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    Strategie in difesa dalla morte



    Giampiero Bof

    (NPG 81-08-13)


    Le considerazioni finora svolte ci hanno mostrato la correlatività dei termini morte e vita, e il loro reciproco condizionamento; la comprensione della vita orienta in maniera decisiva la comprensione della morte; e questa, a sua volta, ha peso determinante nella valutazione del senso della vita. Al punto che non pare esagerato affermare che proprio la morte ne decide il senso.
    E non solo a livello teorico, nella interpretazione; non meno delicato è infatti il problema del modo e della misura coi quali la interpretazione della morte reagisce sugli atteggiamenti e sui comportamenti assunti durante la vita, stimolando o spegnendo la volontà di vivere, e le energie morali nella costruzione del mondo, nella collaborazione sociale, nello sviluppo di sé. Ne fanno un uomo aperto e attivo, oppure lo rendono aridamente ripiegato su di sé, in una nullificante inerzia.

    LA PRETESA DI DARE SENSO ALLA MORTE

    Anche i discorsi che si intrecciano a proposito della morte sono lontani dal porsi sul piano di una serena e neutrale oggettività: forse il senso della morte e della vita che vogliono proporre è, in definitiva, quello che si vuol imprimere alla vita e alla morte medesime.
    Ma basta questo per sottrarre l'uomo alla illusione di sapere perché deve morire, o è la forma più scaltrita della stessa illusione? Certo, a questo voler dar senso si riducono i progetti di vita che assumono di volta in volta, come obiettivo, la passività, la rivolta, l'impegno nell'assurdo, o anche il semplice impegno sociale, politico, religioso. Sempre aperto resta il problema che Camus ha espresso, in una formula molto stimolante: «Io continuo a credere che questo mondo non abbia un senso superiore, ma so che in esso qualcosa ha senso, ed è l'uomo perché è il solo essere che esige di averne».[1]
    Siamo ancora ricondotti all'essere dell'uomo, alle caratteristiche con le quali esso si presenta, alla sua origine, alla sua evoluzione, alla sua fine. Fine di questo essere è appunto la morte. Ma qual è quest'essere?

    Spaesamento radicale e ricerca di sicurezza

    L'uomo si presenta nella molteplicità dei suoi aspetti e delle sue dimensioni come un essere estremamente improbabile. Improbabile è la configurazione di quella infinitesima parte dell'universo che denominiamo terra; improbabile è il sorgere in essa della vita e, dalla vita, della specie umana. La improbabilità sembra ancora accentuarsi nel costituirsi dell'individuo minacciato poi da mille pericoli nella sopravvivenza. Questo ed altro ancora s'è raccolto tradizionalmente nel discorso sulla contingenza dell'uomo.[2]

    Je m'en vay chercher un grand peut-etre (F. Rabelais)

    Ma ancora nella sua esistenza sociale l'uomo è di continuo incalzato dalla sostituibilità, qualunque sia il genere delle sue prestazioni. La stessa definizione dei ruoli dice la surrogabilità del singolo da altri uomini, o addirittura dalle macchine. Anche quando tutto questo non è pensato, è tuttavia vissuto come radicale spaesamento, onde l'uomo tenta di salvarsi, non solo mediante interventi tecnici e pratici, volti al dominio della natura e alla trasformazione della società; ma anche attraverso procedimenti linguistico- culturali di legittimazione e di razionalizzazione. Con la pretesa di forzare il limite della contingenza, nella direzione di una giustificazione che s'afferri al necessario. È la meta cui tendono anche le concezioni religiose; né possiamo misconoscere che lo stesso cristianesimo può facilmente esser reso funzionale alla soddisfazione di questa aspirazione. Dobbiamo insistere sulla positività della speranza cristiana, che esercita anche una funzione di consolazione. Ma altro è la sostituzione della speranza con la sicurezza che pretende di giustificarsi sul dominio che si vuol esercitare sulla verità; sostituzione non assente nella tradizione cristiana. È il rifiuto del dubbio, della precarietà dell'esperienza, delle possibilità e dell'impegno al rinnovamento, sui quali può ergersi la speranza, superandoli, non distruggendoli.
    Del resto la insistenza sulla caducità dell'uomo, anche nella storia del cristianesimo ha rivelato una profonda ambiguità. Due diversi esiti si sono posti in chiara evidenza: l'uno è quello della rasserenante e a volte evasiva apertura alla trascendenza; l'altro è quello dell'angoscia del giudizio, e poi del lugubre, dell'orrido, che si esprime nell'assunzione a simboli il corpo putrefatto, lo scheletro, la danza macabra.
    Ma non si discopre in questo secondo esito - che ha caratterizzato interi secoli della nostra storia - una tendenza, almeno, a interpretare la caducità dell'uomo, la sua vita e la sua morte nel quadro della immanenza mondana? Se così fosse apparirebbe decisivo il generale quadro interpretativo, quello della immanenza, nel quale la caducità resta inserita e ultimamente definita. Ma allora essa, lungi dal presentarsi coerente con la concezione cristiana, ne rappresenterebbe piuttosto una sottile, ma irriducibile avversaria.
    La insistenza sulla contingenza dell'uomo ha intanto favorito un altro acquisto, che possiamo solo richiamare: la fine dell'io consegnatoci dal pensiero moderno e che ha trovato classica espressione nel «cogito» cartesiano: io sdegnoso, orgoglioso della proprie spiritualità, presuntuosamente autonomo e autosufficiente, e intenzionalmente chiuso in se stesso. La stessa morte sembrava sfiorarlo appena, senza intaccarlo, senza colpirlo: forse ne liberava l'originario splendore, che l'inserimento nel corpo aveva offuscato.

    L'uso ideologico: uguaglianza di fronte alla morte

    L'uomo umiliato e oppresso durante la vita potrà almeno sentirsi sullo stesso piano dell'oppressore almeno nella morte? Oppure la diseguaglianza, il privilegio, la discriminazione giungeranno fin là, e s'affermeranno anche là dove ogni affermazione pare venir meno? Si dispiegherà finalmente una superiore giustizia, che compensi l'oltraggio sofferto in una esistenza iniquamente vilipesa; oppure dobbiamo consegnare definitivamente il reale a quelle ferree leggi, che fanno dell'uomo un padrone o uno schiavo?
    Le domande s'affollano ed urgono: troppe e troppo profonde e lancinanti per attenderci che quella risposta, in apparenza semplice sino alla ovvietà, non sottenda altro che il suo significato immediatamente trasparente.
    Intanto acquista diverso significato la eguaglianza di fronte alla morte, e la eguaglianza di fronte a Dio nella morte: Dio, giusto giudice, che retribuisce secondo le opere di ciascuno, non è la morte che distrugge tutte le costruzioni mondane, rivelandone la radicale vanità.
    Ma l'eguaglianza di fronte alla morte non si dà, in ogni caso, fin che c'è vita, fin che è possibile l'agire personale o sociale. Del resto anche dopo la morte, le immaginazioni collettive che hanno congetturato una qualsiasi forma di sopravvivenza o di permanenza nell'essere, con convinzione non minore hanno provveduto a diversificare la sorte dei trapassati, non solo in rapporto ad istanze trascendenti, e alla eventuale responsabilità del defunto, secondo determinate concezioni di valori, doveri, retribuzioni, ecc., ma spesso sul fondamento di una semplice continuità, risultante dalla proiezione dell'al di qua nell'al di là; o dalla possibilità dei viventi di intervenire sulla vicenda cui debbono soggiacere ancora i morti. Non hanno anche questo significato le infinite forme di riti funebri, di offerte, sacrifici, preghiere, indulgenze e altro ancora?

    LA RIDUZIONE DELLA MORTE A FATTO NATURALE

    Nella sua opposizione al pensiero mitico e ai modelli secondo i quali esso interpretava la morte, la riflessione filosofica e scientifica ha tentato di risolvere la morte in un «accadimento naturale D. Con tale formula intendiamo indicare la tendenza a privare la morte di quelle dimensioni e risonanze che la costituiscono evento decisivo dell'esistenza umana, riconosciuta nella sua irriducibile specificità, così da risolvere la singolarità dell'evento nel processo generale della realtà. In questo senso va compresa una brillante parafrasi di A. Philipe: «La morte? Un appuntamento ineluttabile ed eternamente mancato, dato che la sua presenza significa la nostra assenza. Essa si installa nel momento in cui noi cessiamo di essere. O lei o noi. Possiamo in piena coscienza andarle di fronte, ma possiamo conoscerla non fosse che per l'istante di un baleno?».[3]

    La naturalizzazione della morte e la riduzione del corpo a semplice oggetto

    Ma il concetto di morte naturale acquista le sue più precise e per noi interessanti connotazioni quando si ripropone all'interno della tradizione cristiana sulla quale ha profondamente influito la concezione della morte come «ultimo nemico», da un lato, e dall'altro, la possibilità di vedere anche in essa il messaggero di Dio: la «sorella nostra morte corporale» del Cantico delle creature.
    La naturalizzazione della morte è una delle caratteristiche espressioni del naturalismo rinascimentale.[4] Immediatamente essa non comporta affermazioni che contraddicano il destino ultraterreno dell'uomo. Ma il recupero della natura apre l'adito a due opposte tendenze.
    In quanto la morte è naturale, si riallaccia alla nascita, e viene a rappresentare una peculiare riduzione della vita, non solo in senso cronologico, ma soprattutto, in quanto la priva della specifica unità che le proveniva dal fine, che ora le viene negato.[5]
    Quando invece la naturalizzazione della morte non sia rifiuto di riconoscere all'uomo un valore sopramondano - ed è la seconda tendenza -, essa conduce ad una riaffermazione del dualismo antropologico di anima e corpo, per il quale la morte colpisce l'uomo, ma non lo domina totalmente. Anzi, in quanto accadimento naturale, essa resta estranea alla sua profonda identità.
    Come fatto naturale, la morte oppone un limite alla piena umanizzazione dell'uomo; come fatto umano, essa invece non permette la piena integrazione dell'uomo nella natura, alla quale in parte lo sottrae. In questa linea si prepara la riduzione del corpo e semplice oggetto, alla quale darà piena giustificazione il dualismo metafisico e antropologico cartesiano.[6]

    L'accettazione della norma biologica e il diffondersi della «morte violenta»

    Di fronte al processo naturale l'intervento dell'uomo è certo possibile ed auspicabile, ma deve esser almeno finalizzato a permettere alla natura di esplicare le sue potenzialità. I ritmi biologici, ai quali ci si deve riferire nello stabilire la naturalità della morte, acquistano insensibilmente anche valore normativo: morte giusta appare solo quella che è interamente da essi spiegabile. Se riappare in questo contesto la dialettica che vede opposte natura e cultura, essa propone la positività della cultura quale aggiramento strategico della natura, della quale si mettono a profitto le energie per superare i limiti e sconfiggere le forze distruttrici.
    Il carattere problematico della «naturalità della morte» appare già in questo: quel che è detto naturale, in effetti è il meno evidente; più ancora, essa mal s'addice alla mentalità scientifica odierna, così restia a riconoscere nel dato naturale qualsiasi elemento o fondamento normativo.
    Ma intanto è emerso un nuovo acquisto: il rapporto tra morte e società, all'interno del quale assume rilievo il concetto di morte naturale. È difficile disconoscere nella affermazione del carattere insuperabilmente violento della morte una funzionalità sociale, che permette di integrare la violenza esercitata ai fini più diversi, sino all'omicidio sistematico.
    È anche possibile che una più facile accettazione della morte violenta sia in connessione con la rimozione della morte naturale, la quale appare non sfuggibile, non evitabile, come lo è invece quella che si riconduce a cause esterne e occasionali.
    Ma questo dice solo la ambivalenza della cosiddetta morte naturale, la quale gioca sul suo carattere utopico e si intreccia colla sua funzione ideologica. Non è un sintomo indicativo che il concetto di morte naturale si sia sviluppato in parallelo con il dominio sempre più gravoso esercitato dalla società sulla vita e sulla morte dell'uomo? L'ambivalenza, peraltro, dice la non necessità di questa funzione ideologica.

    LA INIBIZIONE COMUNICATIVA E LA RIMOZIONE

    Quello che separa con un segno netto e profondo la morte dell'uomo da qualsiasi altro finire è la consapevolezza che l'uomo ha della propria morte. La consapevolezza può assumere le figure più diverse, e sempre si presenta con intonazioni singolari; ma nella sua struttura soggiace a tutti gli orientamenti autenticamente umani, ora apparendo come speranza o timore, ora come sereno andare incontro o fuga, altra volta come ricerca di chiarezza o di oblio.

    Consapevolezza della morte e permanere dei tabù

    La comprensione dell'esistenza è intrinsecamente legata al senso della morte, e mette in luce la contraddizione nella quale l'uomo si dilacera tra l'inarrestabilità del procedere del suo essere verso la morte - la naturalità della morte - e il radicale rifiuto della morte.
    La morte non solo non è riducibile ad accadimento biologico, rispetto al quale non apparirebbero tratti capaci di differenziare l'uomo dall'animale; ancora ((la morte introduce fra uomo e animale una spaccatura ancor più sorprendente di quanto non lo sia quella prodotta dall'utensile, dal cervello e dal linguaggio».[7]
    La dimensione psichica dell'uomo appare ora determinante: in essa prendono consistenza i fenomeni che caratterizzano l'atteggiamento e i comportamenti nei confronti della morte. In essa si definiscono tutte le reazioni emotive e i turbamenti dai quali trae origine la ricchezza delle forme espressive, che costituiscono quello che potremmo denominare il mondo della morte. In essa infine si elaborano tutte le interpretazioni della morte.
    Se la struttura sociale, la situazione storica, gli orientamenti culturali influiscono sulla determinazione delle immagini e della realtà vissuta della morte, questo accade soprattutto in forza della loro capacità di cristallizzare in forme psichiche.
    Una esplorazione della realtà psichica della morte si presenta peraltro impresa ardua, al punto che appare plausibile l'affermazione che della psicologia della morte non si sa nulla.[8]
    L'analisi psico-sociale un po' più affinata riesce a dire di più sino a rendere evidente come i tentativi di razionalizzare la morte, la sua progressiva burocratizzazione, la sua laicizzazione tradiscono il perseverare di timori e di tabù, che la coscienza non può o non vuole riconoscere, e che spesso sono «le scappatoie inconsce, gli alibi nevrotici destinati a sottrarlo all'angoscia della morte».[9]
    Potremmo ricordare ancora mille sintomi: dagli sforzi di abbellire i cadaveri, sui quali prosperano nuove industrie, alla già ricordata negazione della morte di stampo epicureo, sino alle soluzioni più sottili e scaltrite offerte dalla psicologia contemporanea: tutto concorre nel confermare la tendenza non estirpabile della nostra psiche, ad addomesticare la morte, a negarla, a vincerla mediante l'evasione in un qualche al di là, o anche nello spazio dell'immanenza mondana.

    Il ripiegamento individualistico davanti alla morte

    Una chiarificazione psicologica della morte deve tuttavia procedere tenendo conto di alcune ulteriori distinzioni. Altro è, anzitutto, il rapporto consapevole con il mondo della morte; altro è l'ambito del rimosso, o di quello che alla coscienza riflessiva non è giunto, o di quello che in essa si trasfigura e si mistifica. Quando poi si dice mondo della morte, dobbiamo ancora distinguere la esperienza della morte dell'altro, la esperienza della nostra vita mortale, la previsione o l'anticipazione della nostra morte.
    La morte dell'altro appare con una valenza psicologica quanto mai variabile, in rapporto a diversi fattori personali, familiari, ma anche sociali e culturali; si pensi alla indifferenza degli uomini di certe culture per la morte del nemico, dello straniero, del bambino, della donna; ma ancora alle diverse reazioni per la morte di un figlio, all'interno della nostra tradizione, in una famiglia patriarcale ad alta natalità, o nella attuale famiglia nucleare. Le esperienze recenti di guerra, di genocidi, dei campi di concentramento; il timore sollevato dallo sviluppo del potenziale militare e bellico; le catastrofiche previsioni ecologiche, ci hanno assuefatto ormai ad una nuova immagine: quella della morte di massa. Le rappresentazioni e i sistemi nei quali tentiamo di interpretare o di razionalizzare la morte individuale qui si sfaldano e mancano clamorosamente il segno: anche il linguaggio, misurato da sempre sulla morte individuale, tradisce tutta la limitatezza delle sue prospettive, e vien meno: la morte di massa non può essere detta.[10] Non si offre come scappatoia all'orrore che essa desta nel nostro animo la considerazione che comunque io non muoio che la mia morte?
    E una forma del ripiegamento su di sé, della chiusura nella propria individualità, frutto caratteristico della esaltazione dell'individuo nella società borghese; un'altra forma di ripiegamento si coglie nel linguaggio che esprime l'accadimento di una morte altrui: si insiste, infatti, nel sottolineare che la morte è un abbandono, da parte del defunto, di quella che era la sua cerchia vitale; è un suo venir meno, o piuttosto è una perdita subita da questa cerchia: non perde la vita chi muore, ma perde il morto colui che vive!
    Simile orientamento può incidere sui modi di integrazione della morte nella vita sociale e personale: certo denuncia la tendenza del sopravvissuto a ripiegarsi su di sé, piuttosto che a rivolgere la propria attenzione al defunto, al significato che ha per lui la sua morte, agli esiti che a lui, mediante la morte, si aprono.
    In determinati casi può presentarsi ardua la sostituzione del defunto nel quadro nel quale era inserito; ma quando questo non accada la morte viene a perdere qualsiasi rilievo. Non è forse questa la ragione per la quale è immensamente più viva l'emozione per la morte di una qualche personalità che per quella di gruppi numerosi di persone o di intere popolazioni? Né va dimenticato che la mancata rilevanza della morte può favorire la riduzione dei singoli a funzioni o a numeri: il «defunctus» è semplicemente colui la cui funzione è venuta meno.

    Moderne forme di scongiuro

    Il ripiegamento su di sé agisce naturalmente sul modo con il quale il sopravvissuto tenta di contrastare la morte, o almeno di non soggiacere alle sue conseguenze. E interessante da questo punto di vista l'istituzione delle assicurazioni sulla vita - ma anche delle assicurazioni per la vecchiaia, o per quella morte sociale, che è il pensionamento - e più dalle connotazioni emotive che attorno ad esse si addensano.[11]
    La loro complessità è tale che non sono strettamente legate alla volontà di ovviare alle conseguenze della morte del contraente, o misurate su una valutazione obiettiva della pericolosità della situazione; piuttosto appaiono come forma di scongiuro della morte stessa, e di difesa contro il timore che essa incute.
    Dalla districazione di questi complessi stati emotivi risulta il terrore profondo, di là della misura della consapevolezza, della morte; ma anche la difficoltà ad accettarne la effettiva possibilità, la convinzione della improbabilità della propria morte, la incredulità di fronte ad essa, nonostante la chiara consapevolezza che «tutti gli uomini devono morire». Non si tratta soltanto della volontà di pensare ad altro, di disattenzione, ma almeno di una effettiva sopravvalutazione delle proprie possibilità di sopravvivenza. «Gli esseri umani in generale sanno di dover morire, ma la maggior parte di essi attualmente sembrano non crederlo. Quando pensano la morte, generalmente la pensano soltanto come soluzione dei problemi della propria vita».[12]

    La inibizione comunicativa e la rimozione psichica

    La complessità, sino alla contraddizione, dell'atteggiamento psichico di fronte alla morte è riconducibile a motivazioni molteplici; ma in generale può essere intesa come il frutto della opposizione tra la presenza psichica della morte e la tendenza alla sua rimozione.
    La presenza psichica della morte è già riconosciuta nella psiche infantile; anche se in forma preconcettuale non è meno vera meno ricca di influenze sui comportamenti reattivi del bambino: sogni, angosce e turbamenti, con l'ampio corteggio di tabù e di rituali esorcizzanti, ne sono effetti e sintomi.[13]
    Sembra si debba parlare di una relativa originarietà della presenza della morte nella psiche umana, contro la tesi di una sua tardiva induzione. Se l'orrore della morte è legato anche a cause esterne e sociali, ad esse va attribuito certo il rafforzamento, la determinazione dei modi espressivi di questo orrore, non la sua creazione. L'intervento della società si innesta su quella presenza, che può sviluppare, e anche sfruttare agli scopi più diversi, e soprattutto a quello della conservazione sociale. Né contrarie a questo sviluppo e sfruttamento sono quelle tipiche reazioni di fronte alla morte che già abbiamo accennate: la fuga, la inibizione, la rimozione.
    S'è parlato di una inibizione comunicativa di fronte alla morte; inibizione che allunga le sue propaggini nei discorsi circa la malattia, la vecchiaia, e l'età.[14] Ricerche attendibili sembrano chiarire, almeno in parte, l'origine di questa inibizione comunicativa: «Se le norme generali di comportamento esigono nell'interazione un atteggiamento privo di angoscia, per quanto possibile sovrano e maturo, la contraddizione tra questa esigenza da un lato, e l'angoscia e l'eccitazione endopsichica provocate dalla comunicazione sulla morte dall'altro, si tradurrà nella tendenza a sfuggire l'argomento».[15]
    W. Fuchs, peraltro, mette in guardia da interpretazioni semplicistiche dell'inibizione comunicativa, e del timore della morte. Questa infatti è oggetto di un timore che nelle ricerche appare correlativo ai modi del morire; donde egli conclude: «Se... l'angoscia di morte non è una variabile omogenea, perché può riferirsi a contenuti diversi, allora diventa problematico anche parlare della inibizione comunicativa di fronte alla morte».[16]
    Più delicato si fa ancora il problema della rimozione, quando la si intenda in senso rigoroso, in riferimento ad un oggetto psichico, e non invece ad un fattore del mondo esterno, nei confronti del quale dimenticanza, trascuratezza e rifiuto non possono essere considerati rimozione.
    Ma qui, è chiaro, si innesta il problema di una più precisa determinazione della morte, dell'essere mortali, e dell'angoscia che ne proviene.[17]

    PER UNA PIENA STORICIZZAZIONE DELLA MORTE

    Non possiamo affrontare questo tema, né altri - quali il processo di razionalizzazione, il rapporto tra morte e concetto di individuo, il nesso tra individuo e società, solo per nominarne alcuni - che pure condiziona una interpretazione articolata del nostro argomento.
    Quel che abbiamo detto ci pare tuttavia sufficiente per comprendere quanto sia generico un discorso sulla morte ricondotta ad accadimento naturale o a fatto universalmente umano. Si rivela invece la necessità di una interpretazione storica della morte; e non solo per il fatto che nelle diverse situazioni storico-culturali essa è interpretata diversamente, ma anche perché le diverse interpretazioni e la realtà esterna, penetrano nella esperienza concreta, contribuiscono a costituirla: intendiamo l'esperienza della vita e, in quanto è possibile, della morte medesima.
    Nella stessa prospettiva storicizzante è possibile superare un ulteriore limite nella considerazione della morte, a causa del quale limite sfuggono sia la varietà delle morti, sia soprattutto le molteplici forme di produzione della morte. Importante è una possibilità che qui si offre. Da una parte l'aprirsi di un varco per la comprensione della differenza tra la morte affrontata in una società protesa all'affermazione della vita, al superamento della negatività della morte, grazie anche all'efficacia dei simboli che accolgono nel loro alveo non solo l'accadimento della morte, ma tutta intera l'esistenza, e permette di stabilire un nesso tra vita e morte. Dall'altra parte la morte in una società nella quale l'individuo è chiuso in se stesso, e rinviato, nell'impossibile sforzo di anticipare la propria morte, ai propri fantasmi, non socialmente legittimati, e perciò tanto più carichi di orrore.[18]
    Di qui il precisarsi del nostro compito: definire la morte all'interno della nostra società, degli orientamenti della nostra cultura. I tratti essenziali del contesto storico-culturale appaiono allora condizionanti; e non solo per articolare una adeguata intelligenza della morte, ma più per orientare l'azione e la esistenza. Ogni intervento nel nostro contesto sociale, conforme o difforme rispetto alle tendenze dominanti, pone inevitabilmente un fattore nuovo, che si integra nel fascio dei possibili ed effettivi rapporti con la morte; e può presentarsi come riaffermazione dell'indirizzo vigente, o come recupero di elementi arcaici, devitalizzati, oppure come apertura di possibilità inedite.[19]


    NOTE

    [1] Cit. in Thomas, o.c., p. 439, cf pp. 438 ss.
    [2] Cf W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, Torino 1973, pp. 82-98.
    [3] Cit. in Thomas, o.c., p. 260.
    [4] Nel medioevo il corpo non solo era sacro, ma quasi godeva della considerazione di una persona vivente: aveva personalità giuridica, così da poter essere citato e da citare in giudizio. La nuova mentalità rinascimentale, il suo naturalismo, si esprimono nella naturalizzazione della morte.
    [5] W. Fuchs, o.c., p. 57-58.
    [6] Sintomo indicativo è l'accettazione progressiva della dissezione dei cadaveri, la quale, ritenuta ancora dall'umanista parigino Gerson «una profanazione sacrilega, un'inutile crudeltà esercitata dai vivi a danno dei morti», si diffonderà poi sino al momento della sua celebrazione nella «Lezione di anatomia del dottor Tulp» del Rembrandt (1632). (Cf Illich, o.c., pp. 203-204).
    [7] E. Morin, o.c., pp. 50-53.
    [8] Flugel, cit. in Morin, o.c., p. 17.
    [9] M. Colin, cit. in Thomas, o.c., p. 77.
    [10] Cf Fuchs, o.c., p. 197s.
    [11] Fuchs, o.c., pp. 185 ss.
    [12] Cit. in Fuchs, o.c., p. 131, cn. 41. Cf pp. 103 s.
    [13] E. Morin, o.c., pp. 24ss.
    [14] W. Fuchs, o.c., pp. 28ss.
    [15] W. Fuchs, o.c., p. 105.
    [16] W. Fuchs, o.c., p. 107.
    [17] W. Fuchs, o.c., pp. 108 ss.
    [18] L.V. Thomas, o.c., p. 205.
    [19] Per alcuni aspetti e valori che stanno all'origine dello spirito borghese, e che nella loro attuale figura segnano la problematica della morte nel mondo contemporaneo si può vedere: E. Roggero - G. Bof, Chiesa e modernizzazione. Torino 1980.


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