(NPG 1979-6-52)
Queste pagine conclusive sono la trascrizione di due incontri redazionali allargati ad alcuni responsabili di centri e gruppi giovanili. Ritornano, ma con la sensibilità di chi li vive giorno per giorno da educatore, gli interrogativi più volte emersi in questo dossier, ma soprattutto vengono messe in luce alcune istanze di soluzione che la loro esperienza ha faticosamente elaborato insieme alle carenze e agli scompensi della prassi pastorale di questi anni.
La riflessione si sviluppa in tre parti. Si incomincia con la interpretazione della crisi politica dei giovani di oggi, alla luce anche del comportamento politico dei giovani del '68. Si passa quindi a rileggere l'atteggiamento delle istituzioni ecclesiali verso chi in questi anni, nell'ambito dei gruppi giovanili, ha fatto della politica e della militanza nei partiti. Si viene infine ad evidenziare alcune istanze di rinnovamento educativo.
GIOVANI, POLITICA E PARTITI DAL '68 AD OGGI
Centralità del politico e della militanza nei giovani del '68
Gli anni del '68 sono stati per i giovani gli anni della scoperta del politico come categoria principe nella interpretazione della società e della storia e come punto di riferimento costante per la propria presenza in una società ritenuta, alla luce di una rinata utopia, da abbattere e ricostruire.
Non possiamo descrivere le radici e le motivazioni immediate di questa centralità del politico. Ci interessa maggiormente chiarire il taglio particolare che ha avuto la teoria e l'azione politica dei giovani di allora, per mettere in luce, per contrasto, il comportamento politico di quelli che oggi vengono frettolosamente etichettati come i «nuovi indifferenti».
In effetti nel modo di far politica dei giovani del '68 si riscontrano delle costanti che oggi sembrano scomparse. Questo era caratterizzato dalla accettazione del quadro politico istituzionale (ivi compresi i partiti), dalla fiducia accordata alle istituzioni e alla lotta collettiva (contro la violenza del singolo e del piccolo gruppo «giustiziere»), dal collegamento motivato ideologicamente con la tradizione storica del movimento operaio.
Grande importanza si attribuiva ai partiti e alle organizzazioni alternative e la militanza in essi costituiva l'espressione massima del politico. La discussione riguardava al massimo il partito in cui militare, attraverso cui cioè realizzare il cambiamento auspicato.
Non è che il rapporto giovani-partiti fosse facile. L'atteggiamento dei giovani era spesso fortemente critico ed i rapporti conflittuali. Era la ideologia, che teorizzava il ruolo politico della organizzazione, a tenerli insieme e a convincere i giovani a rimanere nei partiti.
Più in generale prevaleva in quegli anni la ricerca della razionalità degli obiettivi e degli strumenti politici. L'azione nel partito non era che una parte della fiducia ideologica nella possibilità di cambio sociale e della scientificità che avrebbe dovuto illuminarne la attuazione. Per i giovani del '68 una nuova società era possibile e realizzabile: bastava lottare, usando le indicazioni e gli strumenti che la scienza, l'ideologia e l'organizzazione ponevano a disposizione e di cui occorreva anzitutto impadronirsi attraverso lo studio e la militanza attiva.
La Chiesa come agente di trasformazione per i giovani del '68
Un aspetto della fiducia nelle istituzioni era il credito accordato alla chiesa come agente di trasformazione sociale. Era ritenuta una struttura con un rilevante peso politico: essa dunque poteva favorire il cambio o ostacolarlo. Il giovane cristiano sentiva fortemente le responsabilità passate e presenti della istituzione ecclesiale: egli le chiedeva di pronunciarsi, di scegliere gli ultimi, di uscire da una falsa ed ipocrita neutralità.
Per molti giovani la fede finì per diventare la firma autenticante dell'impegno nel politico, l'utopia e la garanzia che «cieli nuovi e nuova terra» avrebbero avuto luogo qui-ora, nella storia, mediante le lotte e le contestazioni.
Sia perché la istituzione-chiesa resisteva a questo richiamo esplicitamente politico, sia perché non erano sufficientemente chiari temi di fondo come rapporto tra fede e storia, tra fede ed ideologia, tra istituzione e mistero nella chiesa, per molti il riferimento ecclesiale entrò in crisi. Furono gli anni dell'esodo verso i movimenti più politicamente impegnati, specialmente nell'area della sinistra extraparlamentare. E furono gli anni in cui l'istituzione stessa emarginò quanti avevano fatto «certe scelte». Per altri giovani il cammino politico, pur travagliato, venne a maturare invece un corretto rapporto tra fede e politica, sulla base della autonomia reciproca in cui la fede rimaneva l'elemento totalizzante che risignificava anche il politico. Sul rapporto tra istituzione ecclesiale e giovani che facevano politica si ritornerà più avanti. Per ora si voleva sottolineare come in ogni caso il riferimento alla fede e alla stessa istituzione-chiesa fosse, anche se in termini problematici o addirittura di chiusura, un grosso punto di riferimento per i giovani che facevano politica partendo da gruppi e movimenti ecclesiali.
I «nuovi adolescenti» e la politica
Quel che succede in campo politico tra i giovani d'oggi è stato oggetto di tutto questo dossier. Riprendiamo velocemente alcuni punti in vista anche di una valutazione. È oggi in atto tra i giovani una notevole evoluzione che va al di la del fatto politico e della partecipazione e che giunge a porsi in modo nuovo il problema della identità personale e collettiva e del senso della vita. Se negli aspetti più eclatanti questa evoluzione può essere contrabbandata per riflusso o per ondata di moderatismo, nei suoi aspetti più originali si deve parlare di un adattamento creativo all'ambiente sociale in cui le vecchie definizioni (troppo spesso ideologiche) e le vecchie strategie (quelle cosiddette del '68) che non pagano a sufficienza, vengono abbandonate. La situazione giovanile mostra, allo stesso tempo, i segni di un cedimento qualunquista ed i segni di nuove intuizioni (la ricerca di una «nuova qualità di vita») il cui sviluppo potrebbe superare l'attuale momento di incertezza, ma il cui rinsecchirsi potrebbe far ripiombare molti in una disperazione più nera.
Crisi di socializzazione e crisi di partecipazione
Ci troviamo di fronte ad una generazione che non vive più sulle barricate, ma non vive neppure dentro la città; per molti versi ha piazzato le sue tende fuori dalle mura. Verso la società e le sue istituzioni essa ha un atteggiamento complesso in cui entrano l'abitudine ad usare delle strutture e servizi sociali come qualcosa di dovuto e senza contropartite, la consapevolezza dello sfascio e la conseguente sfiducia verso istituzioni come la scuola e la famiglia, la convinzione che il mondo degli adulti detiene il potere economico e culturale, li controlla e li marginalizza.
La crisi giovanile è così crisi di socializzazione, sia quella istituzionale, sia quella spontanea, dal basso, tra pari. I «nuovi adolescenti» cercano i coetanei, ma con difficoltà riescono a stabilire rapporti durevoli nel tempo, soprattutto nelle grandi concentrazioni urbane.
La riflessione e la strategia politica di questi giovani viene naturalmente ad assumere nuove categorie. È venuta a cadere la fiducia nella ideologia, nella organizzazione, nella razionalità, nella programmazione. Ed è venuto a cadere lo stretto rapporto con il movimento operaio e la sua strategia a vasto raggio e a lungo termine, sviluppato soprattutto all'interno delle fabbriche. Lontani e diversi da chi ha un lavoro, i giovani si sentono confinati e costretti a lottare da soli per degli obiettivi più immediati e concreti, per darsi un minimo di spazio e di sicurezza. Prevale, di conseguenza, la microrealizzazione, una azione sciolta dal politico, quasi di tipo rivendicativo.
La critica e il rifiuto dei partiti
Il rifiuto dei giovani si fa più deciso se si viene a parlare di partiti e di organizzazioni politiche. Essi possono ancora sperare nella politica ma sono disincantati verso la apartitica». Riprendiamo alcuni fattori di questa crisi, così come sono emersi nelle pagine precedenti del dossier.
La disaffezione nasce anzitutto dalla costatazione della incapacità dei partiti, presi come un insieme, a dare delle risposte valide ai problemi generali del paese e soprattutto a quelli dei giovani. La disaffezione, in secondo luogo, tocca da vicino il partito in quanto organizzazione e spazio di incontro tra persone: il modo con cui il partito è organizzato e i militanti vivono, non convince i giovani che parlano di «alienazione da politica».
Ai partiti rimproverano anche la gestione clientelare e oligarchica del potere. Sono gli interessi di parte e l'arrivismo politico a guidare le loro scelte. Del resto ai partiti mancano degli orientamenti di fondo che permettano loro di uscire da schemi puramente pragmatisti ed economicisti.
Infine è anche vero che all'interno del partito c'è poco spazio per i giovani, soprattutto se si propongono di dare al partito un contributo critico. Il partito tende ad usare di loro, più che farli maturare politicamente, assumendo il «nuovo» che essi perseguono.
Giovani e partiti finiscono per non incontrarsi perché rispondono a delle logiche diverse. Il partito non può e non vuole assumere tutto il «personale» del giovane che invece ha un tale bisogno di aggregazione, socializzazione, sicurezza che finisce per essere emotivamente troppo carico nell'avvicinare e rifiutare i partiti.
Il giovane è portato ad usare un unico metro per misurare tutte le organizzazioni sociali. Manca un chiarimento iniziale sul ruolo specifico e sulla complementarietà delle varie organizzazioni.
Nella diversità delle logiche rientra anche il fatto che il giovane è portato, più che a scegliere e a situarsi culturalmente e politicamente, a confrontarsi e a rimandare, finendo magari nel qualunquismo e nella indifferenza, quelle scelte che l'iscrizione ad un movimento politico richiede in anticipo.
Militare in una organizzazione richiede poi tempo, impegno, continuità e coerenza, competenza e progressiva specializzazione. Si sa bene quanto tutto questo sia difficile per quei giovani i cui processi formativi si sono arenati, e che vivono alla giornata, senza grossi investimenti ne sul presente ne sul futuro, preferendo delegare la politica agli «esperti». Anche perché i partiti hanno ristretto la pratica politica ai termini tecnici dei progetti abbandonando quell'impegno culturale in cui invece i giovani potrebbero dire criticamente la loro.
Fare i «ragazzi di partito» esige quindi troppe condizioni di fatto inesistenti sia nei giovani che nei partiti. L'esigenza di partecipazione, e prima ancora di aggregazione, i giovani finiscono per tentare di soddisfarla altrove, lontano dagli equilibrismi e burocraticismi dei partiti e lontano dai loro inviti ad «attendere» con pazienza e a «gestire la crisi». In ambiti in cui sia possibile raggiungere qualche obiettivo di minima e con una tecnica politica che permetta di trovare insieme risposte nuove e globali alle questioni sempre più complesse del quotidiano giovanile.
Verso una ridefinizione degli ambiti e del modo di far politica
La critica dei partiti è, come già si diceva, critica del loro modo di far politica e, più a monte, anche critica a quel modo di far politica che il '68 aveva enfatizzato. Non è quindi in crisi solo la centralità del momento politico nella vita. È in crisi il modo concreto con cui si fa politica e la delimitazione degli spazi in cui farla.
Il concetto di politica si è in questi anni dilatato e ridefinito: politica non dice solo più partito e sindacato, sciopero e corteo; dice all'insieme delle scelte della vita quotidiana». Si sono aperti spazi politici un tempo misconosciuti come quelli individuati dal movimento femminista, dalle leghe per i diritti civili, dai comitati per il controllo ecologico e sanitario e per la verifica delle proposte politiche e amministrative degli apparati pubblici, ecc. Sono stati ridefiniti anche gli obiettivi di queste battaglie: sanno di immediato, di concreto, fino ad essere a volte puramente rivendicativi e corporativi.
Si ha l'impressione che queste iniziative, pur coinvolgendo molti adulti e giovani, non siano riuscite a risolvere alcuni dei nodi della crisi, come il rapporto tra organizzazione e movimento spontaneo e, soprattutto, non siano riuscite a individuare degli strumenti che rispondono alle nuove esigenze.
Ciò che è cambiato è soprattutto il modo di far politica: l'organizzazione centralizzata, verticale, preoccupata dei rapporti politici e delle mediazioni istituzionali, appare inadeguata a coordinare ed approfondire i comportamenti radicali, le capacita di opposizione. La autonomia, a cui si rifanno molte iniziative, mette oggi in crisi i meccanismi di discussione al vertice, i modi di selezione e trasmissione della informazione, il coordinamento centrale delle strategie, l'uso abituale della delega. Al contrario riscopre i meccanismi della connessione orizzontale, la valorizzazione delle esperienze di base, la negatività di una strategia decisa al vertice e centralizzata. Mentre aumenta la valorizzazione di questi meccanismi non si può negare però anche il rischio, tutt'altro che ipotetico, di leadership informali, gerarchie occulte, decisioni precostituite ma fatte passare orizzontalmente.
C'è da aggiungere una maggior attenzione alle dinamiche personali che si sviluppano dentro l'azione politica: la lotta non è solo sul fronte degli obiettivi esterni ma anche sul fronte interno per raggiungere un clima di gruppo che sia rassicurante, gratificamente, «personale». La logica del '68, portata agli estremi, passava sopra la vita dei singoli, e sopra i rapporti personali fra chi faceva politica (ad esempio quelli tra ragazzo e ragazza, normalmente di impronta maschilista). Oggi tutto questo interessa maggiormente, fino al punto in cui però che la «comunicazione» finisce per essere, con una opposta polarizzazione, il segreto obiettivo del far politica: si fa politica per «stare insieme».
LE ISTITUZIONI ECCLESIALI, LA POLITICA E I GIOVANI
Non è facile ripensare l'atteggiamento tenuto in questi anni dalle istituzioni ecclesiali verso quanti nei gruppi e movimenti giovanili ecclesiali si sono dedicati alla politica e si sono iscritti ai partiti, compresi quelli di sinistra e le organizzazioni extraparlamentari. Qualsiasi descrizione dovrebbe tener conto delle numerose variabili in gioco, della varietà delle situazioni ecclesiali e giovanili, dell'evolversi degli atteggiamenti nel giro degli anni. Ci sembra tuttavia, dopo aver tenuto conto di quanto detto, che emergano alcune costanti.
Il difficile cammino dal «sociale» al «politico»
Sembrano ormai lontani (ma non dappertutto) gli anni in cui ci si esprimeva, in campo ecclesiale, unicamente in termini di «giustizia sociale» e di «servizio» e si guardava con sospetto chi tra i giovani parlava invece di «politica» di «impegno politico». È innegabile che, negli anni successivi al '68, molte istituzioni ecclesiali abbiano privilegiato un modello di gruppo centrato (come male minore, secondo alcuni) sul sociale, a scapito di qualsiasi apertura al politico. Questa scelta ha spinto molti giovani ad abbandonare i gruppi ecclesiali ed ha fatto si che interi gruppi giovanili siano stati emarginati o addirittura sciolti da un giorno all'altro. Soprattutto quando i giovani usavano un linguaggio ed una serie di strumenti che avevano le loro matrici nel marxismo.
Generalmente le istituzioni si mostrarono paurose, incapaci di cogliere e valutare criticamente il nuovo che attraversava il mondo giovanile e la stessa società. Chi tra i giovani per fedeltà ai segni dei tempi, si era dato alla militanza politica, venne a trovarsi abbondonato e sconfessato, proprio nel momento in cui la scoperta del politico rischiava di diventare fede ideologica e la militanza a sinistra nuova speranza messianica. Per molti fu la crisi definitiva della fede; per altri l'integrismo di sinistra che non solo si oppose duramente alle istituzioni accusate di ipocriti collateralismi ma fini anche per difendere la propria collocazione politica rifacendosi alla fede con un approccio non meno criticabile degli approcci che avevano portato alle altre forme di integrismo.
A rischiarare l'orizzonte non sembra sufficiente l'acquisizione oggi in atto nelle comunità, con alterne vicende, della laicità della politica. Il chiarimento infatti è spesso solo a livello di principi, anche perché poco si è ancora riflettuto sull'apporto che le comunità ecclesiali sono chiamate a dare alla elaborazione dei processi culturali.
Tre atteggiamenti delle istituzioni verso il politico nelle comunità ecclesiali
Nell'insieme sembra sia possibile rintracciare, nelle comunità ecclesiali, tre atteggiamenti verso la politica e la militanza nei partiti.
C'è anzitutto la scelta di chi, convinto che la comunità è anzitutto luogo di comunione, tende ad eliminare ogni tensione che la possa in qualche modo incrinare.
Per non turbare la «comunione» si evitano analisi approfondite per rifugiarsi nel moralismo o nel fatalismo, si fa in modo di rimandare il confronto su temi la cui discussione può addiviene»; si dissuade, sempre in nome della carità, dal porsi criticamente all'interno della istituzione. Uno dei temi tabù è proprio la politica carica, per sua natura, di tensioni.
La comunità si richiude così in gesti e momenti «religiosi», mentre nel politico tutto si risolve sul piano individualistico e su quello delle norme dall'alto.
La situazione viene a complicarsi quando tra gli stessi responsabili delle comunità affiora una diversa analisi politica e il pluralismo partitico. In questi casi, in genere, ognuno finisce per farsi il suo giro rifiutando il dialogo con gli altri credenti, confortato, più che da analisi politiche, da vecchi pregiudizi o da nuovi miti.
C'è chi in questi anni si è fatto invece consapevole dell'impatto politico della fede e della dimensione politica di tanti fenomeni della vita ecclesiale e sociale. Il cammino faticoso e sofferto in questa direzione in molte comunità ha richiesto un prezzo. L'educazione ad affrontare in termini politici i problemi e «comprenderli» in chiave di fede, è stata possibile introducendo la distinzione tra politico e partitico. In altri termini: politica si, partiti no.
Sulla base di questa distinzione hanno potuto lavorare molti gruppi giovanili che concretamente hanno provato ad inserirsi nelle iniziative di zona o quartiere, a favore dei servizi sociali, del verde, della assistenza agli anziani, di spazi per i giovani e così via. In ambiti, è importante notarlo, dove fino a non molto tempo fa i partiti erano quasi o del tutto assenti. Alcuni gruppi giovanili hanno finito per essere l'unica forza politica effettivamente presente in zona. L'opposizione dei giovani cattolici ai partiti spesso è nata proprio in queste esperienze di base ed iniziative zonali a cui i partiti si sono mostrati a lungo indifferenti. Salvo poi, a impadronirsi e strumentalizzare quelle stesse iniziative e emarginare di fatto i giovani. Non sono pochi i gruppi che, a causa di questa strategia, si trovano oggi confinati in una politica che oltre certi livelli non rende, perché si rimane fuori dalla stanza dei bottoni in cui i partiti sono arroccati.
Il terzo atteggiamento delle istituzioni ecclesiali verso la politica è quello riconducibile questa volta allo slogan «partito sì, purché sia la DC». Gli anni del collateralismo sono forse finiti, ma non sembra acquisito ancora un sufficiente pluralismo, anche perché risolto a livello concettuale il rapporto fede-politica con il riconoscimento della laicità di quest'ultima, sono i modelli di inserimento dei cristiani nei vari partiti a non essere convincenti. È forse anche per questo che riemerge puntuale la dottrina del male minore?
Crisi di socializzazione e ripresa dell'aggregazione cattolica
Un elemento nuovo arricchisce oggi il quadro appena descritto: il forte richiamo aggregativo dei gruppi giovanili ecclesiali. Il fenomeno è ricco di luci e di ombre e quindi difficile da valutare, come già è stato sottolineato nelle pagine di questa rivista (cf NPG 1978/9).
La attenta analisi delle motivazioni con cui i giovani entrano nei gruppi chiarisce subito che non si tratta di un fenomeno classificabile come ritorno ai «bei tempi» dell'associazionismo cattolico e neppure di un risveglio unificabile, come vorrebbe qualcuno, attorno alla nuova domanda religiosa dei giovani, anche se questa è presente in modo originale e, per molti versi inaspettato.
Entrano in gioco, fra i fattori positivi, la vicinanza dei gruppi ecclesiali ai ceti medi e popolari, la fedeltà all'impegno educativo a cui le istituzioni cattoliche non hanno mai rinunciato nonostante crisi e fallimenti, l'aver saputo modificare progressivamente la struttura interna dei gruppi da luogo in cui veniva privilegiata la trasmissione di contenuti religiosi a luogo in cui si tiene conto dei reali bisogni e si permette alla soggettività giovanile di esprimersi con un minimo di raccordo con le istituzioni, l'aver risposto al bisogno che oggi il giovane ha di certezze offrendogli una visione della vita organica e plasmata da idee forti e grosse intuizioni (l'amore, la comunità, il servizio) attorno a cui raccogliere il quotidiano personale e di gruppo.
Non tutto è tuttavia una pacifica conquista o una reale acquisizione. Non si possono negare alcuni rischi e scompensi educativi che, per quel che ci interessa ora, mettono in crisi la possibilità di una adeguata maturazione sociale e politica.
Non si può negare intanto una possibile strumentalizzazione, almeno in qualche ambiente, dei bisogni di aggregazione, rassicurazione ed espressione per vendere la fede agli adolescenti e, di conseguenza, un preoccupante smarrimento della identità ecclesiale di quei gruppi in cui gli adolescenti, pur di stare insieme, sono disposti a pagare nuove tasse di tipo religioso.
Non si può negare soprattutto, e ci interessa da vicino, il grosso rischio di chiudere una generazione di giovani credenti negli spazi del formalmente ecclesiale (preghiera, bibbia, comunità), senza preoccuparsi di una loro effettiva socializzazione. Il rischio sembra accentuato proprio dal fatto che per un certo numero di giovani l'istituzione ecclesiale è un'isola in cui rifugiarsi nello sfascio delle istituzioni, spinti non dal desiderio di ritrovare le energie e la speranza per un cambio culturale e sociale, ma dal bisogno di rassicurazione e integrazione affettiva. Sembrano dunque riformarsi gli steccati tra ecclesiale e politico e sembrano ritornare le distorsioni di una fede che pretende di crescere come frutto di una pianta nutrita in modo diseguale sul piano «umano» e le ambiguità di una chiesa che non si fa carico, a livello giovanile, dell'attuale bisogno, culturale prima che politico, di cambio.
VERSO PROSPETTIVE EDUCATIVE
In quali direzione muoversi oggi per educare «questi» giovani alla partecipazione e ai partiti?
La rivista ha sovente ripreso questo interrogativo. Ricordiamo fra gli ultimi contributi il dossier «Educazione all'impegno politico» (1977/8). Qui ci limitiamo a riprendere quei punti che, alla luce degli interrogativi emergenti dal mondo giovanile, ci sembrano di maggior attualità e ad aggiungere, più da vicino, alcune annotazioni specifiche per la educazione ai partiti.
Quale politica e quale partecipazione ai partiti?
Una premessa per chiarire il senso con cui usiamo il termine politica e il modo con cui intendiamo il ruolo dei partiti.
L'educazione dei giovani alla politica deve anzitutto tener conto degli approfondimenti che la prassi politica e la riflessione culturale hanno maturato nell'ultimo decennio.
La partecipazione e la politica, come si è già detto, hanno allargato i loro campi di azione. Se è vero, da una parte, che sono in crisi i presupposti ideologici e la strumentazione della politica giovanile del '68 (assemblea, occupazione, corteo, mobilitazione di massa); è anche vero, d'altra parte, che entro certi limiti è cresciuta la coscienza della dimensione politica, nel senso strutturale e collettivo del termine, della vita di ogni giorno. È cresciuta, ad esempio, la consapevolezza che la vita va vissuta come assunzione di responsabilità sociale e come luogo in cui si sviluppano delle conflittualità che superano le decisioni dei singoli gruppi, classi, generazioni.
Anche la motivazione all'impegno sta subendo una evoluzione: vengono abbandonati sempre più gli schemi di tipo ideologico e ci si richiama di preferenza a temi di crescita civile e culturale. È da pensare che alla deresponsabilizzazione originata, oltre che dalla emarginazione dei giovani dal mondo del lavoro, dalla crisi delle ideologie e dei miti del '68, succeda tra i giovani una progressiva assunzione di impegni fondati sulla scelta di «coinvolgersi nella vita», come modo supremo di autorealizzazione. Solo il consolidamento, attraverso l'educazione, di questi nuovi germi di coscienza civile può garantire un esito non individualistico alla crisi giovanile, come invece l'attuale crescita abnorme di soggettività non integrata da una adeguata socializzazione lascia invece temere. Oggi le energie politiche dei giovani non sono socialmente utilizzabili, perché sono in crisi le istituzioni formative e perché i giovani sono chiusi in una riserva, in cui l'unica possibilità di azione è quella a piccolo cabotaggio
Sul piano delle mediazioni per una socializzazione reale e per una utilizzazione sociale della crescita di coscienza politica è possibile riprendere in modo nuovo anche il discorso della partecipazione ai partiti.
Subito un interrogativo: educare ai partiti o educare a qualcosa di alternativo ai partiti? L'interrogativo non ha bisogno di troppe giustificazioni se si ripensa alle cause della disaffezione dei giovani dai partiti. Alla disaffezione giovanile c'è da aggiungere una riflessione. Si assiste oggi ad una crescita civile che sta riscoprendo nuovi spazi politici e sta ridistribuendo in modo nuovo lo stesso potere politico. Sono in molti, ad esempio, a sostenere attivamente che la oligarchia dei partiti deve finire, per favorire un decentramento decisionale ed amministrativo che coinvolga nuove organizzazioni e aggregazioni intermedie e faccia uscire lo stato da quella sorta di società feudale con al vertice i partiti, che oggi lo caratterizza.
L'educazione ai partiti richiede, seguendo questo ordine di riflessioni, una educazione politica in cui sia messo maggiormente in rilievo il senso dello stato e il ruolo politico di tutte le organizzazioni sociali e culturali. Ai partiti spetterà il compito inalienabile e ben preciso di mediare l'armonizzazione tra le varie organizzazioni ed il loro raccordo con le istituzioni dello stato, in modo da garantire il flusso di informazioni nei due sensi.
Educare i giovani ai partiti significa allora educarli a farsi portatori di questo bisogno di crescita civile, sul piano culturale e su quello organizzativo, per controbilanciare lo strapotere del sistema partitico. Ma significa anche rendere coscienti i giovani dell'importanza di entrare nei partiti per trasformarli e abilitarli all'azione di filtro e di coordinamento di cui si parlava.
Il «rivendicativo» come approccio alla politica e ai partiti
La maturazione politica dei giovani del '68 aveva seguito un tracciato che dal generale andava al particolare: il concreto politico era sempre espressione di una grossa elaborazione teorica e ogni gesto veniva collocato in un quadro collettivo e di movimento.
L'attenzione al politico, faceva passare in secondo piano altri problemi, come quelli individuali o di piccolo gruppo, i quali venivano in qualche modo sacrificati al «pubblico».
Oggi l'interesse per il generale sul piano teorico e su quello operativo è molto minore. Diventa difficile mobilitare per delle battaglie di principio o per dei grossi obiettivi. Prevale invece un atteggiamento rivendicativo, quasi corporativo, e di utilitarismo spicciolo.
Da un punto di vista educativo si impone una riflessione. Gli educatori cresciuti attorno alla utopia del '68 e alle sue analisi globali fanno fatica a capire la politica dei giovani d'oggi. Si rendono conto, ad esempio, di non comunicare con loro quando si muovono sul piano degli ideali, dei valori e della utopia politica. E d'altra parte, vedono con sospetto questo rinascere di una mentalità rivendicativa e del gusto per iniziative scollate dai grandi interessi sociali. Che fare?
Con questi giovani ci sembra ipotizzabile una maturazione politica diversa da quella dei giovani del '68. Il punto di partenza più convincente ci sembra non più la teoria politica o la «teoria dell'impegno», ma i bisogni dei giovani presi allo stato grezzo: i problemi della scuola dove troppe cose non funzionano, i problemi degli spazi di aggregazione, il problema di una presenza riconosciuta del gruppo giovanile nella istituzione ecclesiale... Occorre aiutarli a prendere coscienza di ciò che li riguarda immediatamente, di prima persona e a far risuonare la consapevolezza personale in modo che diventi collettiva. A partire da questo è possibile individuare con loro dei piccoli obiettivi, il cui raggiungimento rinforza il collettivo e la coscienza di poter «realizzare». Toccherà alla riflessione su queste iniziative far in seguito maturare un senso politico sempre più esplicito e condiviso.
Favorire aggregazioni di tipo culturale
Tra le cause dello strapotere dei partiti va ricordato ancora una volta il fatto che essi agiscono in un deserto, in una società disorganizzata dove mancano, ai vari livelli, aggregazioni in cui si faccia cultura, si elaborino delle controproposte politiche e si verifichi continuamente l'operato della classe politica.
Urge sempre più una riflessione che nasca dalle esperienze di base e dallo sforzo di teorizzare e utilizzare i suoi insegnamenti, per superare l'attuale incertezza e ridare alla società una carica di fiducia ed una nuova spinta utopica.
L'urgenza di queste aggregazioni è oggi accentuata dalla crescente crisi di legittimazione, che non investe più la società per qualche sua carenza ma per il modello di sviluppo che per anni ne ha guidato la crescita.
Le comunità ecclesiali, in quanto aggregazioni sul territorio, non possono sottrarsi a questa esigenza di crescita civile e culturale. Non tutti i segnali che giungono sono a riguardo confortanti, come già si sottolineava parlando della tendenza in atto da più parti a chiudersi nel formalmente religioso e a limitarsi ad una vita ecclesiale che rassicuri soltanto.
Perché i gruppi giovanili si aprano a queste tematiche, non basta evidentemente fare una «teoria della cultura», così come non bastava fare una teoria dell'impegno. La nuova cultura, per quel che riguarda i giovani, nasce dalla esperienza di ricerca faticosa di spazi di aggregazione, nella elaborazione di una strategia per la soluzione dei problemi immediati in cui si dibattono e di quelli a respiro sempre più grande nella scuola e nel quartiere, nel trovare delle risposte soddisfacenti al bisogno di festa e di spettacolo (dal cineforum al teatro e alla musica).
Se il gruppo farà cultura in questa direzione farà anche una reale esperienza politica, perché dovrà in qualche modo entrare in contatto con le forze presenti nella zona in cui il gruppo vive. Si creeranno dei canali di comunicazione e degli spazi di verifica non solo sull'immediato ma anche sulle impostazioni di fondo.
Emergerà, ad esempio, la complessità del politico che richiede informazione, competenza, passione, pratica vissuta di prima persona. Il gruppo giovanile può allora assolvere il suo compito di educazione politica se diventa momento di informazione e di sensibilizzazione, se nella zona in cui vive «fa opinione», prende posizione sui problemi, crea spazi e tempi in cui riflettere sulla sua esperienza di base per evidenziarne il contenuto politico e in cui studiare e qualificarsi per dialogare con i partiti e le altre forze con un minimo di competenza. Se questo itinerario educativo viene percorso in modo corretto e facile che vengano ad aprirsi anche dei passaggi che dai gruppi portano all'inserimento attivo nei partiti.
Educare all'analisi, alla decisione, al controllo, alla gestione del cambio
Uno dei limiti della educazione politica in ambito cattolico è il fatto, più volte ricordato, che si procede, quando si fa riferimento alla realtà, con schemi e categorie di volta in volta moralistiche, utopiste, generiche, ridotte ad una lettura «religiosa». L'abitudine a questo tipo di analisi compromette la possibilità di apertura al politico e di fatto inibisce l'inserimento dei giovani dei gruppi ecclesiali nel vivo dei discorsi appena si esce dalle teorie politiche. C'è dunque un grosso cammino da percorrere verso analisi accettabili sul piano culturale e politico. Lo stesso si deve dire della educazione alla decisione. Certi gruppi funzionano perché, pur senza delega ufficiale, tutto viene deciso e organizzato da una minoranza, quando non da un solo animatore. I giovani vengono così abituati a consumare passivamente dei servizi, senza di fatto decidere se consumarli e senza interrogarsi se non sarebbe preferibile chiederne degli altri. Non occorre ricordare che l'educazione alla decisione e alla responsabilità non può essere calcolata sulla quantità di servizi che un centro eroga per i giovani. Occorre del resto tener conto del fatto che gli adolescenti sono pronti a sacrificare, entro certi limiti si intende, il loro rifiuto della «delega», pur di avere a disposizione un ambiente in cui ritrovarsi, stare insieme e superare quel senso di incertezza e di solitudine che avvince molti di loro.
Alla educazione alla decisione viene ad aggiungersi l'educazione al controllo, che sta oggi diventando una delle forme più significative di partecipazione.
Non basta analizzare, decidere e programmare; occorre verificare i risultati sia delle iniziative promosse dal gruppo che di quelle ecclesiali e sociali in cui il gruppo è direttamente coinvolto.
L'abitudine al controllo non è facile per i giovani; man mano che il tempo procede l'interesse per la verifica diminuisce e si spegne. Esercitare il controllo richiede infatti assunzione di sempre nuove informazioni, resistenza alla usura dell'interesse emotivo per i problemi, contatto con esperti, progressiva qualificazione personale e di gruppo nel campo di controllo (sanitario, assistenziale, ecologico) che si è scelto come spazio di iniziativa politica.
Infine l'educazione a ciò che si potrebbe chiamare l'educazione alla «gestione del cambio». Spieghiamo. Essere politicamente «capace» vuol dire essere lucido nel comprendere e controllare, dal proprio punto di vista, il cammino che porta alle decisioni politiche e alla realizzazione delle decisioni approvate. Le scelte politiche, sia a livello di orientamenti di fondo che nella loro traduzione in iniziative concrete, sono sempre un «compromesso» tra forze nell'ambito del pluralismo culturale e politico. Compromesso, in questo senso, è il lungo cammino che porta queste forze che partono da punti di vista diversi, a trovare, con tenacia, una posizione nuova, accettabile da tutte o quasi le parti.
L'arte di comporre le forze non sembra molto accentuata, nonostante il proclamato dialogo, in campo ecclesiale. Forse perché si è troppo abituati a fare discorsi sui principi, il dialogo concreto è tutt'altro che facile. Prevale, da una parte e dall'altra (basta pensare a certe battaglie tra giovani e istituzioni ecclesiali) una rigida fedeltà ai principi e valori astratti. Ed è sui principi che spesso si finisce per rimanere bloccati. Le decisioni concrete sono invece poco negoziate, troppo poco sofferte.
Prevalgono maggioranze o minoranze che non si lasciano interrogare dalle proposte della controparte. Viceversa gli esclusi, specie se giovani, preferiscono i gesti di rottura, invece che impegnarsi con intelligenza e pazienza per far accettare il loro contributo alle decisioni e alle iniziative. La mancanza di una dialettica e di una «pratica politica» all'interno dei gruppi e comunità ecclesiali rende particolarmente fragili i giovani dei gruppi cattolici che intendono muoversi nel territorio ed entrare in contatto con le varie organizzazioni politiche. Manca loro elasticità, senso dell'adattamento, realismo, ma anche fantasia e costanza nel perseguire gli obiettivi. Il principio del «tutto o niente» rende spesso sterile il loro impegno ed emargina le loro proposte.
Educare al politico attraverso il «prepolitico»
La dilatazione in atto nella politica ed il moltiplicarsi di iniziative nel campo più strettamente civile permette oggi di fare spazio, per una crescita politica dei giovani, ad esigenze e attività che in questi anni erano state svalutate dalla identificazione troppo stretta tra fare politica e militanza attiva. La trasformazione sociale, obiettivo della apolitica», appare sempre più come frutto della trasformazione delle diverse aree e momenti della vita umana. Sempre più si è consapevole del ruolo politico che vengono ad avere, oltre al cambio delle strutture economico-sociali, il consolidamento di valori personali autentici, sia come coppia che come gruppo, e la creazione di spazi in cui si fa della cultura e si tentano nuove esperienze che rimettano in discussione gli schemi attuali delle strutture sociali.
In questa prospettiva sono da rivalutare le proposte tese a favorire una aggregazione giovanile in cui sia possibile «stare insieme», avere rapporti personali accettabili, fare festa, confrontarsi, progettare attività di minima, e così via. E sono da rivalutare le iniziative tese a «fare cultura», come potrebbero essere il cineforum, il teatro, lo spettacolo musicale, le tavole rotonde e i dibattiti su temi di interesse giovanile. Sempre in questa direzione vanno anche recuperati e valorizzati alcuni spazi di intervento che la mentalità del '68 aveva spesso svalutato, nell'ambito del sociale e del civile. Ricordiamo, ad esempio, il servizio di volontariato agli emarginati e agli anziani, la solidarietà con i poveri, le iniziative per il terzo mondo, l'impegno dentro le istituzioni ecclesiali nell'educazione dei ragazzi e nell'animazione dei giovani.
Nel «prepolitico» si gioca anche l'educazione al superamento dell'idealismo e dell'utopismo adolescenziale che tendono a ridurre la politica a «portare avanti il discorso», inibendo di fatto il circuito tra riflessione e azione, tra politico e personale (in cui spesso non si esce dagli schemi del consumismo), tra la proclamata necessità di cambi e la riottosità a darsi da fare «dentro» le istituzioni.
Il gruppo pone le basi per una adeguata crescita nel politico se tutta la sua vita è organizzata in modo che la spinta alla crescita non nasca dalle parole (senza svalutare tuttavia la funzione della trasmissione di contenuti validi), ma dalle cose che si vivono giorno per giorno. Così, ad esempio, il valore positivo e il limite della istituzione viene appreso vivendoci dentro in modo critico, senza tirarsi indietro e prendendo successivamente contatto in prima persona sia con il fatto che essa favorisce l'organizzazione e la utilizzazione delle energie dei singoli e dei gruppi sostenendoli fra l'altro, nei momenti di stanchezza e confusione, sia con il fatto che essa tende a stabilizzarsi e a resistere progressivamente ad ogni appello al cambio.
Allo stesso modo la conduzione partecipata del centro giovanile, in cui cioè le decisioni vengono prese insieme e le attività svolte dando ad ognuno delle responsabilità concrete in cui giocare la sua coerenza e sviluppare le sue capacità, permetterà ai giovani di fare una prima esperienza politica dovendo gestire non delle attività fittizie ed inutili ma delle iniziative rilevanti come la programmazione di un centro giovanile, la gestione di una serie di cineforum, l'organizzazione di attività sportive e ricreative, il confronto con le forze politiche nella zona e nella città per chiedere permessi, spazi di incontro, momenti di confronto, e così via. Un serio tirocinio in questi campi finire per abilitare i giovani al senso delle istituzioni, ad agire come «collettivo», ad acquisire una mentalità politica costruita su una effettiva pratica politica.
Rispettare i tempi e i ritmi giovanili
Le annotazioni sviluppate fino a questo punto, non hanno voluto essere né eccessivamente pessimiste né ingenuamente ottimiste sul conto dei giovani e della loro disponibilità alla politica. Abbiamo parlato di crisi di partecipazione e del rischio di sfaldamento della stessa identità giovanile. Ma ci siamo anche sforzati di intravedere ciò che di «nuovo» emerge nel mondo giovanile, come la ricerca di un modo alternativo di entrare in contatto con la realtà sociale e la apertura a valutare in termini politici la vita nella sua quotidianità. Nulla più che dei germi, facilmente soffocabili e spesso soffocati. Come educatori crediamo nel «nuovo» giovanile, ma soprattutto nel dovere di assumere questo nuovo e lavorare per consolidarlo, alimentando in essi non solo una sensibilità politica e un bisogno di «fare», ma anche e soprattutto un bisogno di identità, la voglia di darsi un volto e di costruirsi un progetto di vita in cui anche il fare politica ed il militare in un partito possano avere senso.
L'attenzione non potrà volgersi allora allo sviluppo unilaterale dell'impegno politico, ma alla crescita globale della persona. La maturazione politica è tale quando non è frutto di una polarizzazione, ma dimensione di tutta la crescita.
Un'ultima osservazione, quasi una conclusione, a favore del rispetto positivo della progressività e della gradualità delle tappe di crescita politica e della pluralità dei modi con cui fare politica nel quartiere, nei partiti, nei sindacati, nelle varie organizzazioni sociali. In questi anni non sono pochi i giovani che si sono bruciati sulla intuizione che il politico è la dimensione portante dell'esistere. Per molti l'esperienza si è risolta nella crisi della fede. Per altri nella nausea e nella fuga da tutto ciò che sapeva di politico. È proprio questa fuga a cui si è assistito in questi ultimi tempi a riproporre in termini nuovi il bisogno di dosare con accortezza ricerca di identità e iniziativa concreta, attività nel sociale e nel prepolitico e primi passi nel politico in senso più ristretto, educazione a fare politica e inserimento nei partiti, presenza nei partiti e consolidamento del riferimento ecclesiale.