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    Dalla parte dei pochi: la questione delle minoranze


    Educare alla Costituzione /7

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2011-05-66)


    Per quanto «minore» possa essere
    una minoranza,
    la verità è sempre la verità
    (Gandhi)

    Affascinato e al contempo spaventato dall’idea di unanimità, il popolo giudaico aveva trovato un interessante contrappeso per bilanciare i rischi ad essa connessi: il tribunale che emettesse una sentenza di morte all’unanimità doveva rilasciare l’imputato; ma il tribunale che per questo motivo smettesse di giudicare era un tribunale indegno. A proposito della pena capitale, cioè della più grave che un tribunale potesse comminare, si cercava di limitare il rischio che l’unanimità fosse raggiunta per adeguamento della minoranza alla maggioranza o per conformismo: ma questa sottolineatura della imperfezione degli uomini e delle loro strutture non permetteva di sottrarsi al rischio dell’errore rinunciando a compiere il proprio dovere. Commenta Paolo de Benedetti:
    «Al Sinedrio pareva impossibile che un voto unanime fosse umano, cioè ponderato e razionale. Viceversa agli uomini che non hanno mai osservato il mirabile nascere di una verità dalla discussione e dal dubbio, pare impossibile che senza unanimità esista la concordia. Per questo motivo tante volte nella storia i dissenzienti sono stati considerati sovversivi o nemici del popolo».[1]
    La cosa interessante è il sospetto per l’idea di unanimità e per il suo livellare le differenze individuali, e l’idea che la verità si fa sempre largo attraverso il lento lavoro dell’ascolto delle differenti opinioni e della valorizzazione delle idee minoritarie.
    Molto spesso anche negli organi collegiali della scuola e negli altri gruppi di programmazione delle attività educative si insiste sull’importanza del prendere decisioni unanimi: lo troviamo sconcertante, soprattutto perché l’effetto è sempre quello di tarpare il dibattito e di spegnere ogni possibile critica nei confronti delle posizioni dominanti; semmai a livello educativo l’unanimità potrebbe essere un obiettivo a livello performativo: una volta discusse tutte le opinioni, dato il giusto spazio alle opzioni critiche, decisa la linea da seguire attraverso il voto, poi tutti gli attori seguono la linea stabilita, ma non rinunciano a ridiscuterla e a cercare di modificarla nelle sedi opportune.
    Un esempio: si è deciso a maggioranza che i ragazzi de gruppo Lupetti devono essere puniti e dunque non parteciperanno all’escursione di domenica prossima; gli educatori Paolo e Serena non erano d’accordo. Se Paolo e Serena si presenteranno davanti ai ragazzi mostrando come sono stati cattivi i loro colleghi e quanto invece loro siano buoni, distruggeranno il senso della gestione democratica delle pratiche educative; i due educatori dovranno fare rispettare le decisione presa, ovviamente continuando a insistere presso i colleghi per farli riflettere su quanto vi sia in essa di sbagliato.
    Le minoranze hanno bisogno di tempi e di spazi adeguati per poter diffondere le loro idee: una democrazia che destina gli spazi di accesso al dibattito pubblico (tipicamente televisivo, nella nostra società catodica) a partire dalla politica delle quote (ovvero: se un partito ha il 30% dei consensi avrà diritto al 30% del tempo televisivo destinato alla politica, ecc.) si avvicina pericolosamente a un regime.
    Per permettere alle minoranze di godere del diritto (e non della graziosa concessione) ad esporre le proprie idee, occorre tempo: se vuole veramente rispettare i diritti delle minoranze, la democrazia deve essere lenta [2] e quelle che sembrano essere schermaglie procedurali (i dibattiti, la stesura e l’analisi delle mozioni, il tempo equamente suddiviso per gli interventi di tutti i partecipanti a una riunione, i verbali, ecc.) costituiscono la garanzia appunto dell’esercizio democratico del potere:
    «se si esaminano [le formalità della giustizia] in relazione alla libertà e alla sicurezza dei cittadini spesso si proverà che sono troppo poche: e si vedrà che le difficoltà, le spese, le lungaggini, i pericoli stessi della giustizia sono il prezzo con il quale ogni cittadino deve pagare la propria libertà».[3]
    Occorre allora educare la maggioranza anzitutto alla volatilità e alla variabilità del suo essere maggioranza, e educare la minoranza a un «saper stare» nella minoranza.

    Verso decisioni democratiche

    Se un gruppo di ragazzi deve esser guidato a una decisione democratica (giochiamo a calcio o a basket?), l’educatore può monitorare il dibattito usando alcune semplici (si fa per dire!) accortezze:
    – chiarire i termini della questione presentando alternativamente situazioni aut-aut (c’è solo mezz’ora di gioco, non c’è la rete da pallavolo: o si gioca a calcio o a basket) e situazioni che potrebbero prevedere anche terze alternative (che però spetterà ai ragazzi scoprire o inventare: potremmo anche sederci a suonare la chitarra);
    – fissare un tempo realistico per la presa di decisione; nella gestione del rapporto maggioranza/minoranza la funzione tempo è fondamentale: non si può passare la vita a discutere (ma occorre riflettere sulla funzione educativa dei processi legittimi di ostruzionismo, tipicamente parlamentare, che ribaltano con astuzia la dimensione temporale della discussione) e ci deve essere il tempo necessario per sentire le opinioni di tutti;
    – una volta presa la decisione, la maggioranza deve considerarla sempre come precaria (anche se ovviamente la decisione presa deve essere attuata: questo è il vero paradosso della democrazia, ovvero il dovere di portare alle sue conseguenze una decisione che è sempre revocabile);
    – la minoranza deve contestualmente essere messa in grado di portare avanti comunque la sua idea o la opposizione all’idea della maggioranza, senza essere mai ridicolizzata anche se fosse composta di una sola persona.
    Ma se la mia idea è minoritaria e un processo democratico ha portato al successo dell’idea opposta alla mia, il rispetto delle maggioranze prevede che io rispetti la norma così fondata: il che non significa ovviamente che devo rinunciare alla mia idea e che devo lesinare gli sforzi per modificare gli assetti e ribaltare la minoranza in maggioranza: ma come la maggioranza non deve trasformarsi in simil-dittatura, così evitare la dittatura della minoranza è altrettanto vitale per la democrazia.
    La forza di una minoranza non sta nel suo rifiutare la legittimità delle decisioni prese (altra cosa è ovviamente la denuncia degli eventuali brogli o irregolarità commesse nel processo decisionale), ma nel lottare strenuamente per far sì che coloro che hanno scelto l’opzione opposta alla propria possano modificare la loro scelta; che poi in questa lotta ci sia a volte la possibilità di modificare in parte la propria posizione facendo proprie alcune delle posizioni altrui costituisce la forza di contaminazione dei processi democratici che fortunatamente non lasciano mai le persone ferme e intatte nella rigidità delle loro posizioni ma le sottopongono a una salutare revisione, del tutto impossibile dove l’unanimità impera e per convenienza o per paura tutti sono d’accordo con tutti su tutto.

    Altre minoranze

    In Italia è venuta ad occupare una posizione cruciale la questione delle minoranze linguistiche, peraltro già affrontata dalla Costituzione attraverso lo straordinario dispositivo del bilinguismo: ma al di là dello strumento tecnico, peraltro utilissimo, la riflessione sulle minoranze linguistiche a livello globale e la consapevolezza della scomparsa di centinaia di lingue e dialetti ogni anno deve portarci alla tutela delle lingue che ovviamente è prima di tutto tutela delle comunità di parlanti.[4] Salvare una lingua significa salvare un modo di dire il mondo, e quindi anche salvare un mondo. Ma se la lingua e soprattutto il dialetto viene salvaguardato solamente in funzione desolidarizzante, per imbrattare i cartelli indicatori sulle strade con un incivile pseudo-bilinguismo d’accatto, allora si perde quel che di universale c’è nel valore del dialetto e della lingua: dire se stessi e gli altri riconoscendo nella struttura del proprio parlare la presenza anche fisica dell’alterità.
    Una lingua pura è un incubo da distopia del XX secolo, una cosa a metà tra Orwell e Zamjatin, una cosa da Metropolis di Fritz Lang o da Blade Runner: quando ci innamoriamo di una persona che parla un’altra lingua, la cosa più dolce non è forse imparare a farle la corte usando le espressioni del suo idioma? Salvare la lingua significa salvarne la storia, una storia che è cronaca di mescolamenti e sovrapposizioni, colonizzazioni e imbastardimenti.
    Altro tema forte è quello delle minoranze religiose, spesso risolto in modo ipocrita con una operazione meramente contabile, come se la forza numerica dei fedeli fossa di per sé un argomento dirimente: se i musulmani sono «di più» rispetto ai cristiani (o viceversa) significa forse che Allah è più forte del dio cristiano (o viceversa)? E perché un fedele dovrebbe preoccuparsi della forza del proprio Dio, soprattutto a livello numerico, come se si trattasse di analizzare le statistiche di vendita di un prodotto? Le religioni sono una questione di cifre e di statistiche? Dio è una merce, che più è forte quanto più è venduta? Quanto erano minoranza i Dodici nella società palestinese del I secolo?
    Pensare alle minoranze religiose in un Paese civile significa spazi per la preghiera e per il proselitismo di tutti e di tutte. Come recita l’art. 8 della Costituzione: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quando non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.» e come ribadisce l’art. 19 «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato e in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buoncostume».
    Occorre tenere presente tutto questo quando, di fronte alla legittima richiesta di un gruppo di musulmani di costruire una moschea in una città, qualche buontempone esce con la trovata «costruiremo una moschea qui quando verrà costruita una chiesa cattolica in Iran».
    A parte il carattere infantile dell’argomentazione, ci piacerebbe capire quale idea di democrazia sia sottesa a queste affermazioni: si crede o no che la democrazia sia migliore della teocrazia (in qualche caso dubitiamo fortemente che lo si creda)? Si crede o no che la democratizzazione dei rapporti con i musulmani nelle nostre terre, l’esporre queste persone al «contagio» vitale con le pratiche democratiche possa servire a combattere le tentazioni teocratiche o addirittura violente? Si crede o no che anche questi Paesi dovrebbero avviare un processo di democratizzazione magari anche sotto la spinta dei musulmani che qui da noi possono manifestare liberamente la loro fede e si rendono conto che tutto ciò accade grazie alla democrazia?[5] E poi: veramente la fede in un Dio si sente indebolita dal fatto che altre persone preghino un’altra forma del divino?
    Il tema delle minoranze diventa allora educativo quando «noi» siamo maggioranza: e dobbiamo stare molto attenti a non compiere quello che è il delitto capitale per la democrazia, spesso purtroppo perpetrato in questi ultimi anni: scambiare il diritto/dovere di prendere le decisioni con la delirante idea di avere sempre e comunque ragione.


    NOTE

    [1] Paolo de Benedetti, La morte di Mosè e altri esempi, Milano, Bompiani, 1979, pag. 97.
    [2] E non «rock» come avrebbe detto in una pessima trasmissione un sopravvalutato cantante-predicatore.
    [3] Montesquieu, Lo spirito delle Leggi. Torino Utet, 2008. pag. 158
    [4] Daniel Nettle, Suzanne Romaine, Voci dal silenzio, Carocci, 2002.
    [5] Cf Fatema Mernissi, Islam e democrazia. Giunti, Firenze, 2005.


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