Riccardo Tonelli
(NPG 1979-1-3)
Il piano redazionale 1978 della rubrica «studi» ha proposto un modo di fare pastorale giovanile. Siamo partiti da una ipotesi di massima (l'articolo redazionale 1978/1) e abbiamo analizzato le dimensioni portanti, numero dopo numero. A più voci è così nato un «progetto», che allarga e precisa il grosso lavoro fatto in questi anni.
Note di pastorale giovanile ha un suo progetto di pastorale giovanile, raccolto attorno ad alcuni fondamentali orientamenti teologici, antropologici e metodologici. Non si tratta di qualcosa di chiuso e conclusivo, quasi fosse l'ultima parola sull'argomento o, tanto meno, di un piano immediatamente operativo, da trasportare di peso nella mischia della prassi quotidiana. Per noi, questo progetto è la precomprensione con cui ci mettiamo a riflettere: ad ascoltare la realtà, a proporre interventi di cambio, a verificare quello che sta succedendo. Nello sviluppo del nostro lavoro redazionale, abbiamo studiato molti argomenti. Non li abbiamo mai scelti o risolti a caso. Per noi, le cose dette sulla rivista in questi anni fornivano le tessere di un mosaico. Solo sbozzato a grandi linee perché ogni comunità se lo potesse ricostruire, «dentro» la trama che le avevamo suggerito. Un progetto, insomma, che stimola a lavorare e non una formula, che risolve i problemi. I lettori affezionati, coloro che utilizzano la rivista non solo in chiave strumentale, conoscono bene questo progetto. Spesso, anzi, il lavoro con loro, in corsi e convegni, ci ha permesso di riaggiustare il tiro, di consolidare alcuni orientamenti, di misurarci meglio con la reale condizione giovanile. Per costoro è inutile mettere sulla carta il progetto. È già mentalità, passione pastorale: un modo di essere che sa tradursi, di volta in volta, in prassi differenziata. Molti altri, invece, ci seguono più saltuariamente. E non sempre riesce loro agevole mettere a fuoco le proposte, perché i singoli contributi non possono raggiungere quella completezza culturale che invece è esigita dall'intervento pastorale. In questo caso, fare il punto può risultare utile. Per reinterpretare il passato e ripartire in avanti con il piede giusto. Chi legge frequentemente tutta la rivista, trova le pagine che seguono una ripetizione di cose già scritte. Qua e là, anche alla lettera. Con l'unico pregio, forse, di una articolazione e di una coerenza più matura. Ce ne scusiamo. Credendo al dialogo a tutti i costi, non ci piace privilegiare gli amici, partendo con loro verso traguardi lontani, a scapito dei tanti che sentono la fatica di inventare una linea di confronto con i giovani.
In questi anni di lavoro redazionale abbiamo scoperto, del resto, quanto questo dialogo sia arricchente. Per saper entrare in crisi.
Per rivedere continuamente le posizioni. Insomma, per crescere.
UN PROGETTO «RELATIVO» ALLA CONDIZIONE GIOVANILE?
Come andavano generalmente le cose, in campo di educazione dei giovani alla fede, fino a pochi decenni fa?
Ci si preoccupava soprattutto dei «contenuti» da trasmettere e del «modo» con cui trasmetterli. Il criterio, unico e fondamentale, era l'ortodossia: la retta interpretazione e comunicazione del depositum fidei.
Nella definizione dei metodi, l'attenzione era concentrata sul dosaggio tra la grazia di Dio e l'intelligenza e la volontà dell'uomo. La fede era ancorata ad un mondo di «formule» immobile, fuori dai problemi quotidiani. Dalla fede, attraverso un processo deduttivo, si arrivava alla vita, considerata il luogo della coerenza, lo spazio esistenziale in cui la persona dimostrava che aveva accettato il dono della fede, perché traduceva i valori perenni in gesti coerenti. Non esisteva un riflusso, di senso contrario, dalla vita alla fede; e nemmeno ci si preoccupava troppo dello svolgersi quotidiano della storia, perché la fede era al riparo da questi problemi.
Le «risposte» del catechismo (e cioè un insieme di formule precise e ben codificate) condensavano alla perfezione i trattati teologici, e andavano bene per tutti (almeno così si pensava).
In questo orizzonte nessuno si poneva il problema che invece vogliamo affrontare: quale esperienza cristiana per i giovani d'oggi? Il rinnovamento della catechesi» apre il capitolo dedicato a definire i criteri «per una piena predicazione del messaggio cristiano», capovolgendo le prospettive, come un soffio impetuoso il vento che sconvolge i fogli ben ordinati sul proprio tavolo di lavoro. Dice, infatti: «La misura e il modo di questa pienezza (la pienezza dell'annuncio del messaggio di Cristo) sono variabili e relativi alle attitudini e necessità di fede dei singoli cristiani e al contesto di cultura e di vita in cui si trovano» (RdC 75).
Queste battute, cariche di profonda innovazione pastorale, ci ricordano che il compito della comunità ecclesiale, di annunciare e celebrare con integrità e pienezza il messaggio cristiano, non è «sopra» la persona, ma «per» la persona.
Si richiede quindi un rispetto alla «misura» storica del suo esistere e della maturità raggiunta. La Parola di Dio è salvezza per la persona, quando si incarna nella sua condizione. Questa incarnazione è l'unico modo serio di «rispettare» l'evento di salvezza. Dobbiamo motivare e approfondire questa affermazione, per rivelarne tutta la carica teologica. Lo facciamo sviluppando alcuni «criteri» che offrono un'articolazione di questo orientamento pastorale.
Il criterio dell'Incarnazione
La giustificazione del fatto che la pastorale entra nei problemi umani, li assume come suo spazio di intervento, scende dal piedistallo comodo delle sicurezze per rendersi «relativa» alla misura dei destinatari concreti, è Gesù Cristo. Il «metodo» dell'incarnazione nasce dall'«evento» che è Gesù stesso.
Non siamo noi che incarniamo la fede nella vita, per inventare un metodo raffinato, quando sono ormai saltati tutti i ponti, nel difficile dialogo tra giovani e fede. È Dio stesso che in Gesù Cristo si è fatto carne, ha assunto tutta la condizione umana, diventando veramente dei nostri, «consostanziale» a noi. L'evento dell'Incarnazione è riscoperto non solo come «mistero da celebrare», ma come progetto salvifico di Dio, da realizzare.
I discepoli di Gesù avevano capito di essere amati e pensati da lui. Essi sperimentarono che in Gesù la vita umana trovava un senso: la loro situazione senza speranza e senza sbocco, carica di problemi, diventava in Gesù importante, interessante, affascinante. Era parte del Gesù storico con cui dialogavano. Assunta in Gesù, la vita umana era restituita ai discepoli piena di significato. Essi poi compresero che tutto ciò Gesù lo diceva e lo faceva nel nome di quel Dio che chiamava «Padre». Nella bontà che gli uomini sperimentavano in Gesù, nel suo perdono, nella sua proposta di libertà e di gioia, di senso alla vita, c'era il Padre. In Gesù, Dio era accanto all'uomo.
In questo clima, la comunità ecclesiale si è costituita, ha agito e proclamato, animata dallo Spirito di Gesù. Essa ha così fondato una sua prassi pastorale. Rileggendo il suo oggi storico alla luce del mistero di Gesù, ha trovato una risposta ai problemi che il quotidiano le rilanciava. Ha colto l'unità dell'amore a Dio e dell'amore all'uomo, nella consapevolezza che la radice del problema-uomo, la sua fondazione costitutiva, è Dio stesso, colui che Gesù chiama suo Padre.
Tra le tante alternative possibili con cui rispondere agli interrogativi della storia, essa ha sempre cercato quelle decisioni che permettessero ad ogni uomo di sentirsi amato da Dio; quelle capaci di consolidare la speranza e la fiducia nella vita oltre la morte; quelle che facilitassero la promozione dei poveri, dei piccoli, di quelli che non contano, per ricordare loro che di essi è il Regno dei cieli.
Anche oggi, la comunità ecclesiale trova nel principio dell'Incarnazione una riformulazione dei suoi compiti pastorali che la spinge a superare i dualismi e le false contrapposizioni. Per essere, in Gesù, la presenza del Padre accanto all'uomo. Per essere la salvezza dell'uomo.
L'evento-Gesù, infatti, propone l'obiettivo suggerendo il metodo con cui attuarlo. Chi ha incontrato Gesù, ha esperimentato in lui di essere amato da Dio, ha compreso che la propria vita ha un senso e si colloca in un grande progetto. In questo ha incontrato la salvezza e ha potuto pronunciare la propria decisione, provocata e sostenuta dalla profonda e sconvolgente esperienza fatta. Per costui accettare la salvezza di Gesù voleva dire scegliere la pienezza di vita, la libertà, la vittoria definitiva contro l'angoscia, la paura, la morte.
Fare pastorale significa ripetere oggi lo stesso itinerario: provocare e sostenere l'incontro con Dio che salva, facendo prima di tutto toccare con mano la presenza amorosa di Dio che in Gesù Cristo si è chinato sull'uomo; aiutare a scoprire la salvezza come un dono che si innesta nell'esistenza quotidiana e la fa nuova.
Il primato alla evangelizzazione
Il contenuto proprio della fede è dono da accogliere e non è il frutto di una ricerca. In ogni progetto di pastorale la «fedeltà all'uomo», esigita dal criterio dell'Incarnazione, non può essere realizzata che in una profonda «fedeltà a Dio». Esso è educazione alla fede perché afferma la priorità dell'evangelizzazione, e cioè all'annuncio del dono di Dio all'uomo.
Cosa significa evangelizzare?
Secondo l'esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi, è possibile individuare due componenti essenziali e complementari: la testimonianza e l'annuncio.
La testimonianza consiste nel vivere la vita di tutti gli uomini in un modo che interpella, in un modo così significativo da indurre gli altri a chiedersi perché lo facciamo. La testimonianza è quindi una realtà umana, che deve essere giudicata e determinata da criteri umani e ci consente di incarnare la proposta di fede.
L'annuncio, invece, è la comunicazione immediata e totale di Gesù Cristo. Esso interpreta l'impegno storico della testimonianza, collegandolo con il Regno di Dio. In questo rivela Gesù Cristo che è la fonte e la norma del Regno.
In questa prospettiva si comprende come la testimonianza e l'annuncio sono due momenti autentici e complementari di evangelizzazione: l'unico processo è fatto di testimonianza e di annuncio. La testimonianza senza l'annuncio è un segno non univoco, perché non richiama necessariamente a Gesù Cristo in modo esplicito. L'annuncio senza testimonianza diventa semplice diffusione di informazioni, parole e gesti non espressivi né significativi.
Che cosa si annuncia?
Attraverso l'annuncio non si comunicano delle cose da sapere, ma l'evento di salvezza che è Gesù Cristo. Si tratta quindi di un annuncio che deve dare un significato globale. Esso però va colto anche attraverso i suoi singoli aspetti, che rendono concreto l'evento, mediante le diverse formulazioni teologiche e culturali. Si annuncia Gesù come evento di Dio e si annuncia che Gesù è il Cristo, il Signore della storia, colui che ci chiama alla vita nuova, che costruisce la Chiesa...
In questo modo è possibile evitare un duplice rischio: in primo luogo quello di ridurre la fede ad un atto di pura volontà e decisione soggettiva che farebbe perdere la ragionevolezza della fede e quindi la possibilità di comunicarla; e in secondo luogo quello di considerare la fede un semplice «credere per vero», l'accettazione cioè di una serie di verità, invece di scoprire che essa è l'incontro sconvolgente con una Persona, incontro che ci modifica radicalmente.
Queste riflessioni ci permettono di formulare una definizione di evangelizzazione, da cui deriveremo in seguito suggerimenti molto importanti per elaborare un progetto di pastorale giovanile. L'evangelizzazione è una testimonianza-annuncio dell'evento salvifico di Dio nel Cristo e del messaggio in esso contenuto. Nello stesso tempo essa è pure interpretazione della realtà e della vita alla luce di tale evento.
Finalità specifica dell'evangelizzazione è di suscitare e far maturare nell'uomo la risposta di fede, cioè un'opzione di vita, libera, responsabile, totalizzante, per Gesù Cristo. Una fede pervasa di speranza e animata da un impegno di amore verso Dio, rivelatosi in Gesù, e verso gli uomini, amati da Dio e fratelli in Gesù Cristo. L'amore ai fratelli implica necessariamente un impegno promozionale di umanizzazione e di liberazione. La dinamica stessa della fede, tutta volta verso l'ortoprassi in un orizzonte escatologico di speranza, coinvolge, nella realtà concreta ed esistenziale, questo processo di liberazione, pur non identificandosi con esso. La definizione di evangelizzazione ci aiuta a comprendere che essa non è una azione singola, ma un processo, cioè una serie di interventi che gradualmente conducono all'adesione vitale e comunitaria a Gesù Cristo. L'ordine di questo processo varia a seconda dei destinatari, ma deve conservare alcuni elementi indispensabili. Li ricordiamo, perché sono normativi di ogni corretto progetto di pastorale giovanile. In primo luogo si richiede l'incontro esperienziale con l'evento che determina il contenuto dell'evangelizzazione: la persona di Gesù Cristo.
Questo incontro va poi espresso in termini culturalmente significativi: si richiede perciò l'adesione totale a questo evento, una adesione non solo esperienziale, ma anche conoscitivo-culturale. Infine, tutto ciò deve essere tradotto in «gesti celebrativi». Da una parte, celebrazione «nella» vita, e cioè elaborazione di una serie di comportamenti e di atteggiamenti nuovi, nei rapporti interpersonali, da «nuova creatura». E, dall'altra, celebrazione «della» vita, cioè crescita comunitaria che si realizza nella liturgia e nei sacramenti.
Il criterio dell'educazione alla fede
Abbiamo ricordato che l'evangelizzazione ha come contenuto fondamentale il mistero di Dio in Cristo. Questo annuncio ha un carattere trascendente, che supera ogni capacità di apprendimento da parte dell'uomo.
L'azione pastorale ha come compito condurre all'incontro personale con la Parola pronunciata nella rivelazione: Gesù Cristo. Si può educare a questo incontro?
La domanda è molto seria. Dalla risposta che viene data, si decide un modo di fare pastorale (di intendere, per esempio, il rapporto tra grazia e responsabilità umana, la funzione dei sacramenti, il significato della preghiera...).
La pastorale tradizionale era preoccupata più dell'oggetto della proposta (che cosa comunicare) che del soggetto (la condizione esistenziale, la maturità reale di «questi» giovani), perché rispondeva prevalentemente di no alla domanda. La fede, si diceva, è dono da accogliere, perciò non si può parlare di «educazione». Il riferimento all'evento dell'Incarnazione ci costringe, invece, a ragionare in modo diverso.
L'Incarnazione ci ricorda due grandi cose: la Parola di Dio è sempre «incarnata», assume cioè una sua visibilità umana, storica, per farsi vicina e accessibile all'uomo, in vista della fede; la risposta dell'uomo è sempre una risposta concreta, storica, «incarnata» nella sua vita e condizione, espressa attraverso mediazioni.
La fede è un atto che impegna tutto l'uomo nel più profondo del suo essere, che lo mobilita integralmente. Essa è sempre decisione e risposta umana, anche se sostenuta dal dono stesso, animata dallo Spirito Santo. Perciò è segnata da tutti i caratteri dell'umano: la progressività, per esempio, la storicità, la comunitarietà, la dipendenza dai condizionamenti ambientali e culturali. E questi sono tutti elementi sui quali si può intervenire attraverso i processi educativi.
Anche i segni della rivelazione (i segni biblici, liturgici, dommatici, storici) sono contrassegnati di dimensioni culturali che li rendono più o meno significativi per questo destinatario concreto. Il problema pastorale dell'educabilità alla fede è la logica conseguenza della distinzione tra il contenuto della rivelazione (il mistero di Dio in Gesù Cristo) e il segno storico in cui esso si incarna per manifestarsi; tra l'appello ad una risposta alla alleanza (l'evangelizzazione) e la decisione personale, libera e responsabile (la vita di fede).
Il criterio dei destinatari
Le riflessioni teologiche precedenti ci aiutano a scegliere un criterio operativo, decisivo per orientarsi nell'attuale intreccio di progetti e proposte, che possono disorientare.
Poiché la scelta di un modello pastorale ha come fine il raggiungimento di una matura crescita di fede da parte della persona concreta che ascolta la proposta di salvezza, questa persona deve diventare il principio discriminante che orienta verso una direzione anziché un'altra.
Dall'affermazione del criterio dei destinatari emergono alcune conseguenze, che sottolineiamo.
Prima di tutto viene giustificata la presenza di una pluralità di modelli pastorali che costituiscono le concrete risposte alle diverse situazioni che caratterizzano i giovani d'oggi, e quindi la positività e la necessità che le singole comunità abbiano una certa autonomia di impostazione e di realizzazione.
In secondo luogo, chiunque voglia porsi come evangelizzatore del proprio ambiente di vita, non deve farsi orientare dai suoi gusti e dalle sole cose che conosce, ma dai bisogni dei destinatari concreti. Deve perciò studiare a fondo la situazione sociologica e antropologica di fatto esistente.
In terzo luogo, questa scelta non obbedisce a fini strategici, per mettersi in dialogo con i giovani d'oggi, ma risponde ad una esigenza di modellarsi su Cristo che si è fatto pienamente e totalmente dei nostri, per condurci a sé. Il criterio dei destinatari è logica conseguenza della fede professata nel mistero dell'Incarnazione.
La funzione normativa della fede
Stiamo delineando gli atteggiamenti fondamentali da assumere, per definire un corretto progetto di pastorale giovanile.
Non siamo ancora entrati nei contenuti; ci siamo solo fermati alla soglia, affermando i «criteri» con cui vivere il processo.
Prima di concludere questo discorso, dobbiamo ricordare un'altra importante dimensione pastorale: la funzione normativa della fede. La riscoperta del principio dell'Incarnazione, con le conseguenze educative che abbiamo ricordato, mette l'accento sul rispetto dei destinatari e, quindi, sulla variabilità alla loro misura storica. Questo però non può farci concludere nel «relativismo» o nell'indebita riduzione del messaggio cristiano, cancellando dall'annuncio le cose scomode o quelle che non corrispondono agli interessi immediati dei giovani.
Gesù Cristo è la salvezza di Dio per l'uomo; va annunciato e incontrato nella sua sconvolgente totalità. Ci salva «incarnandosi»: quasi «svuotandosi», per farsi sulla misura delle condizioni concrete di ogni persona e di ogni cultura. Ma si incarna per «salvare»: per comunicare a tutti una vita e un annuncio che è radicale dono di Dio, da accogliere nella sua pienezza e alterità, che i supera e ci giudica.
In questa doppia attenzione si comprende il rapporto tra crescita oggettività.
Il confronto con l'evento di salvezza che è Gesù Cristo (testimoniato nella storia della comunità ecclesiale) garantisce la radicazione del dono di Dio. Da questo confronto nasce la progettualità, la crescita nella creatività, come sviluppo e definizione sempre nuova di quello che ci è stato donato e che ci costituisce come «persone salvate».
Queste riflessioni hanno un peso importante nell'azione pastorale: dobbiamo salvare la «normatività» che compete alla fede, proprio mentre se ne vive la «relatività» alle persone e condizioni storiche. In caso contrario non si fa pastorale, perché non si educa alla fede né si fa esperienza di salvezza: non c'è salvezza se non nella potenza di Dio e non c'è fede se non nell'adesione incondizionata alla sua Parola. Lo ricorda in modo suggestivo la lettera agli Ebrei: «La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono» (11,1). Per essa ci giochiamo, accettando di entrare in un progetto che ci supera mentre ci interessa profondamente, perché ci parla di quello che siamo e viviamo.
VERSO UN ORIZZONTE PER LA PASTORALE GIOVANILE OGGI
Per educare alla fede i giovani dobbiamo chiederci «chi sono»: dobbiamo ascoltarli, condividere in modo riflesso la loro condizione, rispettare il livello di maturità soggettiva.
Questa è una conclusione «pastorale», legata cioè alla fede e alle dimensioni tipiche del ministero pastorale.
I grandi «nodi» dell'esperienza cristiana oggi
Non è questo il contesto adeguato per fare una descrizione della nuova condizione giovanile. Assumiamo soltanto le conclusioni degli interventi specialistici, per sottolineare alcuni punti nodali che interessano da vicino l'esperienza cristiana.
Una dimensione della nuova condizione giovanile che emerge frequentemente nelle descrizioni socioculturali, è costituita dalla attenzione concentrata sul presente, sull'immediato. Questo fatto è un valore innegabile, perché costringe a non fuggire dalla vita; ma, contiene i pericolosi scompensi di una mancanza di storicità e di prospettiva, che sfociano poi nell'angoscia e nel disimpegno.
La condizione giovanile attuale è inoltre attraversata da due grossi problemi che hanno immediata ripercussione sull'esperienza cristiana: il rapporto tra privato e pubblico, per definire il significato della «persona», evitando di slittare nell'individualismo borghese o in una politicizzazione spersonalizzante; il rapporto tra fede e storia, per coniugare in modo corretto trascendenza e immanenza, responsabilità e disponibilità all'accoglienza, «speranze umane» e salvezza di Gesù Cristo.
In questi anni si è riflettuto molto su questi argomenti: il problema sembra ormai risolto sul piano intellettuale. Mancano però i «modelli», le realizzazioni concrete, che facciano toccare con mano le soluzioni prospettate: i giovani ci capiscono soprattutto facendo esperienza. È per questo che le difficoltà restano; anzi sembrano acuirsi.
La rapidissima evoluzione culturale, di cui i giovani sono pronti e facili catalizzatori, ha prodotto, infine, la crisi del linguaggio ecclesiale e la conseguente insignificanza delle tradizionali mediazioni linguistiche. Parliamo di linguaggio in un senso totale, come traduzione (mediante parole, gesti, riti e simboli) della prassi e della visione del mondo che costituiscono una determinata cultura. Il linguaggio ecclesiale, quasi totalmente, è legato ad una cultura lontana da quella dei giovani d'oggi. Utilizza espressioni che per essi non sono più evocative (salvezza, servizio, «i beni della terra e quelli del cielo»...); si esprime attraverso riti e simboli poco comprensibili; privilegia l'approccio logico-razionale in un tempo di larga comunicazione non-verbale. Si condanna, quindi, a non farsi capire, né soprattutto può parlare alla vita.
Si rende urgente la decodificazione di tanti messaggi: sceverare il nucleo irrinunciabile dal rivestimento antropologico con cui esso viene mediato; per operare una nuova codificazione in una «cultura» capace di rispettare l'irrinunciabile della fede e la significatività per i destinatari.
Questo problema è complicato da una facile costatazione: il pluralismo culturale sta sostituendo quella omogeneità che caratterizzava il «mondo cattolico». Riesce difficile immaginare un unico linguaggio, che possa risultare quello finalmente adatto, perché il rapporto fede-cultura non avviene in uno spazio neutro, ma dentro il groviglio delle molte culture che oggi si incrociano, soprattutto a livello giovanile.
La significatività esistenziale come orizzonte per la pastorale giovanile
Come superare queste difficoltà? Si può ipotizzare una mediazione linguistica così generale, da poter risultare la precomprensione da cui muovere la successiva ricerca di opzioni?
Per noi l'orizzonte in cui collocare oggi l'educazione alla fede dei giovani è determinato dalla significatività esistenziale.
La proposta deve apparire a ciascuno come proposta carica di senso (e non solo oggettivamente vera), di senso salvifico (risposta esistenziale ai problemi emergenti dal quotidiano), per trasformare la vita in dossologia. Analizziamo i tre aspetti.
Una proposta che ha senso
Le proposte che hanno come obiettivo la diffusione di nuove informazioni, sono accettate o rifiutate in base al criterio vero-falso. Il problema del senso è di poco conto. La dimostrazione di un teorema matematico o di una legge fisica poggia la sua forza sulla razionalità e sulla evidenza logica dei passaggi. Se è vera, l'assenso intellettuale è assicurato. Non ci si interroga su che cosa tutto ciò dica alla vita quotidiana. La cultura intrisa di razionalismo che ha caratterizzato, per un certo tempo, anche la pastorale, ha spinto a riprodurre gli stessi schemi nell'educazione alla fede.
Il nuovo contesto culturale ha capovolto le prospettive. Tutto centrato sull'immediato e sul funzionale, rifiuta la fredda razionalità.
Il problema è soprattutto questo: che senso ha la proposta per la vita quotidiana? Cosa dice di importante? Come coinvolge le esperienze?
L'orizzonte è la ricerca di senso, la significatività soggettiva. Ogni proposta di pastorale giovanile non è prima di tutto percepita come vera o falsa, ma come piena o priva di senso. Dopo aver valutato cosa essa possa dire alla quotidiana esperienza, inizia il processo di verificazione e di approfondimento.
Quando la proposta è avvertita come importante-per-me, può nascere il coinvolgimento personale.
Una proposta che ha senso di salvezza
Per definire l'orizzonte in cui collocare la pastorale giovanile, la ricerca di senso è una dimensione importante, ma non sufficiente. In questa posizione siamo solo nella logica corrente. Il consumismo procede infatti nella stessa direzione. Ogni sua proposta è un senso all'esperienza quotidiana. Fino all'assurdo di manipolare le attese, per offrire così risposte piene di senso, perché collegate con queste attese indotte.
Per la pastorale giovanile rifiutiamo questo livello superficiale. Il messaggio cristiano non fa concorrenza con i prodotti che danno senso alla vita di un cittadino della civiltà dei consumi.
Nel profondo delle attese di molti giovani c'è il dramma dell'esistenza umana continuamente minacciata.
Sentiamo che è difficile vivere autenticamente l'essere uomo, per noi e per gli altri. C'è il problema dei contenuti per definire l'autenticità umana e quello della speranza sulla realizzazione. La lotta quotidiana per essere uomini e per permetterlo a tutti di esserlo. Quando a fatica si costruisce un brandello serio di umanizzazione, ci si accorge come ci rilanci verso orizzonti più vasti. Su tutto, poi, incombe la minaccia dello scacco: svuotamento, perdita di senso, morte.
Chi è l'uomo? Chi dà salvezza a questo uomo?
L'attenzione all'umano minacciato è il denominatore comune alle attese più profonde. Forma un orizzonte di senso molto generale e molto vivo. È il segno condiviso di un linguaggio davvero universale, oggi soprattutto.
La proposta pastorale per i giovani ha senso, se è il senso di salvezza all'autenticità del quotidiano essere uomo.
Una proposta che trasformi la vita in dossologia
È finalmente questo l'orizzonte adeguato per la pastorale giovanile? L'attesa di significato e di salvezza per una vita vissuta continuamente sotto la minaccia dello scacco, esprime fondamentalmente un'esperienza umana.
Se la pastorale si qualifica come educazione alla fede, proposta di un dono trascendente di salvezza, questo orizzonte è sufficiente? L'attesa di senso è un fatto umano. Ma non solo questo.
Quest'uomo quotidiano è più grande di se stesso. Per dono è capace di scoprire come la sua attesa di significato sia costitutivamente ricerca appassionata di Dio e come la salvezza di Gesù Cristo sia la salvezza al suo desiderio di essere uomo autentico. Quando l'uomo annaspa nella faticosa costruzione di un senso alla propria vita, di una speranza alla problematicità della realtà, l'uomo cerca Dio. Chiama «per nome» (cf RdC 198) Gesù Cristo, «il» salvatore.
Evangelizzare è rivelare che questa ansia è attesa viva di Gesù Cristo, è il segno efficace della sua Pasqua.
Il salto di prospettiva, dall'umano al trascendente, gli è congeniale, in Gesù Cristo. Anzi, solo in questo orizzonte umano di attesa di significato e di salvezza, il salto verso l'Altro-da-sé gli è possibile; perché solo a chi è in trepida attesa di personale salvezza, Gesù Cristo, la salvezza di Dio, ha qualcosa di serio e di definitivo da donare.
Nell'incontro con Gesù Cristo l'uomo trova un significato nuovo a al suo esistere di sempre. Scopre che la sua vita quotidiana gli è restituita «salvata», con una significatività che la invera e la supera. Salvato per dono, l'uomo diventa capace di vivere la vita di ogni giorno in un orizzonte che coinvolge, in ogni battuta, l'amore del Padre. Questa vita diventa così un inno di ringraziamento al Padre, in Gesù Cristo. È dossologia: canto al Padre, nella sua quotidiana profanità, da poter essere celebrata con verità nei momenti liturgici. Le cose di sempre assumano i toni dell'incontro, piccoli quotidiani gesti dove si fa esperienza di un modo nuovo di essere uomo, perché amato dal Padre, salvato in Gesù Cristo, restituito ad una reale comunione con tutti i fratelli.
L'OBIETTIVO DELLA PASTORALE GIOVANILE: INTEGRARE FEDE E VITA
Attraverso i criteri e la definizione dell'orizzonte globale, ci siamo dati gli orientamenti generali e la segnaletica per definire il progetto di pastorale per i giovani d'oggi. È necessario ora stabilire l'obiettivo preciso a cui vogliamo giungere. Esso è, in fondo, il criterio decisivo che giudica la prassi e permette di stabilire gli interventi operativi.
Ci aiuta in questa ricerca «Il rinnovamento della catechesi»: «La fede è virtù, atteggiamento abituale dell'anima, inclinazione permanente a giudicare e ad agire secondo il pensiero di Cristo, con spontaneità e con vigore, come conviene a uomini giustificati. Con la grazia dello Spirito Santo, cresce la virtù della fede se il messaggio cristiano è appreso e assimilato come buona novella nel significato salvifico che ha per la vita quotidiana dell'uomo. La parola di Dio deve apparire ad ognuno come una apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni. Diventerà agevolmente motivo e criterio per tutte le valutazioni e le scelte della vita» (RdC 52).
Questo testo è molto ricco. Ci permette di tracciare con molta precisione l'obiettivo dell'attuale pastorale giovanile.
Il fatto: siamo nuove creature
La riflessione teologica ci orienta verso una affermazione di grande peso pastorale: in Gesù Cristo siamo «nuove creature». La nostra esistenza ha un significato e una dimensione che la trascende. Nella sua autenticità profana, essa è esperienza di salvezza, è risposta al dono di amore del Padre, è costruzione del Regno.
Utilizzando un linguaggio abbastanza espressivo e teologicamente fondato, possiamo dire che la vita di ogni uomo è segnata, contemporaneamente, di «provvisorio» e di «definitivo». Il provvisorio consiste nelle modalità concrete dell'esistenza quotidiana, in quanto profana. Il definitivo consiste nelle modalità proprie della vita di Dio, partecipata agli uomini in Gesù Cristo, ossia nell'amore trinitario in cui è specificata l'originalità cristiana. La vita umana è vita di questo nostro mondo, costruzione nel tempo, nella finitezza dell'orizzonte storico. E insieme vita in cui si costruisce l'esistenza del Regno, nella comunione totale con Dio. In questo senso, possiede la doppia modulazione di provvisorietà e di definitività. In Gesù Cristo, il dono della definitività investe e risignifica la provvisorietà della nostra esistenza, fino a diventare dimensione costitutiva, fondamento ontologico della vita quotidiana. Tutto questo sul piano oggettivo. Come dato di fatto che supera la soggettiva presa di coscienza.
Colui che «è» nuova creatura, deve averne la gioiosa personale consapevolezza. Deve scoprire nella quotidianità della sua vita, che ogni gesto in cui è in causa la sua serietà umana, apre alla trascendenza.
Il significato operativo della formula «integrazione fede-vita»
La formula «integrazione fede-vita» traduce in progetti operativi la costatazione teologica che siamo di fatto nuove creature e l'esigenza, egualmente teologica, di far emergere questa consapevolezza, aiutando ciascuno ad incontrare soggettivamente Gesù Cristo fondamento della sua esistenza.
Integrare fede e vita significa lavorare sul piano educativo per formare un'unica struttura di personalità i cui criteri valutativi e operativi (e cioè il modo di comprendere la realtà e di intervenire su di essa; in una parola: la vita quotidiana) si rifanno al messaggio cristiano, non come ad un dato imposto dal di fuori, ma come ad una esigenza connessa con l'esperienza della vita stessa, dei valori umani che la caratterizzano. La compenetrazione dei significati umani e religiosi, per diventare criterio valutativo e operativo, deve essere fatto cosciente, riflesso, soggettivamente condiviso: struttura di personalità.
Se nei singoli gesti non ci si riferisce in modo unitario ai valori umani e ai contenuti della fede, le esperienze umane sono difficilmente «autentiche». Come minimo, esse sono deprivate del loro significato più globale, che è la dimensione di definitività connessa con quel gesto. Se nei gesti tipicamente religiosi non ci si sente in causa con tutta la propria vita; oppure se i fatti umani, anche quelli più banali, non hanno nessun consapevole riferimento alla fede e alla salvezza (e cioè a Gesù Cristo), gli uni e gli altri non sono né autenticamente umani né autenticamente cristiani. In questo caso di disintegrazione tra fede e vita, i gesti religiosi sono alienati dalla vita umana e l'esperienza umana è bloccata nel cerchio disperato della sua immanenza, resta senza risposte agli interrogativi fondamentali della vita. La salvezza è un affare così lontano, così fuori dalla storia concreta, da essere principio di fuga, di evasione, di rifugio in un aldilà alienante.
La riunificazione dei contenuti della fede con le esperienze storiche della vita (l'integrazione tra la fede e la vita) fa invece del dono della salvezza e dei contributi della fede, l'autenticità esistenziale di ogni umana esperienza, il suo significato più pieno e la fonte della sua responsabilizzazione.
La fede appella alla vita per essere vissuta; la vita guarda alla fede, per essere creduta.
Il ruolo della fede nella struttura di personalità
Per raggiungere l'integrazione fede-vita la fede deve trovare una collocazione adeguata nel quadro dei valori esistenziali, dove viene vissuta come qualcosa di naturalmente connesso con il resto della propria personalità e non di aggiunto dal di fuori.
Perché la fede eserciti questo ruolo nel quadro dei valori, devono essere realizzate tre esigenze.
In primo luogo la fede deve poter esercitare una funzione di selezione rispetto agli stimoli dell'ambiente che vengono assunti per elaborare i propri orientamenti di vita. In secondo luogo la fede deve orientarci verso alcune direzioni di scelta, come un fascio di intuizioni che, senza essere troppo strutturate, hanno però un grosso peso per gli orientamenti pratici. Questi primi due compiti hanno la funzione di dirigere e selezionare l'attenzione e le percezioni del soggetto nelle situazioni di vita. Infine, compito della fede è di richiamare alla memoria un grappolo di nozioni e contenuti dottrinali, connesso e collegato ad una globale interpretazione della vita. Questo terzo compito offre il sostegno ai due precedenti. Essi, infatti, non sono un processo soggettivo, il cui criterio di verità è la sola decisione personale. Sono invece espressione soggettiva di contenuti oggettivo-normativi.
Con espressione molto felice, «Il rinnovamento della catechesi» sintetizza questo importante discorso, ricordando che nutrire e guidare la mentalità di fede significa «educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo» (RdC 38).
Un unico processo educativo
Per realizzare una matura compenetrazione, sul piano dell'esistere concreto, dei contenuti della fede e delle esperienze di vita, non vi sono due processi di educazione, uno per i valori profani e uno per i valori religiosi. Ve n'è uno solo, in cui l'individuo elabora un quadro unitario di valori che possono essere organizzati a fondo dai valori religiosi.
La pastorale giovanile diventa così il principio unificante dei vari itinerari di maturazione. Totalizza il processo di crescita, non perché chiede alle scienze dell'educazione di dipendere da essa, ma perché offre nella fede il significato ultimo e totale di ogni autentica maturazione umana; perché nella fede orienta le scelte dei vari processi verso un progetto di umanizzazione veramente a misura d'uomo; e perché, soprattutto, annuncia e attualizza quel dono di salvezza che fa ogni uomo capace di comunione piena con Dio e con i fratelli.
VERSO L'INCONTRO PERSONALE CON GESÚ CRISTO
L'integrazione tra fede e vita richiede la scoperta personale di Gesù Cristo, l'incontro sconvolgente e radicale con lui. L'obiettivo del nostro progetto di pastorale giovanile non è un dato solo culturale, ma è un fatto esistenziale, che investe tutta la persona. Esso si realizza solo quando avviene un confronto tra le domande che la vita pone e le risposte che la fede offre, in un clima di profonda disponibilità e di capacità di accoglienza. Il segno di Dio nel mondo, che solo rende univoci e certi tutti gli altri segni, per i cristiani è Gesù Cristo. Egli è il segno e il testimone della fede. Da lui deve partire ogni fondazione della fede. Con lui sta o cade la fede cristiana.
L'incontro personale con Gesù Cristo è quindi l'obiettivo normativo di ogni azione pastorale e, nello stesso tempo, condizione indispensabile di quella reale integrazione tra fede e vita che è la misura dell'autenticità della vita cristiana.
Quale Gesù Cristo
Nella storia della Chiesa esistono diverse cristologie. Questo dato ci ricorda che l'unico volto di Gesù Cristo si è incarnato in culture e situazioni diversificate. Anche noi dobbiamo incarnare questo evento di Dio nelle esigenze e nelle aspirazioni dei giovani d'oggi, perché sia veramente «salvezza» per loro.
Tenendo conto degli orientamenti generali del nostro progetto, possiamo suggerire i tratti fondamentali del volto di Gesù Cristo da annunciare ai giovani d'oggi.
Gesù Cristo è colui che dà senso alla vita
Come risposta alla ricerca di senso, alla tragica esperienza del troppo nonsenso diffuso nella nostra storia, il Padre ci dona il suo progetto in Gesù Cristo. Egli è la certezza di senso, che sostiene la nostra speranza e la nostra ricerca.
Gesù Cristo testimonia che la storia ha un senso. Dunque si può e si deve annunciare l'esistenza di un progetto, di una proposta: non viviamo nel buio, nel caos.
Questo senso è già stato donato da Dio alla storia, in Gesù Cristo. È un già che fonda la nostra speranza. Questo senso ha già cambiato la realtà. Ogni situazione è già presenza di Dio. Esiste perciò una sacramentalità diffusa, che ci costringe a credere alla vita, al cammino in avanti della storia, che ci permette di riconoscere e di affermare la responsabilità di ogni uomo, la consistenza e la serietà di ogni sforzo umano.
Scopriamo così che la nostra esistenza è collocata in una costellazione di valori, di cui uno è assoluto (la radicalità dell'evento di Dio che è Gesù Cristo, segno del Padre: «solo Dio è Dio», affermiamo in atteggiamento credente, riconoscendo con gratitudine il dono per cui esistiamo, siamo e speriamo). Questo non è l'unico valore, anche se è l'unico assoluto. Esistono tanti altri valori, relativi ma non meno carichi di significato: quelli che si riferiscono all'autonoma avventura dell'uomo nella storia. La distinzione tra valore assoluto e valori relativi salva dall'integrismo perché distrugge i nuovi idoli. La loro reciproca integrazione sul tema della sacramentalità salva dall'ateismo.
Gesù Cristo è profeta di ulteriorità
Contro la tentazione di fissarsi nei vari significati parziali (che ci lasciano così frequentemente con le mani vuote), Gesù Cristo ci costringe ad andar oltre, verso la definitività del Regno, il senso ultimo e totale dell'avventura dell'uomo e della storia.
È importante cogliere che questo «andar oltre» in Gesù Cristo non ci viene offerto solo sul piano del modello, della «pretesa». Non è solo una spinta, una tensione. Tutto questo ci lascerebbe maggiormente inquieti. E non ne abbiamo affatto bisogno, in un tempo già così carico di motivi di inquietudine. In Gesù Cristo è un dono: un fatto. Egli è l'evento di salvezza di Dio per noi, proprio perché ci colloca ontologicamente nell'«oltre»: il Regno è il dono suo che già ci coinvolge e ci afferra. Le nostre quotidiane incertezze e le nostre pretese di speranza sono «salvate», collocate nel Regno. La nostra speranza si costruisce su questa professione di fede.
Identificarsi con il progetto di Gesù Cristo: la «vocazione»
L'incontro con Gesù Cristo è diverso da tutti gli altri incontri umani. Esso, infatti, non è mai immediato, ma, per la logica dell'Incarnazione, passa attraversa «mediazioni»: l'umanità di Gesù di Nazareth, la comunità ecclesiale, la parola di Dio, i sacramenti, il fratello, le esperienze di vita...
Queste mediazioni manifestano l'evento di Dio, ma, nello stesso tempo, lo «nascondono» sempre un poco: sono veramente un appello alla nostra libertà e responsabilità.
C'è un criterio che ci aiuti a verificare quando l'incontro con Gesù Cristo è vero, autentico?
L'incontro vivo con Gesù Cristo deve far emergere nel credente il vero «uomo nuovo». La novità di vita è il segno concreto della «sequela Christi» Si tratta, infatti, di un incontro vitale, da persona a persona, che cambia dall'interno, per cui, secondo San Paolo, Cristo diviene la vita del suo amico.
Incontrare Gesù Cristo, coinvolgendo tutto di sé, significa inoltre condividere profondamente l'ansia di Gesù per il Regno fino ad identificarsene con radicalità. Solo facendo propria questa causa, che è il contenuto stesso dell'esistenza di Gesù Cristo, lo si incontra in verità.
Il Regno è un dono che convoca e responsabilizza ogni uomo e ogni credente. Consiste in quella comunione definitiva con Dio che Gesù Cristo ci ha assicurato. Ma si costruisce anche nelle sue anticipazioni storiche: in una novità di esistenza realizzata nei diversi processi di liberazione.
L'incontro con Gesù Cristo comporta la condivisione di tutto questo: accogliere la sua chiamata, annunciare il dono di libertà che ci ha trasformato, costruire un modo nuovo di vivere da persona, in una società più liberante.
Questa è la vocazione del cristiano. Le sue diverse espressioni sono realizzazioni concrete e complementari di questa unica grande chiamata.
IMPERATIVI ALL'AZIONE PASTORALE: SUGGERIMENTI METODOLOGICI
Abbiamo fatto una serie di opzioni, soprattutto teologiche, per delineare un quadro di pastorale giovanile. Dall'insieme di queste proposte è nata la nostra definizione di pastorale giovanile.
Le riflessioni maturate sono un punto d'arrivo. Ed un criterio con cui verificare le scelte a piccolo cabotaggio che quotidianamente ogni operatore pastorale è chiamato a fare.
Dalle opzioni teologiche si deve passare ad un tracciato metodologico, capace di determinare un cammino concreto, almeno a grandi linee. Quale? Il processo avviene mediante un confronto tra il dato della fede e le condizioni storiche. Anzi, per fare le cose più concrete, il processo avviene secondo il criterio già pastorale dell'integrazione tra fede e vita.
A quali condizioni la fede parla così espressivamente alla vita dei giovani da porsi come il significato decisivo dell'esperienza personale? E a quali condizioni la vita è così aperta al dono della fede, da accettarlo come criterio valutativo e operativo?
Si noti: le domande non possono essere poste in astratto, pensando al depositum fidei o alla esperienza umana nella sua oggettività. Dobbiamo misurarci con la fede cristiana, oggi-qui.
In questo spirito cerchiamo gli «imperativi» alla pastorale giovanile, emergenti dalla condizione giovanile attuale: ricerchiamo cioè quelle linee contenutistiche e metodologiche che si propongono come orientative oggi, se vogliamo raggiungere l'integrazione fede-vita in questi concreti giovani.
Educazione alla fede nell'educazione liberatrice
L'annuncio di fede trova un terreno disponibile solo in coloro che sanno farsi interrogare dalla propria vita. A molti giovani la vita non pone problemi alla fede perché è vissuta in termini disumanizzanti. Bisogna restituire l'uomo a se stesso, per permettergli di scoprire l'importanza esistenziale del dono di salvezza che Dio gli offre, in Gesù Cristo.
Per questo scegliamo come metodo globale l'educazione alla fede all'interno di un processo di educazione liberatrice e umanizzante, che restituisca ai giovani la capacità di farsi interrogare seriamente dalla propria vita.
Questo metodo pastorale parte perciò dalla vita del giovane, essa stessa rivelazione delle intenzioni di Dio e suo intervento salvifico, con l'intento di far vedere ed esperimentare la salvezza di Dio presente e operante in ogni persona, che interpella la libertà e la responsabilità di ciascuno.
Tutto ciò significa, in termini operativi, che è indispensabile partire dalle domande spontanee dei giovani (parliamo, evidentemente, di domande non in senso culturale ma esistenziale), ma nello stesso tempo che è urgente «educare le domande», per far emergere le dimensioni più profonde e impegnative dell'esistenza. Molte domande sono infatti indotte; è il sistema culturale in cui viviamo che spinge in determinate direzioni, manipola le domande per smerciare le sue risposte. In questo caso bisogna liberare le domande, offrendo ai giovani la fondamentale capacità di autoprogettarsi.
Altre volte, le domande sono originate da fuga, da senso di insicurezza. Anche in questo caso bisogna educare le domande nella direzione della liberazione, per evitare che l'esperienza religiosa diventi alienante.
Ogni giovane, in prima persona, nell'autonomia e responsabilità che gli compete, deve dare la sua risposta alle domande di senso e di qualità che la vita gli propone, ritrovando la fiducia nella sua esperienza esistenziale. Solo in questa riscoperta della propria positività, nella assunzione di una precisa responsabilità storica e nella coscienza della finitezza esistenziale dentro la responsabilità personale, la Parola di Dio ha qualcosa da dire. È un di più di significato che colloca in una prospettiva trascendente; è un progetto gratuito e sconvolgente che radicalizza il proprio desiderio di autenticità e lo indirizza verso una liberazione integrale, personale e collettiva.
Queste annotazioni danno un tono concreto a quel criterio fondamentale della pastorale giovanile fissato, nel primo paragrafo, come rapporto tra educazione e evangelizzazione.
Fare proposte facendo «fare esperienze»
La comunità ecclesiale ed ogni cristiano al suo interno sono chiamati a ritrovare il coraggio di fare la propria proposta. Lo richiede la radice stessa del cristianesimo: è «buona novella». È cioè annuncio di una proposta, il grande progetto di Dio sull'uomo e sulla storia, realizzato in Gesù Cristo. Molti giovani sono in crisi di prospettive: non hanno progetti, sono concentrati solo sull'immediato.
Muoversi nella realtà senza un progetto, in termini spontaneistici o solo alla cieca, significa contraddire l'esperienza cristiana. Si richiede quindi la ricostruzione, lenta e graduale, della fiducia e della speranza; scoprirsi dentro un progetto, annunciato e testimoniato dalla comunità ecclesiale.
Dobbiamo però fare alcune precisazioni, di ordine metodologico. Il progetto annunciato è un piccolo seme, da far crescere e sviluppare nell'incertezza e nella ricerca quotidiana: per il cristiano, tutto è fatto, ma tutto è da fare (contro una fede pensata come proposta di modelli elaborati e definiti in modo ultimativo). Inoltre non si può dimenticare che i contenuti passano sulle esperienze che li veicolano. Molto spesso la loro significatività è giocata totalmente sulle mediazioni. Non esiste perciò proposta cristiana se non «facendo esperienza». Lo richiede lo statuto della fede: è esperienza prima di essere contenuto, un'esperienza carica di contenuti. Lo richiede appassionatamente la nuova condizione giovanile.
La vita sacramentale come «celebrazione» della vita nuova
L'itinerario formativo di un giovane cristiano deve condurre ad una novità di vita e alla celebrazione di questa vita nuova nella Pasqua del Signore: uno stile di vita da «nuova creatura» e la celebrazione della vita che si fa gradualmente salvata, nella espressione liturgica e sacramentale della comunità ecclesiale. Ce lo richiama anche «Il rinnovamento della catechesi»: «(La pastorale) intende portare alla maturità della fede attraverso la presentazione sempre più completa di ciò che Cristo ha detto, ha fatto e ha comandato di fare. Abilita l'uomo alla vita teologale, vale a dire all'esercizio della fede, della speranza, della carità nelle quotidiane situazioni concrete: dà luce e forza alla fede, nutre la vita secondo lo spirito di Cristo, porta a partecipare in maniera consapevole e attiva al mistero liturgico ed è stimolo all'azione apostolica» (RdC 30).
È importante, però, sottolineare una preoccupazione metodologica: questi orientamenti vanno proposti e vissuti nello stile dell'integrazione fede-vita e cioè in coerenza con le scelte di fondo del nostro progetto.
L'accento è sulla vita quotidiana, perché qui si gioca la risposta personale al dono di salvezza. Essa, nella sua profonda radicalità, è sempre adesione o rifiuto al dono di Dio che è Gesù Cristo, fedeltà all'alleanza o assurda pretesa di salvarsi autonomamente. La Parola di Dio, la comunione ecclesiale, i sacramenti sono realizzazioni di salvezza in una dimensione di «celebrazione», di segno efficace, in quanto attualizzano il mistero pasquale di Cristo nella nostra vita e collocano, in termini sacramentali, la nostra vita nel suo mistero pasquale. Sono i segni di una novità di vita che per la potenza della pasqua di Cristo che rendono presente qui-ora, si sta faticosamente costruendo nella vita quotidiana. Celebrano quel modo di esistere come «uomini nuovi» che ciascuno tenta di attuare, nel ritmo di una conversione permanente, confrontando la propria vita con quella di Cristo.
Di queste celebrazioni, il giovane cristiano avverte il profondo bisogno, non solo per esprimere nella comunità ecclesiale la comune esperienza di salvezza; ma soprattutto perché in esse trova la consistenza di quella salvezza che nella vita si realizza faticosamente, sotto la continua minaccia del rifiuto e dello scacco. Senza queste celebrazioni difficilmente si potrebbe vivere da salvati o si potrebbe continuare a credere alla salvezza, provocati come siamo dalla triste esperienza del peccato, personale e sociale.
Inventare nuovi spazi di aggregazione
Tra le attese dei giovani d'oggi, una delle più vive è quella relativa al recupero del personale dentro il sociale. In troppi questo recupero sfocia nella privatizzazione e nello spontaneismo.
L'esperienza cristiana possiede una forza aggregante esplosiva, fonda la dimensione di festa, fa spazio alla irripetibilità della persona anche nei momenti più fortemente comunitari. Tutto questo è vero sul piano dei principi. Lo deve diventare su quello dei fatti, delle realizzazioni.
Troppe comunità ecclesiali hanno perso questa carica aggregante. Si richiede il coraggio della «rifondazione» e, soprattutto, l'invenzione di nuovi luoghi di aggregazione.
Ci sembra, del resto, questa l'unica strada praticabile per riscoprire il senso della Chiesa e la gioia di viverne l'appartenenza.
La dimensione del collettivo: un'esperienza ecclesiale
La pastorale giovanile ha condotto per molto tempo gli interventi educativi sul livello prevalentemente individuale. Le istituzioni normalmente deputate all'educazione dei giovani (la scuola, la famiglia, il gruppo, la parrocchia...) fornivano l'occasione al dialogo educativo. Non erano considerate un luogo di esperienza di valori, con una carica strutturale e collettiva; ma come luogo in cui gli educatori facevano le proposte, in un approccio «a tu per tu». Inoltre tutto il processo era settoriale rispetto all'andamento globale della comunità ecclesiale, gestito da educatori e in ambienti specializzati.
È indispensabile superare questi limiti, riscoprendo la risonanza strutturale e collettiva della pastorale giovanile. È necessario creare un nuovo contesto globale e dinamico dentro il quale tutte le parti collaborino vicendevolmente alla realizzazione dei comuni obiettivi. La pastorale giovanile ha significato come «pastorale specializzata» di tutta la comunità ecclesiale.
Questa esigenza comporta molte cose concrete. Ne ricordiamo alcune. In primo luogo, unificare la pastorale giovanile nella pastorale della comunità ecclesiale significa coordinare l'obiettivo e i metodi della educazione pastorale dei giovani alle scelte con cui si caratterizza ogni concreta comunità ecclesiale.
Inoltre, l'esigenza ci aiuta a non dimenticare che il termine del processo è l'inserimento dei giovani a tutti i titoli nella comunità. Questo concreto e fattivo senso di appartenenza può essere creato solo in modo esperienziale: attraverso un progressivo inserimento nella comunità ecclesiale, in stile di partecipazione e di corresponsabilità.
La presenza dei giovani nella comunità ha, infine, anche la funzione di animare la sua concretezza pastorale: le comunità ecclesiali che sanno dialogare con i giovani sono vivificate da una sensibilità missionaria che si allarga a tutte le altre funzioni pastorali. Come si vede, l'esigenza ha una radice educativa: l'importanza della dimensione collettiva nella maturazione dei giovani. Ma apre immediatamente da una risonanza ecclesiale, perché diventa la condizione irrinunciabile per costruire oggi quel senso di appartenenza alla Chiesa, di cui si è parlato poco sopra.
PER FEDELTÀ AI DESTINATARI, UNA LARGA PLURALITÀ DI MODELLI
Abbiamo tracciato un percorso, a grandi tappe. L'itinerario evidenziato ha la pretesa di essere coerente con alcuni orientamenti teologici generali, ricordati in apertura, e articolato, perché investe la globalità dell'esperienza cristiana, anche se secondo linee molto sintetiche.
Le concretizzazioni spicciole possono essere molto diverse. A queste condizioni il pluralismo è ricchezza, perché coniuga l'imprevedibilità del dono di salvezza (mai riducibile alle nostre categorie e mai catturabile in esclusiva da una visione culturale) con i molteplici volti della nuova condizione giovanile. Questo significa rispetto ai destinatari (RdC 75).
La scelta dei destinatari, come criterio operativo ultimo, aiuta a districare il groviglio dei problemi che hanno la loro origine nel pluralismo culturale in cui viviamo. Spinge a preferire un metodo all'altro, evitando che il pluralismo degeneri in pressappochismo pratico. Ma, nello stesso tempo, motiva la pluralità dei modelli di pastorale giovanile e ne fonda il diritto di cittadinanza nella pastorale ecclesiale, come concrete risposte alle diverse situazioni che caratterizzano l'attuale condizione giovanile.