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    Per una valutazione delle esperienze: alcuni criteri



    Carmine Di Sante

    (NPG 1981-9-25)


    La preghiera è la caratteristica fondamentale di tutte le religioni: anche della cristiana. Incontrare Dio, entrare in comunione con il suo Mistero, penetrare nei suoi segreti, scoprire il suo fascino e lasciarsi colmare dalla sua pienezza è stata ed è l'ambizione di tutti i credenti. Per questo non si può non restare «invidiosi» ed ammirati di fronte ai tanti che, sia individualmente che in gruppo, vanno riscoprendo il valore della preghiera. Le tre testimonianze riportate documentano i diversi modi e le fasi attraverso cui dei cristiani, la maggior parte giovani, vivono ed operano questa riscoperta: lettura della Parola di Dio, commento e spiegazione, silenzio e assimilazione, meditazione e invocazione, canti e strumenti musicali... Questi alcuni degli elementi che ricorrono come delle costanti.
    Se di fronte ad ogni esperienza umana bisogna accostarsi con delicatezza ed amore, con l'atteggiamento della compartecipazione piuttosto che con quello della valutazione, questo vale ancor più di fronte all'esperienza religiosa, che coinvolge la propria soggettività a livelli di ulteriori profondità. Ciò non significa, ovviamente, che di fronte all'esperienza religiosa, come di fronte a qualsiasi altra esperienza, non si debba esercitare una certa forma di attività critico-razionale. Esperienza e lettura riflessa dell'esperienza sono due momenti inseparabili che si integrano e si rettificano reciprocamente. È per questo che anche rispetto alle tre sopracitate esperienze di preghiere può essere legittimo e proficuo avviare una riflessione razionale: non per giudicare ma per meglio comprendere e realizzare la preghiera cristiana.

    IL CONTESTO CRISTOLOGICO DEL GIUDIZIO

    Si è già accennato all'universalità della preghiera, quale costante di tutte le religioni. Eppure la preghiera cristiana difficilmente può essere compresa e interpretata alla luce di presunte caratteristiche di una preghiera universale.
    Infatti Gesù (e, prima ancora, i profeti) relativizza la stessa preghiera rivelando, in tal modo, la possibilità di un suo nuovo diverso significato.
    Sono sufficienti tre testi: Mt 25,31-46 (la parabola sul giudizio finale nella quale, tra le pratiche che introducono nel Regno escatologico, non si fa cenno alcuno della preghiera), Mt 6,5-8 («... Quando pregate non fate come i pagani, che pensano di essere esauditi dall'abbondanza di parole... Il Padre vostro sa già di che cosa avete bisogno prima ancora che voi glielo chiediate») e Mt 7,21 («Non chiunque mi dice "Signore! Signore!", entrerà nel Regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»).
    Questi testi significano almeno tre cose di notevole importanza che non andrebbero mai dimenticate quando si prega ma soprattutto quando si riflette sulla preghiera:
    - la preghiera non è, di per sé, un valore assoluto; non è essa che introduce nella pienezza escatologica ma l'«aver dato da mangiare agli affamati, l'aver vestito gli ignudi», ecc. Più importante dalla preghiera - si evince dal testo della parabola matteana - è la disponibilità concreta verso i fratelli bisognosi;
    - la preghiera cristiana non è uno strumento di pressione su Dio; questi ama l'uomo e lo ricolma delle sue grazie indipendentemente dalla consapevolezza dell'uomo e delle sue richieste; come il sole riscalda l'erba e fa crescere le piante senza che queste abbiano a chiederne i raggi, così Dio agisce con gli uomini, suoi figli; - il criterio di validità o meno della preghiera cristiana non può essere individuata in se stessa, nella qualità della sua formulazione o nello spessore dei suoi contenuti: «non chi dice "Signore, Signore!", ma chi fa la volontà del Padre mio». Il criterio valutativo della preghiera cristiana va individuato nella sfera dell'agire, dell'operare. Ciò significa che il corretto metro eucologico (eucologico = che riguarda la preghiera) è, in realtà, meta-eucologico. Il senso di queste pagine è di accennare ad alcuni di questi dati meta-eucologici alla cui luce giudicare (krìnein) gli stessi dati eucologici, comprese le tre testimonianze sopracitate. «Giudicare» non significa dire se i cammini fatti e le tecniche impiegate sono indovinati o sbagliati (dal momento che questi sono sempre e tutti relativi, cioè da riferirsi a, dalla radice latina referre) ma ricondurli entro un adeguato contesto cristologico che fa emergere il loro significato e le loro eventuali ambiguità.
    Accenno a quattro criteri: ascolto, abbandono, accoglienza, prassi messianica. Non hanno la pretesa di essere esaustivi ma indicativi, sia quanto all'ordine che quando al significato. Questa suddivisione ha una funzione pratica. I singoli aspetti si integrano reciprocamente quali momenti di un unico processo antropologico-spirituale.

    STRUTTURA DELL'ASCOLTO


    Il bisogno di «ascolto» è sottolineato, con insistenza, da tutte e tre le esperienze riportate, e ad esso si viene incontro attraverso la lectio divina, la proclamazione della Parola, seguita da congrui periodi di silenzio.
    Sull'importanza dell'ascolto non può esserci dubbio: esso costituisce la struttura portante dell'esperienza religiosa biblica: «shemà Israel» (ascolta, Israele) è l'imperativo riassuntivo di Jahveh al suo popolo.
    Il fatto che nello spazio eucologico si avverta sempre più l'esigenza di riscoprire la centralità dell'ascolto attraverso la valorizzazione e l'ampliamento di alcuni degli spazi rituali (lettura più estesa dei testi biblici e tempi più prolungati per la riflessione e l'assimilazione) è più che positivo e costituisce un vero correttivo all'iperverbalismo invadente e mortificante di molte delle nostre celebrazioni ufficiali.
    Ma perché il momento rituale dell'ascolto divenga simbolicamente efficace deve rimandare oltre se stesso, alla struttura antropologica dell'ascolto.
    L'ascolto rituale è memoria attualizzante di quello antropologico; la sua funzione è di risvegliare, attivare e potenziare quell'atteggiamento di fondo che è il presupposto dell'esperienza religiosa adulta e senza il quale lo stesso ascolto rituale resterebbe ambiguo e improduttivo. Come si caratterizza questa struttura antropologica dell'ascolto dalla quale l'ascolto rituale deriva e alla quale deve costantemente rinviare?

    Una definizione di ascolto

    Con una definizione sommaria si può dire che l'ascolto, nel suo dinamismo psico-antropologico, è un'attività ricettiva della persona adulta nella quale l'io bambino è stato depotenziato della sua sete di onnipotenza ed ha lasciato spazio all'altro di cui ne coglie la diversità, ne ascolta le provocazioni e ne rispetta le esigenze. L'ascolto è, quindi, apertura e disponibilità a tutto quel mondo inesplorato e senza confini che è il nonio; il nonio che abbraccia ogni altro con cui il nostro io può entrare in relazione, ma anche ogni Altro che trascende ogni altro di cui riusciamo a fare esperienza: l'altro totalmente Altro che le religioni hanno chiamato con vari nomi, quali: Jahveh, Allah, Dio, ecc. Il rifiuto di quest'Altro, prima ancora che negazione religiosa, è soprattutto chiusura egoistica: misurare il mondo del nonio ancora con i parametri dell'io.
    L'ascolto religioso rituale (lettura della Parola, riflessione, assimilazione, invocazione, ecc.) diventa fattore di crescita umana e occasione di scoperta di Dio a misura che riduce lo spazio del proprio io infantile ed egoista ed amplia i confini del nonio. Appare così chiaro un duplice modo di vivere e di intendere la preghiera, come un modo per «costringere» Dio a entrare nell'orbita del proprio io o come un modo per «costringere» il proprio io ad entrare nell'orbita di Dio. Il primo tipo di preghiera, di carattere magico-sacrale, asservisce Dio ai propri bisogni e potenzia mostruosamente le proprie illusioni di onnipotenza. Il secondo tipo di preghiera, di carattere antropologico-simbolico, pone l'uomo a servizio di Dio, riduce i suoi spazi di manipolazione, crea atteggiamenti di lungimiranza, di apertura e di tolleranza.

    L'ascolto come criterio per valutare le esperienze di preghiera

    Viene così indicato il primo criterio per valutare le tre esperienze di preghiera riportate: queste sono costruttive a misura che aiutano i singoli e il gruppo a decentrarsi sempre più dal loro io infantile e a costituirsi come soggettività libere ed autonome, capaci di accettazione e di abbandono.
    Certo, maggiore spazio di tempo, più ampia lettura dei brani biblici, più attenta analisi e riflessione dei testi ascoltati, più prolungati spazi di silenzio e più partecipati momenti di invocazione sono dati positivi. Eppure non bisogna credere che da soli e automaticamente possano produrre «i frutti della preghiera». La preghiera si inscrive nell'ordine del qualitativo e ogni tentativo di verificarla col metro del quantitativo (più «tempo», più «silenzio», ecc.) è destinato a fallire. La preghiera (il qualitativo) non può certo fare a meno delle preghiere (il quantitativo), ma le preghiere non necessariamente conducono alla preghiera.
    La preghiera, come tutti gli atteggiamenti profondi, è la risultante dell'interazione di tutti i fattori della personalità. Tra questi vanno annoverati i modi e i tempi delle preghiere, ma anche i modelli genitoriali (genitori che pregano o no?), il tipo di comunità ecclesiale (chiese locali vive o tali solo anagraficamente?), la qualità delle celebrazioni domenicali (celebrano la gioia della risurrezione o sono semplicemente riti senza vita?), il tipo di impegno comunitario (la fede si traduce in impegno a favore dei fratelli bisognosi o è soltanto un gioco retorico di affermazioni e di definizioni?), l'autorevolezza dei vescovi e dei presbiteri responsabili (sono veri «pastori» o degli autarchici?), ecc.
    A seconda di come tutti questi diversi elementi interagiscono tra loro si diventa persone di preghiera (capaci di pregare) e di preghiere (capaci di dare veste adeguata alla preghiera).

    ABBANDONO E FIDUCIA

    Ascolto di chi e di che cosa? Della Parola di Dio. Ecco il secondo dato che ritroviamo comune a tutte e tre le esperienze, anche se di volta in volta vengono privilegiati ora l'aspetto interpretativo-razionale, ora quello ermeneutico-attualizzante, ora quello meditativo-contemplativo.
    La riscoperta della bibbia, le cui pagine sono tornate a illuminare migliaia e migliaia di uomini e di donne credenti, è senza dubbio la maggiore acquisizione dei padri conciliari e della chiesa postconciliare. Eppure bisogna ribadire con fermezza che oggetto dell'ascolto non sono i testi biblici, ma lo Spirito operante di Dio della cui forza di novità e di liberazione essi sono una testimonianza privilegiata. Il cristiano non è l'uomo del libro ma l'uomo dello Spirito, l'uomo che vede la storia animata dalle sollecitazioni di un Dio che vuole creare «amore, gioia, pace, magnanimità, bontà, benignità, fiducia, mansuetudine, autocontrollo» (Gal 5,22). L'apertura e l'ascolto a cui si è chiamati è nei confronti di una Persona, misteriosa e inafferrabile (ma non per questo meno realmente presente ed efficace), che ci precede e ci accompagna con la sua solidarietà e che ci vuole rendere partecipi della sua realtà. Il testo biblico resta certamente importante, ma per la sua funzione meditativo-rimemorativa: aiuta a scoprire, attraverso la testimonianza del passato, il nostro hodie gravido della grazia di Dio.

    Quale abbandono in Dio?

    La preghiera ci pone, così, di fronte ad un Tu: un Tu che è Interessamento, Premura, Amore, Accoglienza, Misericordia, Perdono, ecc.
    Cosa fare di fronte a questo Tu che ci sorride dalla sponda della Trascendenza e le cui azioni d'amore sono ricordate e proclamate nelle pagine bibliche? La risposta non può essere che una: per l'uomo, l'unico atteggiamento possibile dinanzi a Dio che prevenientemente e incondizionatamente lo ama è quello dell'accettazione e dell'abbandono: accettare di essere amato, lasciarsi sorprendere ed amare.
    Questo «abbandonarsi», questo «lasciarsi andare» non vanno confusi con la dipendenza irresponsabile e infantile; sono frutto, piuttosto, di realismo e di fiducia: il realismo di chi conosce e riconosce i propri limiti e la propria fragilità (sofferenza, errore, assurdo, nonsenso, morte, ecc.); la fiducia e il coraggio di chi è pronto a ricevere dall'Altro ciò che non si può chiedere né a sé né agli altri.
    Né si creda che questo atto di abbandono e di fiducia - l'atto fondante l'autentica esperienza religiosa - sia facile: esso esige il superamento dell'egocentrismo e dell'autonomia (fare del proprio io il punto di riferimento determinante, e la scelta dell'Allocentrismo e della Theonomia (fare dell'Altro per eccellenza, cioè di Dio, il nuovo centro di sé e degli altri). In altre parole: esige l'apprendimento di un codice che non è quello razionale ma quello contemplativo: «In questo lo sforzo dell'individuo non è quello di "portare dentro il mondo" per comprenderlo e manipolarlo (ogni comprensione è sempre una forma di manipolazione) ma di porsi in suo ascolto. È un atteggiamento psicologico opposto al precedente, più simile a quello del poeta e dell'artista che dello scienziato e del tecnico. L'artista non manipola il reale ma ne coglie i segreti messaggi attraverso un cammino di "spossessione" e di povertà. Non è l'artista che introietta il mondo ma è il mondo, per così dire, che lo porta dentro di sé e lo introduce nei suoi meandri. E questo proprio grazie al suo "non pensare", al suo "lasciarsi andare", "lasciarsi trasportare": l'atteggiamento di chi si sa avvolto in un mondo fiducioso e accogliente; di chi sente che l'universo è una sinfonia di voci da ascoltare in silenzio; di chi ha scoperto che non è lui il centro dell'universo ma che è l'universo da obbedire e da decodificare» (C. Di Sante, Liberare la morte, Coletti, Roma 1980, p. 124).

    L'abbandono a Dio come criterio di valutazione della preghiera

    Di qui, allora, un secondo criterio di valutazione delle tre esperienze di preghiera: la loro capacità di creare e sviluppare atteggiamenti di fiducia e di abbandono in quella Ultimità ultima, benevola e accogliente che chiamiamo col nome di Dio; la loro capacità di contribuire alla formazione di un codice che sia quello contemplativo.
    L'esigenza contemplativa è un'altra delle costanti delle tre esperienze riportate, e la sua realizzazione rituale, attraverso momenti di silenzio e di meditazione individuale, è senz'altro positivo.
    Ma anche qui valgono le osservazioni precedenti: il momento contemplativo ritualizzato diventa costruttivo se rimanda e realizza quell'atteggiamento contemplativo che sempre e dovunque deve accompagnare il cristiano e che si traduce in una fiducia basilare o originaria.
    Serenità, ottimismo, coraggio, dignità, distacco, umorismo, autonomia rispetto, tolleranza: questi alcuni dei tratti riflessi dalla fiducia originaria di cui fa dono la fede in Dio e che costituiscono la verifica più efficace della preghiera cristiana.
    K. Rahner ha scritto che il problema teologico fondamentale è quello di riuscire a rapportare la propria esistenza quotidiana a Dio, che è l'assoluto, l'incondizionato. Questo «rapportarsi a Dio», abbandonandosi al suo Mistero e capitolando senza alcuna condizione, «non si attua - scrive Rahner - in primo luogo là dove i teologi ne parlano e neppure là dove i parroci e i papi ne fanno oggetto della loro predicazione. Questo processo fondamentale può attuarsi, naturalmente, anche in maniera del tutto inespressa o perfino anonima... Esso può attuarsi là dove un uomo riesce fino in fondo ad essere disinteressato; ad amare disinteressatamente; ad essere fedele là dove la fedeltà non è più ricompensata; ad accettare la morte con animo pacato e ben disposto in uno di quegli sterili e anonimi ospedali di oggi; là dove un uomo, in un qualunque angolo della terra, riesce comunque a fuggire dal chiuso carcere del suo egoismo. Allora si verifica quello che io considero il compito ultimo e fondamentale dell'uomo» (Il Regno, n. 11/1981, p. 365). A misura che le diverse esperienze di preghiera aiutano a questo «compito ultimo e fondamentale» sono senz'altro positive e costruttive. Diversamente sono inutili e illusorie.

    DALL'ESSERE ACCOLTI ALL'ACCOGLIERE

    La consapevolezza di accoglienza da parte di Dio si traduce, nel cristiano autentico, in atteggiamento di accoglienza verso tutti gli uomini. Qui si può individuare un terzo criterio di autenticità della preghiera cristiana.
    La preghiera è evangelica e anti-ideologica quando amplia il proprio spazio di accoglienza verso i propri simili, indipendentemente da qualsiasi legame territoriale, culturale o di sangue. Il «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,47) traccia un nuovo modello comportamentale secondo il quale ogni creatura va trattata con la stessa benevolenza con la quale Dio accoglie ogni realtà umana da Lui fondata. Il segno dell'amore cristiano è il suo progressivo «universalizzarsi», che non significa un generico amore (amare tutti senza amare nessuno), ma la capacità di accostarsi agli altri con rispetto e simpatia per una scelta di amore e non più per un bisogno di dipendenza.
    E. Fromm, commentando uno dei più noti paradossi evangelici, ha scritto: «Quando Gesù diceva: "sono venuto a portare discordia tra il figlio e il padre, tra la figlia e la madre, tra la nuora e la suocera", non insegnava certo a odiare i genitori e i parenti, ma esprimeva il principio che per essere veramente umani bisogna rompere i rapporti incestuosi e diventare liberi. L'attaccamento ai genitori è soltanto una tra le possibili forme dell'incesto; nel corso dell'evoluzione sociale altri affetti analoghi possono prenderne il posto, mano a mano che la casa e la famiglia danno luogo alla tribù, alla nazione, alla razza, allo stato, alla classe sociale, al partito politico (alla chiesa)» (Psicanalisi e religione, Milano 1980, p. 71). E ancora più acutamente: «i gruppi che hanno preso il posto del nucleo familiare sono diventati sempre più grandi, in essi c'è più spazio per la libertà. Ma la forza del legame incestuoso è ancora cospicua. La fratellanza umana non avrà senso finché questa nostra fissazione primitiva non sarà stata del tutto sradicata» (Ib., p. 71).

    La preghiera «apre agli altri»

    La preghiera cristiana è tale a misura che contribuisce a «portare discordia tra padre e madre»... cioè a misura che aiuta ad abbattere le diverse frontiere dell'umanità e a creare comunione e disponibilità verso tutti indistintamente. Questo non significa una facile irenismo o un ingenuo ottimismo che ignora la complessità e la drammaticità del male e della violenza ma l'assunzione di uno stile di vita che, come quello di Dio, è caratterizzato dall'accoglienza incondizionata, dal momento che, accolti, siamo stati resi anche noi, a nostra volta, capaci di accogliere.
    Una liturgia e una preghiera che creassero sentimenti di gratificazione interpersonali e di gruppo ma rendessero estranei agli altri, a «qualsiasi altro», sarebbero «incestuose». Ed è forse questo il rischio più notevole della maggior parte dei gruppi di esperienza di preghiera oggi emergenti: che quanto più creano un senso di benessere tra coloro che la vivono, tanto più estraniano da coloro che non ne fanno parte. Una preghiera che si ponesse a servizio dei bisogni della «gruppizzazione» non differisce di molto da quella che si pone a servizio dei bisogni dell'individuo.
    Ma la preghiera vera, quella fedele al vangelo, non è né a servizio dei bisogni dell'individuo né a servizio dei bisogni del gruppo; al contrario pone l'uomo e i gruppi a servizio di Dio: perché le barriere del soggettivo e del gruppale si infrangano e gli individui e i gruppi siano capaci di amare e di accogliere come ama e accoglie Dio.

    L'apertura agli altri come criterio di valutazione

    Appare così evidente l'importanza di questo terzo criterio per valutare il senso delle tre esperienze di preghiera riportate: se in coloro che vi partecipano aumenta lo spirito di apertura e di disponibilità a partire dal loro «quotidiano» sono costruttive. Diversamente sono evangelicamente improduttive e inutili.

    LA PRASSI MESSIANICA

    L'accettazione fraterna e paritaria degli altri non può restare un sentimento psicologico-interiore ma deve tradursi in scelte concrete, in strategie operative, in impegno pratico. Con una parola: in prassi messianica.
    Gesù è presentato dagli scritti neotestamentari come il profeta per eccellenza che, attraverso le sue «parole» ed «opere» e soprattutto attraverso la sua «morte» e «resurrezione», porta a compimento il messianismo profetico, il grande movimento sorto intorno al secolo VIII a.C. che aveva universalizzato il tema dell'esodo (liberazione di tutta l'umanità dalla schiavitù e dalle sue multiformi espressioni di oppressione) e creato l'utopia di un futuro storico radicalmente rinnovato, quantitativamente e, ancor più, qualitativamente. Gesù ha fatto proprio il progetto messianico, facendone l'unica motivazione e l'esclusiva «passione» della sua vita. La sua attività «terapeutica» (cf i miracoli di guarigione narrati dai vangeli) e il suo impegno «sociale» (cf il racconto della cosiddetta moltiplicazione dei pani, nei sinottici e in Giovanni) sono le due categorie prevalenti utilizzate dal Nuovo Testamento per tradurre la sua volontà messianica.
    Questa doppia categoria diventa il criterio ideale per la valutazione della preghiera cristiana. Quando questa potenzia «la nostalgia» e l'impegno per la liberazione degli uomini e rende intolleranti verso il male e le sue manifestazioni, può dirsi autenticamente evangelica e cristiana. Diversamente ricade essa stessa nella dura condanna di cui i testi profetici ci hanno lasciato testimonianze infuocate e indimenticabili:
    «Parola del Signore ricevuta da Geremia: Avvicinati alla porta del tempio e lì grida questa parola: "Ascolta, Giuda, la parola del Signore, voi che entrate da queste porte per adorare il Signore. Così parla il Signore degli eserciti, Dio d'Israele: emendate la vostra condotta e le vostre azioni, e io abiterò con voi in questo luogo. Non abbiate fiducia nelle parole menzognere che vanno ripetendo: è il Tempio del Signore, è il Tempio del Signore, è il Tempio del Signore. Se emendate la vostra condotta e le vostre azioni, se giudicate rettamente fra un uomo e il suo prossimo, se non opprimete il forestiero, l'orfano e la vedova, se non versate sangue innocente in questo luogo... allora io abiterò con voi... Ma ecco che voi confidate in parole ingannevoli e inutili. Come! Rubate, uccidete, commettete adulterio, giurate il falso, bruciate incenso a Baal, e poi entrate a presentarvi a me in questo tempio che porta il mio nome; e vi dite: siamo salvi! per continuare a commettere queste cose abominevoli? Badate, io l'ho visto - oracolo di Jahvè"» (Ger 7,1-11; cf pure Am 5,21-27; Os 8,13 ss; Is 1,10-17).

    Azione e preghiera: dalla contrapposizione alla verifica reciproca

    Una preghiera che si fa terapia della sofferenza che ancora insanguina la storia, e che si fa «moltiplicazione» dei pani e condivisione dei beni ancora rapinati e accaparrati dalla violenza dei pochi a danno dei molti, è una preghiera che piace a Dio: si esprima, questa, con il silenzio prolungato, con la lectio divina o con tecniche meditative varie, siano pure di origine orientale.
    Dio e uomo, preghiera e azione, vita contemplativa e vita attiva, Maria e Marta troppe volte sono stati indebitamente contrapposti nella spiritualità cristiana. Ma più che contrapposti, questi momenti andrebbero, in realtà, integrati, l'uno come verifica dell'altro: una preghiera senza prassi messianica è altrettanto aleatoria e illusoria quanto una prassi messianica senza preghiera. Camminare con l'uomo senza Dio o con Dio senza l'uomo resta la tentazione di sempre. E se per chi non prega il rischio è di dimenticare Dio, per chi prega il rischio è di dimenticare l'uomo. Di questo rischio ogni gruppo di preghiera deve essere consapevole fino alle midolla Solo da questa consapevolezza potrà nascere quella necessaria coscienza vigile e critica che non porterà a dissociare la fedeltà a Dio dalla fedeltà all'uomo e che non tradirà la legge dell'incarnazione per la quale, da quando Dio si è rivelato compiutamente in Gesù (cf Ebr 1, 1 ss), l'uomo e Dio sono diventati inseparabili compagni di viaggio.


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