Le ali del desiderio: svogliate o spiegate?

Incanti di libertà o passioni tristi? /3

Paolo Zini

(NPG 2011-05-41)


«Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, quegli non sa disprezzare se stesso. Ecco! io vi mostro l’ultimo uomo. «Che cos’è l’amore? E creazione? E anelito? E stella?» – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti. «Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore. Ammalarsi e essere diffidenti è ai loro occhi una colpa: guardiamo dove si mettono i piedi. Folle chi ancora inciampa nelle pietre e negli uomini! Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente. Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo. Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose. Chi vuole ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo fastidiose. Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio. «Una volta erano tutti» – dicono i più raffinati e strizzano l’occhio. Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte salva restando la salute».[1]
Anche questa profezia di Nietzsche, oltre ad essere consegnata ad un linguaggio di grande potenza espressiva, sembra trovare più d’una conferma.
Ci sono molte ragioni che dissuadono dal mettersi alla scuola di Nietzsche; in particolare suscita sconcerto la sua opinione sull’origine, il senso e il fine della libertà.
Il passo riportato dallo Zarathustra fornisce però un’indicazione da non sottovalutare; Nietzsche descrive la meschinità del modo di vivere determinato dalle voglie, dopo aver alluso, attraverso l’efficace metafora del partorire stelle, ad una forma d’esistenza grandiosa, commisurata, questa sì, al vero desiderio umano.
Se Nietzsche non convince quando illustra gli obiettivi che nobilitano il compito della libertà, coglie però nel segno quando indica in un’esistenza di basso profilo, tiranneggiata dai modesti e incoerenti bagliori di qualche voglia, la tentazione e il fallimento dell’uomo, chiamato invece a vivere di grandi desideri.
Va allora riconosciuto che, per quanto paradossale nelle sue proposte ed equivoco nelle sue soluzioni, Nietzsche esprime in modo folgorante una verità calpestata dal costume attuale: i desideri non sono voglie e le voglie non sono desideri; e confondere queste due diversissime espressioni del vivere umano è tanto frequente quanto pericoloso.
Nietzsche non ha dubbi: partorire stelle e accudire vogliuzze sono, rispettivamente, il destino dell’oltre uomo e dell’ultimo uomo, sono gli esiti di una libertà riuscita e di una libertà fallita. E non è necessario sottoscrivere in toto l’antropologia nietzschiana per apprezzare la chiarezza di questa distinzione, della quale è l’esperienza, prima della teoria, a confermare la pertinenza e l’importanza vitale.
Per portare ancora un po’ di luce sul mistero dell’esistere è possibile partire di qui: dalla distinzione tra voglie e desideri, dall’evidenza, per un verso, del carattere accattivante ma sovente meschino delle voglie e, per un altro verso, dal rigore della disciplina, misteriosa, affascinante e molto esigente, del desiderio.

Sigismondo e il prigioniero delle voglie

Cosa significa vivere di voglie?
La domanda non conosce una sola risposta; cultura, costume, risorse materiali e spirituali hanno determinato, con il mutare dei tempi, l’avvicendarsi di figure d’esistenza tra loro diverse, ma incapaci di nascondere un affanno comune: la prigionia nelle voglie, ingovernabili per i loro contrasti.
Vivere in balia delle voglie, almeno in prima battuta, si manifesta come esperienza strutturalmente plurale; la stessa espressione voglia rimanda ad una polarizzazione momentanea del volere, incapace di resistere alla propria revoca e alla propria smentita da parte d’una voglia d’interesse, segno e ragione diversa, quando non opposta.
Gli interpreti più autorevoli del costume contemporaneo riconoscono in questa dilagante fortuna delle voglie una sorta di tratto di civiltà, che riflette l’esuberanza incoerente di opzioni offerte all’uomo dalla società del benessere e dall’economia di mercato.
Al di là dell’analisi che ne fa il postmoderno, la condotta ispirata al turbinío delle voglie, non essendo nuova al vivere umano, ha conosciuto nel passato diagnosi profonde, ispirate non a criteri psicologici o economici, bensì a quadri di riferimento etici, teologici, escatologici addirittura.
La vita è sogno, un dramma del 600 di Calderón de la Barca,[2] ad esempio, nella sua interpretazione della libertà, dei limiti e delle forme del volere umano fornisce risposte di grande profondità, sebbene oggi desuete, ad interrogativi che restano invece attualissimi.
In una creazione simbolica di notevole efficacia il dramma narra le vicende del principe Sigismondo, figlio del re di Polonia Basilio e da questi tenuto prigioniero in una torre a seguito di un vaticinio astrale, che ne prevede la condotta violenta e brutale.
La liberazione di Sigismondo dalla sua prigionia, per il desiderio del re Basilio di provare l’autenticità della profezia astrologica, sortisce dapprima un esito tragico, dando così ragione ai timori più cupi circa la ferina crudeltà del giovane figlio del re.
Il dramma si chiude però con il ravvedimento di Sigismondo, a conferma della possibilità umana di vincere il determinismo degli istinti e degli impulsi che vorrebbero sottomettere il volere alla corruzione fatale della malvagità.
Con finezza artistica e teorica, nella figura emblematica di Sigismondo si disegna una volontà umana prigioniera delle proprie voglie. Il mistero di tale prigionia è affrontato ne La vita è sogno come cruciale per il senso e il destino dell’esistenza, che non può essere ridotta ad autarchia biografica o a segmento funzionale di un intero sociale, ma è annodata al destino del cosmo, nel suo drammatico impasto di bene e di male e nella sua dipendenza da Dio.
Nella figura di Sigismondo, Calderón de la Barca fornisce una interpretazione del senso del vivere: l’uomo deve fare i conti con pesanti catene, rappresentate dalle sue stesse brame; fuori da ogni apparenza contraria, sono esse le vere schiavitù dell’uomo, enigmaticamente vittima di una concupiscenza che eredita dalla terra da cui pure proviene e grazie alla quale sussiste.
È questo torbido conato ad impedire all’uomo di vivere nella luce: Sigismondo non conosce il mondo, ma è condannato all’oscurità, proprio dal pericolo che egli rappresenta per se stesso e per gli altri, a seguito di ciò che si agita dentro di lui.
Le contraddizioni scritte dentro questo turbinío interiore, capace di imporsi al volere, sono temibili, ingovernabili, incomprensibili, e oscurano l’esistere; le sofferte constatazioni di Sigismondo, una volta liberato dalla prigione e tentato di sognare i fasti della corte, non lasciano dubbi:
«Un’altra volta […] volete che sogni grandezze che il tempo deve disfare? Altra volta volete che veda, tra ombre e vani fantasmi, la maestà e la pompa disperse dal vento? Che un’altra volta assapori il disinganno e il rischio appetto al quale l’umano potere nasce umile e vive in angoscia? Ebbene, così non sarà, non deve avvenire che mi veda altra volta soggetto alla sorte. E poiché so che la vita intera è un sogno, via, ombre che fingete oggi, ai miei sensi tramortiti, corpo e voce, mentre è verità che non avete né voce né corpo! Io non voglio maestà fittizie, pompe non voglio, fantasmatiche, né allusioni che al più lieve soffio di vento si dissolvano […]. Vi conosco, ormai, vi conosco e so che accade lo stesso a chiunque sia immerso nel sonno; per me non ci sono finzioni: ché, ormai disilluso, ben so che la vita è sogno».[3]
Certamente gli interrogativi incalzanti di Calderón de la Barca sono più scomodi degli slogans pubblicitari confezionati dalla cultura contemporanea, che, avendo preso atto del carattere dirompente delle voglie dell’uomo, invece di esplorarne radici e ambivalenze, si cura solamente di monetizzarne l’esercizio.
L’operazione però è molto pericolosa: quando l’uomo confonde l’adesione alle proprie voglie con l’espressione della sua libertà sceglie la schiavitù e la cecità.
Il comportamento sollecitato dalla soddisfazione immediata di un impulso è infatti solo apparentemente consapevole, oculato, libero, gratificante; in realtà è costretto ad uno schematismo pericolosamente incline all’ossessione, al determinismo, alla schiavitù, al non senso.
Calderón de la Barca formula così un monito severo: l’uomo, guardando allo scompiglio che si agita nelle sue membra e nel suo cuore, dovrebbe riconoscere un carattere enigmatico e ingannatore di questa vita, e ricorrere alle misure della trascendenza per comprendersi, decodificarsi e riconoscere il vero senso del mondo.
L’apparenza del mondo, forte soltanto dell’incoerente bramosia umana che insieme la produce e ne è vittima, è, in realtà, inaffidabile:
«Che cosa è la vita? Delirio. Che cosa è la vita? Illusione, un’ombra è, una finzione, e il maggiore dei beni è un’inezia; che tutta la vita è sogno e i sogni non sono che sogni».[4]

Don Chisciotte, cavaliere del desiderio

Risale agli inizi del 600 il Don Chisciotte di Cervantes,[5] la notissima epopea che, dentro una fitta trama di eventi annodati con fine intento polemico e letterario, disegna una figura di esistenza e di libertà particolarmente efficace.
Don Chisciotte può essere riconosciuto come icona letteraria, singolarmente riuscita, della fatica dell’umano desiderare, dunque di una precisa forma di libertà, alternativa alla bramosia ciecamente terrestre delle voglie.
Cervantes intende screditare la letteratura cavalleresca e sottoporre a critica i tratti di costume che in essa trovavano celebrazione artistica e legittimazione culturale, ma dalla sua arte non viene soltanto una lettura dotta di qualche travaglio della società del suo tempo, bensì la rappresentazione di aspetti dell’animo umano che alla storia non è dato di cancellare.
Per questo don Chisciotte può essere riconosciuto come figura del volere alle prese con una difficile decisione circa il senso ideale di sé e del mondo.
Se il principe Sigismondo di Calderón è incatenato ad una terrestrità che gli nega la visione del cielo e della realtà delle cose, don Chisciotte esprime, persino con una corporeità diafana e slanciata, la verticalità della trascendenza, della quale la storia ha bisogno per non accartocciarsi su se stessa.
Don Chisciotte, ostinato Cavaliere della trascendenza, è il protagonista di imprese che si producono anzitutto nel suo animo: un autentico spazio interiore da non screditare superficialmente quasi si trattasse di mera fantasia malata.
È l’energia che l’attraversa ad accreditare quello spazio come interiorità viva, capace di rideterminare il senso della realtà alla luce di altissimi ideali di giustizia, fedeltà e onore.
La trasfigurazione del reale nella luce dell’ideale, mentre accompagna ogni peripezia di don Chisciotte, diviene ragione dei biasimi, delle derisioni e dei compatimenti che lo raggiungono, inevitabile retaggio dell’alienazione mentale, ritenuta dagli spettatori delle sue avventure l’unica radice del suo improbabile eroismo.
Ma chi ha ragione? Chi è savio? Chi sa vivere? Il Cavaliere della Trascendenza o i gregari della mondanità? Non basta il sommario realismo di questi ultimi a vanificare l’impresa di don Chisciotte, la cui misteriosa idealità e innocenza resiste anche alle recrudescenze più ciniche dell’ostilità mondana.
E quando la pressione apparentemente astuta, concreta e realista dell’orizzontalismo della sopravvivenza sembra aver sfiancato la vitalità dell’ideale di don Chisciotte, è il risveglio di Sancho, alter ego sino allora molto terrestre del Cavaliere della Mancia, a rimettere in discussione il senso di questa misteriosa epopea:
«Non muoia, signor padrone, non muoia: accetti il mio consiglio, e viva molti anni; perché la maggior pazzia che possa fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morir così senza un motivo, senza che nessuno lo ammazzi, sfinito dai dispiaceri e dall’avvilimento. Su, non faccia il pigro, si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da pastori come s’è fissato, e chi sa che dietro a qualche siepe non si trovi la signora Dulcinea disincantata, che sia una meraviglia a vedersi. Se lei muore dal dispiacere d’essere stato vinto, la colpa la dia a me, dicendo che la scavalcarono perché io avevo sellato male Ronzinante».[6]
La supplica dello scudiero trattiene dal considerare le imprese di don Chisciotte meri prodotti di un autismo della fantasia.
Piuttosto, il rapporto difficile del Cavaliere della Mancia con la realtà, da lui trasfigurata alla luce dell’ideale morale e del desiderio indomito di fornire nobili ragioni alla propria libertà, si rivela autentica riserva di trascendenza, provocatoria e affascinante e, alla fine, vittoriosa anche della sagacia sempre modestamente terrena di Sancho.
L’epitaffio sibillino, composto a memoria dell’impresa di don Chisciotte ormai sepolto, è uno splendido e universale omaggio alle sorti del suo desiderio, delle sue battaglie ideali, la cui vitalità si è garantita in un perpetuo morire al mondo per poi sopravvivere al proprio spirare terreno:
«Qui giace il forte gentiluomo che arrivò a tal punto di valore, che la morte non trionfò della sua vita con la sua morte. Disprezzò l’universo intero, fu lo spaventacchio e il baubau del mondo, ed ebbe la gran fortuna di viver matto e di morir savio».[7]
Le avventure di don Chisciotte illustrano l’urgenza, il fascino e la fatica del volere chiamato ad abitare un mondo irriducibile ad immediatezza ottusa, lusinga di ogni voglia e catena dello spirito.
La drammatica lezione di don Chisciotte – troppo straniero alle logiche mondane per comprenderle ed esserne compreso – illumina i confini di uno spazio entro il quale il volere umano può maturare nella libertà: è lo spazio della fecondità interiore, nutrita dal fascino dell’ideale e così capace di riconoscere e compiere il senso della realtà nella prospettiva di valori assoluti.

Voglia di libertà e libertà del desiderio

Se già ad una prima considerazione il volere umano si era rivelato enigmatico per la sua lacerazione, premessa di un fondamentale compito per la vita di ogni uomo, ora la riflessione sulla possibilità di una sua consegna alle voglie o di una sua consuetudine con il desiderio ha profilato una nuova grande sfida di libertà.
Cos’è meglio: la prigionia di Sigismondo, l’inclinazione all’opportunismo dei persecutori del Cavaliere della Mancia o il coraggio di don Chisciotte, comunemente rubricato come follia?
La chiara alternativa disegnata da Nietzsche tra voglie e desiderio si addolcisce così: con lo srotolarsi della via mediana dell’opportunismo, la più battuta forse dagli uomini alle prese con il mistero della propria libertà.
L’uomo non può non avvertire la frantumazione interiore ispirata ai clamori delle voglie, che, mentre si contrastano tra loro, pretendono ciascuna di detenere la soluzione del mistero dell’esistere.
Chi medita la verità della vita può smascherare facilmente l’inganno e riconoscere la menzogna del rapporto con il mondo succube dell’immediatezza del capriccio, alle prese con la sua sola protervia, ostile ad ogni alterità, limite e attesa.
Sì, la bizzarria delle voglie non conosce altro che la propria bramosia e questa sfuoca lo sguardo dell’uomo, falsando i profili e le misure del mondo.
Le voglie non conoscono il mistero del tempo, vissuto soltanto come insopportabile distanza che allontana una soddisfazione; e non conoscono misura che non sia la propria dilagante dismisura, condannata alla solitudine o al conflitto.
Quando il volere è capace di qualche libertà, si sottrae al dominio delle voglie per non perdersi nelle loro rissose ostilità e pretestuose frantumazioni.
E va riconosciuto: assai di rado una vita capitola completamente alle voglie; prima che disumana sarebbe infatti impossibile, perché acerrima nemica di se stessa, come insegna Calderón de la Barca.
Ma se, proprio per questo, pochi sono gli uomini che muoiono in piena complicità con la loro più disordinata bramosia, molto numerosi sono i sedotti dall’opportunismo; quell’opportunismo che governa le voglie con l’astuzia del ricatto e del calcolo, cercando di sopravvivere politicamente ad esse attraverso una gaudente misura.
Il distintivo di una vita piattamente opportunista sta nel disprezzo per l’ideale, condannato nella sua follia dal pulpito di un apparente buon senso e di un concreto realismo; la mancanza di virilità e fascino di una tale vita è resa con spietata precisione dalla penna di Cervantes, alle prese con le reazioni grossolane, e non di rado perfide, di chi assiste alle imprese di don Chisciotte.
Forse allora si può arrivare ad una conclusione: inizia a vivere veramente solo chi apprende, come Sancho Panza chino su don Chisciotte morente, che il prezzo di una vita condotta nella luce dell’ideale è addirittura desiderabile, proprio nella sua estraneità e incomprensibilità per i criteri mondani.
La desiderabilità del desiderio è altra cosa dalla vogliosità del concupire: il desiderio conosce la novità del futuro, il fascino della libertà formata da compiti che la conducono sempre oltre se stessa, da promesse che la aprono alla realtà consegnandole un compito ideale da realizzare.
Il dilagare delle voglie profana la realtà, calpesta i germogli di valore che in essa spuntano, paralizza la libertà, impedendole di andare oltre se stessa e di compiere in modo sempre nuovo il senso del mondo, riconoscendone, custodendone, promuovendone il destino di bellezza e bontà.
Incontrato fuori dalla luce del desiderio, della sua libertà e della sua idealità, il mondo si riduce a miraggio delle brame deliranti dell’io, si assottiglia in immagine spettrale che incatena il volere all’opportunismo della propria menzogna.
Restituire speranza all’uomo significa rendere al suo volere il gusto della libertà del desiderio, nella cui tensione ideale il presente dell’uomo e del mondo si possono orientare ad un vero e promettente futuro.

Dunque?

La confusione tra voglie e desideri è tra gli equivoci più insidiosi che possano colpire l’uomo alle prese con se stesso e con la domanda sul senso della propria libertà.
Lo scalpitio delle voglie è capace di inquinare il cuore e ottenebrare l’intelligenza, fino a confondere l’uomo quanto alla verità dei suoi stessi desideri.
E quando una vita si consegna alle proprie brame, patisce la schiavitù più pericolosa: quella che viene da un’interiorità svigorita dalle proprie divisioni e vulnerabile alla malia di ogni sirena.
Illusorie sono le soddisfazioni che una simile schiavitù si riduce a consumare, in preda alla precarietà della sopravvivenza a se stessa, in un vuoto interiore greve della propria fame. Proprio la sofferenza, morsa implacabile che stringe un volere diviso, si offre però come alleata affidabile della libertà, riannodandola con la nostalgia e la speranza alla sua origine e al suo destino di unificazione e integrità.