitiva una generale «ontologia», così «essenzialmente connessa» alla speranza della quale vive il marxismo, e all'amor fati (amore del destino) che Nietzsche propone come supremo dovere dell'uomo nuovo. Così che una stessa contraddizione minaccia Marx e Nietzsche: quella che Adorno ha rimproverato a quest'ultimo:
Nell'amor fati, nell'esaltazione di ciò che è più assurdo, la rinuncia si umilia davanti al dominio. Alla fine la speranza, come si sottrae, negandola, alla realtà, è la sola figura in cui si manifesta la verità. Senza speranza l'idea della verità sarebbe difficilmente concepibile, ed è la falsità capitale spacciare per verità l'esistenza riconosciuta come cattiva, solo perché è stata una volta riconosciuta. In questo, piuttosto che nel contrario, è il delitto della teologia, contro il quale Nietzsche intentò il processo, senza mai pervenire all'ultima istanza. In uno dei passi più forti della sua critica, egli ha accusato il cristianesimo di mitologia. «Il sacrificio espiatorio, e nella sua forma più raccapricciante e barbarica, il sacrificio dell'innocente per i peccati dei colpevoli! Quale orrendo paganesimo!» (Afor. 41). Ma l'amore del destino non è che la sanzione assoluta dell'infinità di questo sacrificio.[7]
O forse il marxismo, per fuggire la connivenza con Nietzsche, è costretto ad accostarsi pericolosamente al cristianesimo? Il cristianesimo deve comunque affilare bene le sue armi ed affinare le sue proposte, se non intende cadere miseramente sotto i colpi della critica. E la miseria della caduta sarebbe non tanto la perdita di un confronto rilevante sul piano storico- culturale, bensì lo smarrimento da parte del cristianesimo della possibilità di presentarsi come proposta plausibile per l'uomo del nostro tempo, e di rendere dinanzi a lui ragione della speranza che testimonia.
La critica alla società borghese nel nome della caducità della vita
La chiesa ha colto, sebbene in maniera confusa, lo spirito anticristiano che animava il movimento borghese; ma la mancata chiarezza ebbe conseguenze funeste: troppo spesso la opposizione si limitò allo sforzo di garantire la sopravvivenza del passato, in un atteggiamento conservatore e restauratore. Oppure, senza assumere il peso di un concreto progetto e di una costruzione del mondo, si limitò a far valere una sorta di riserva nei confronti della realtà mondana, della quale ventilava o proclamava la caducità, la vanità, la corruzione. La morte acquistava in questo contesto tutta la forza negatrice e contestatrice; ma le intenzioni perdevano poi efficacia per la mancanza di un progetto alternativo.
«Nulla assicura e prova meglio la sovranità di Dio e il suo dominio su di noi come la morte... Essa spezza, schiaccia, distrugge, annienta ogni cosa; grandezza, potenza, elevazione, re, imperatori, sovrani, grandi e piccoli della terra, nessuno può difendersene».[8]
L'espressione è giustamente paradigmatica: della contrapposizione netta che la chiesa assume nei confronti della cultura borghese e dunque della assolutizzazione del mondano. Ma è anche paradigmatica dello spostamento che il concetto cristiano della morte va subendo, e dello sviamento che si produce.
Solo l'al di là appare qui al cristiano luminoso; la esistenza mondana è tenebra e priva di consistenza; la storia è consegnata irrimediabilmente alla negatività: non è più storia sacra, non è e non può essere storia salvifica. Sua unica possibilità è quella di far luogo ai segni della salvezza sacramentale, e luogo dove perde la sua compattezza, dove si infrange e si frantuma. Lì, «l'altro dalla storia» può aprirsi un varco e affermarsi; ed affermandosi negare la storia e la vita. Sommamente nella morte!
Il disinteresse borghese per la morte
All'argomento della morte la società borghese non ha saputo opporre ragioni efficaci, ma solo l'ostentazione del disinteresse, l'aggiramento: «C'è un mezzo ben semplice per guarire dalla paura della morte: siate savi o sforzatevi sinceramente di diventarlo. Non temerete più la morte...».
E se si chiede in che consista la saggezza, si è rinviati alla mancanza di timore di fronte alla morte, o al vivere come se la morte non si desse. Non esprime forse la generale tendenza l'Encyclopédie, quando scrive, alla voce «mort», continuando il passo precedente: «Dacché la morte è altrettanto naturale della vita, perché averne tanta paura?... Gli uomini temono la morte come i bambini le tenebre, soltanto perché la loro immaginazione è stata atterrita con fantasmi tanto vani quanto terribili».[9]
In ogni caso, il tentativo di superamento della morte in questa direzione non fu portato a termine; il borghese preferì praticare altre strade, che furono talvolta il confronto eroico con la morte stessa, o l'assolutizzazione della morte fino al nichilismo, non solo sul piano delle affermazioni teoretiche, ma anche nello sforzo tragico di renderlo progetto di un nuovo mondo, come documentano gli orrori del nazismo.
Più spesso si tentò semplicemente la fuga: il discorso svolto sulle inibizioni comunicative della morte ci ha già presentato il fatto e i suoi esiti. Così come abbiamo già intravisto,che la morte, o almeno determinate sue forme, sono essenziali e funzionali alla società borghese.
NOTE
[1] Cit. in Thomas, o.c., p. 246 s.
[2] Th. W. Adorno, Minima moralia, Torino 1979, n. 61, pp. 107 s.
[3] K. Marx, Sulla religione (a cura di L. Parinetto), Milano 1972, p. 114.
[4] K. Marx, o.c., p. 115.
[5] K. Marx, o.c., p. 117; cf pp. 54 ss.
[6] L. Rozitchner, cit. in K. Marx, o.c., p. 55 ss.
[7] Th. W. Adorno, o.c., pp. 108 ss.
[8] Bossuet, cit. in Fuchs, o.c., p. 70.
[9] Cit. in Fuchs, o.c., p. 71.