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    Un tassello del puzzle: i rapporti internazionali e la questione della guerra


     

    Educare alla Costituzione /6

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2011-05-62)


    Parlare della guerra, soprattutto ai ragazzi e alle ragazze, significa anche parlare di cifre;[1] significa fornire la prova evidente del fatto che la guerra, almeno a partire dal 1939, è soprattutto strage di civili e che la differenziazione tra militare e civile, tra target ammesso e non ammesso, forse anche tra guerra e terrorismo è propria di una idea di guerra che non è più adatta a descrivere ciò che sta accadendo sul nostro pianeta da 50 anni a questa parte.
    Non occorre romanticizzare le guerre passate, che erano sempre un inutile spargimento di sangue, ma la considerazione della dignità del nemico, il bisogno di legittimazione che andasse oltre la causa immediata della guerra (e che contribuiva ovviamente anche a coprirne le reali cause remote), la presenza di precisi e definiti codici di guerra (la dichiarazione di guerra, le divise che mostravano con evidenza il militare distinguendolo dal civile, i codici che regolamentavano il trattamento dei prigionieri, le Convenzioni), la stessa leggibilità e narrabilità del contesto e dell’evento che diede luogo a narrazioni di guerra fin dall’Iliade: tutto questo, a partire dall’«inutile strage» della I Guerra Mondiale, lascia spazio a un’altra esperienza della guerra.
    L’inesperibilità e l’inenarrabilità della guerra del XXI secolo è testimoniata dalla difficoltà di effettuare reali reportages o addirittura di scrivere romanzi o di pensare a un’epica di guerra. L’iper­profes­sio­na­lizzazione della guerra, il suo strettissimo legame con una tecnologia che allontana sempre più il soldato dal campo di battaglia, colui che sferra il colpo da colui che ne muore, realizza l’ossimoro della guerra senza odio, una guerra in cui si uccide per mestiere, senza enfasi e senza retorica, solo perché lo si deve e lo si può fare, e in cui si considera l’oggetto della propria azione (che non ha nemmeno la dignità di essere considerato «nemico») come un parassita nei confronti del quale operare una disinfestazione.

    Sempre un’inutile strage

    È a proposito di questa idea di guerra che l’art. 11 della Costituzione parla di «ripudio» («l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali»); inizialmente fu proposta la parola «rifiuto» che fu accantonata perché ritenuta troppo debole: la guerra è ripudiata perché è qualcosa che fa letteralmente schifo, provoca ribrezzo, fa allontanare disgustati lo sguardo. Come Benedetto XV ebbe a dire, in una lettera ai popoli belligeranti, a proposito della I Guerra Mondiale:
    «siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d’altra parte, che è salvo, nell’uno e nell’altro campo, l’onore delle armi; ascoltate dunque là Nostra preghiera, accogliete l’invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino, Principe della pace. Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l’assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell’età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori».[2]
    Si confrontino ora queste parole con il delirio marinettiano sul rapporto tra guerra e natura:
    «Le costellazioni erano dei piani-abbozzi di bombardamenti notturni. Le forme aggressive delle alte montagne hanno oggi ragione d’essere, tutte rivestite dalle fitte traiettorie, dai sibili e dai rombi curvi delle cannonate. I fiumi, trincee naturali, hanno oggi una vita logica. Interrompono la forza del nemico e vuotano i campi di battaglia alpestri di tutti i cadaveri che trascinano al mare. La Guerra dà la sua vera bellezza alle montagne, ai fiumi, ai boschi (...) Le vallate non hanno altro scopo che quello di megafonare al cielo le cannonate. (...) La vasta guerra è venuta per terminare (...) quell’abbozzo di guerra incominciato dal tramonto venti secoli fa e continuato ogni giorno con tre nuvole sanguigne e un promontorio nero che sventra il cielo bianco».[3]

    Perché il «fascino» della guerra?

    La Costituzione ripudia la guerra, ma la guerra ha un grande fascino, e non si potrà pensare a una reale educazione alla pace e alla convivenza pacifica senza una riflessione sull’indiscutibile fascino che la guerra esercita soprattutto sui giovani maschi. Troppo spesso si presenta la guerra dalla parte del combattente, proponendo una pedagogia da Top Gun che vellica gli istinti bellici che qualcuno vuole farci credere essere innati nell’uomo: Una felice eccezione è costituita dal libro di Adriana Cavarero Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme [4] che narra la guerra a partire dall’insostituibile punto di vista della vittima innocente. Ma già Erasmo da Rotterdam ammoniva partendo dal motto «dulce bellum inexpertis» a non vedere nella guerra altro che una strage; e nel progetto pedagogico che egli propone al giovane principe ribadisce:
    «Costerà troppo cara al mondo la saggezza dei principi, se essi impareranno quanto orrenda è la guerra sperimentandola sul campo e arrivando a dire fa vecchi: ‘non credevo che la guerra fosse così terribile’ (…) intanto saranno morti migliaia di uomini e altri saranno precipitati nella miseria».[5]
    Ma anche i Padri della Chiesa ammoniscono, partendo da una posizione che potremmo definire antimilitarista, a non vedere nella guerra altro che orrore:
    «Osserva le strade assediate dai banditi, i mari infestati dai pirati, le guerre sparse ovunque con l’orrore del sangue versato dagli opposti schieramenti. Il mondo è bagnato di sangue fraterno: ecco che l’omicidio è crimine quando sono i singoli a commetterlo, ma diventa virtù quando è compiuto in nome dello stato (…) si uccide un uomo per divertire un altro uomo (…) non solo si compie il delitto ma lo si insegna».[6]
    Il cristiano non può guerreggiare, il peccato del soldato non è redimibile perché non esiste guerra giusta:
    «E uno che avendo un’errata opinione di Dio abbia vissuto (…) facendo violenza sia ai fanciulli, sia alle donne, distruggendo ingiustamente le città, incendiando le case con i loro abitanti, devastando una regione e insieme annientandone stirpi e popoli e perfino un’intera nazione, come potrà costui scontare una pena adeguata a questi misfatti nel suo corpo corruttibile, se la morte interrompe in anticipo la meritata espiazione , mentre la vita mortale non basterebbe a scontare neppure uno di questi delitti?»[7].

    Guerra e conflitti

    Ma per parlare ai giovani e ai giovanissimi di guerra occorre stare molto attenti al vocabolario e non sovrapporre indebitamente i termini «guerra» e «conflitto».[8] Si legge infatti sempre il conflitto come qualcosa di negativo fino al punto di sovrapporre semanticamente questo concetto con quello di guerra, come se fossero sinonimi. Certamente la guerra o la violenza sono una modalità di risoluzione dei conflitti, certamente non l’unica e nemmeno la migliore, anche se indubbiamente la più redditizia a livello economico; esistono perciò modalità positive di risoluzione dei conflitti, i quali non sono di per sé da considerarsi negativi a priori, ma sono da prendere in considerazione come parti costitutive essenziali dell’attuale assetto sociale e della struttura psichica dei soggetti che lo abitano.
    È proprio a questa attenzione che ci richiama il secondo comma dell’art. 11 della Costituzione: «[l’Italia] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.» In questo senso la Repubblica, fin dai suoi inizi, chiude il conto con ogni eccesso nazionalistico (per non parlare dei localismi); l’Italia è fiera della sua autonomia di nazione, ma si considera altresì come il tassello di un puzzle molto più ampio.
    Al di fuori degli angusti spazi della politica nazionale ci sono allora le praterie immense del mondo e dei rapporti politici internazionali.[9] È deprimente constatare quanto poco le testate giornalistiche e televisive italiane dedichino le loro prime pagine o aperture di TG alla politica internazionale, anche quando la politica nazionale riserva come notizia fondamentale l’ennesima «dichiarazione» di qualche politico (quando la prima pagina non è occupata da qualche «impresa» o «tragedia» di una squadra di calcio): la Repubblica guarda invece oltre se stessa, in consonanza con il dettato dell’art. 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: «Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati». Il che significa sostanzialmente che il cosmopolitismo e il superamento della logica degli Stati nazionali non sono sogni di qualche utopista, ma costituiscono il DNA della nostra Carta, che nel momento in cui cerca di porre le premesse di uno Stato libero e democratico lo intende come piccolo e prezioso prisma all’interno del quale si rifrange la possibilità e la promessa di un mondo felice per tutti e per tutte.


    NOTE

    [1] 2 milioni di bambini sono morti, nel corso dello scorso decennio, a causa di conflitti armati, 20 milioni sono stati costretti a abbandonare le loro case come profughi, 300 mila bambini sono stati reclutati e combattono in diversi paesi africani, asiatici e del Medio Oriente in eserciti regolari e gruppi armati di opposizione; e a tutto ciò vanno aggiunte cifre che evidenziano i danni collaterali di queste guerre e dell’ingiustizia sociale globalizzata: 11 milioni di minori muoiono ogni anno, prima di avere compiuto i 5 anni, per malattie o problemi che potrebbero essere facilmente eliminati: malattie intestinali, polmoniti, e malattie prevenibili con le vaccinazioni come morbillo, pertosse, tetano, difterite, tubercolosi; 150 milioni di bambini soffrono di malnutrizione; 123 milioni di bambini non hanno mai frequentato la scuola (la maggioranza sono bambine); 211 milioni di bambini lavorano; 600 milioni di bambini, cioè un quarto dei bambini di tutto il mondo, vivono in condizioni di estrema povertà; oltre 1 milione di bambini ogni anno sono vittime dei trafficanti, vengono «comprati» e costretti a subire abusi e sfruttamento; 14 milioni di bambini hanno perso la madre, il padre o entrambi i genitori a causa dell’Aids. E del resto se le vittime civili della I guerra mondiale sono state il 14% del totale, la percentuale sale al 67% per la II Guerra, al 75% per le guerre degli anni Ottanta e al 90% per quelle dell’ultimo decennio del XX secolo.
    [2] https://www.vatican.va/holy_father/benedict_xv/letters/1917/documents/hf_ben-xv_let_19170801_popoli-belligeranti_it.html
    [3] La guerra complemento logico della natura, in «L’Italia futurista», 25 febbraio 1917».
    [4] Milano, Feltrinelli, 2007.
    [5] Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano, Edizioni di Pagina, 2009, pag. 286.
    [6] Cipriano «A Donato» cit. in I cristiani e il servizio militare. Testimonianze dei primi tre secoli. A cura di Enrico Pucciarelli Bologna, EDB, 2008, pag. 121.
    [7] Atenagora, «Sulla resurrezione dei morti», ivi pag. 43.
    [8] Per cominciare si potrebbe iniziare a smetterla di dire «Primo/Secondo conflitto mondiale», «conflitto arabo-israeliano» quando si tratta di guerre.
    [9] Durante una missione di pace in Kosovo, in una serata nella quale due uomini erano stati aggrediti e uccisi a poche centinaia di mesi dalla casa che ci ospitava, è stato perturbante e straniante ascoltare il Tg parlare del «dramma» della Roma che aveva perso una partita all’Olimpico.


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