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    La GMG, una grande festa della fede



    Verso la GMG

    Luis A. Gallo

    (NPG 2011-01-61)


    In apertura del suo Messaggio per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù 2011 Benedetto XVI fa memoria di quella precedente, vissuta a Sidney nel 2008, e la qualifica come «una grande festa della fede». Così facendo mette in evidenza un nota fondamentale che dovrebbe caratterizzare ognuna di tali Giornate.
    È interessante che il papa le identifichi non soltanto come una «manifestazione», sia pur singolare, della fede giovanile, ma come una «grande festa» della fede. In questo modo egli rimarca pure che, contrariamente a ciò che più di una volta si pensa, anche e forse particolarmente da parte dei giovani, la vera fede in Gesù Cristo non è - o almeno non dovrebbe essere - un qualcosa di pesante e opprimente, ma viceversa una sorgente di gioia. Precisamente perché, come dice nel suo Messaggio, essa è «esperienza del Signore Gesù risorto e vivo e del suo amore per ciascuno di noi».

    La fede e la gioia negli scritti del Nuovo Testamento

    Basta aprire i vangeli e ripercorrerli sia pure velocemente per constatare che quando qualcuno si apre fiduciosamente alla parola e all’azione di Gesù, ancora prima della sua risurrezione, la gioia inonda il suo cuore e si rende manifesta anche all’esterno. Un esempio tra tanti è l’episodio di Zaccheo a Gerico. Egli salì sul sicomoro perché voleva vedere chi fosse Gesù, dato che la folla che gli stava attorno glielo impediva, e quando si sentì dire da lui che voleva fermarsi quel giorno a casa sua, «si affrettò a scendere e lo accolse pieno gioia» (Lc 19,6). Il vangelo non ci dice cosa si sono detti Gesù e lui in quella casa, probabilmente mentre erano insieme a tavola, ma ci fa capire che la gioia di Zaccheo lo spinse a prorompere in quelle parole che nascevano da un cuore traboccante di felicità: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo quattro volte tanto» (Lc 19,8). La gioia che riempie il suo cuore lo porta a spogliarsi dalla sua brama di avere egoisticamente dei beni per sé, strappandoli pure fraudolentemente agli altri, per condividerli invece largamente con loro, in modo tale che i più poveri potessero goderne con lui.
    È che accogliere Gesù e la sua proposta di vita è come scoprire un tesoro che merita di essere posseduto a spese di tutto. Lo tratteggiò lui stesso nella piccola ma intensamente espressiva parabola di Mt 13,44. Quell’uomo che, forse mentre ara un campo che non è suo, vi scopre inaspettatamente un tesoro, «per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo». Di nuovo è la gioia ciò che muove l’uomo a spogliarsi di tutto per avere il tesoro. Non la costrizione o la paura, ma la gioia.
    È chiaro nei vangeli che Gesù non vuole dei seguaci che vadano dietro a lui per obbligo o per paura, ma perché hanno il cuore dilatato dalla gioia di aver scoperto qualcosa di meraviglioso. Un po’ come quello che diceva già il Salmista nell’A.Testamento: «Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore» (Sal 118,32).
    Se questo avviene durante la vicenda storica di Gesù, avviene anche, e con maggiore intensità ancora, dopo la sua risurrezione. Nel libro degli Atti degli Apostoli è quasi come un ritornello che si ripete molto spesso: «erano pieni di gioia» (At 13,52), si dice di coloro che, accogliendo lo sconvolgente annuncio del trionfo pieno e definitivo della vita sulla morte in Gesù, aderiscono ad esso di vero cuore e si mettono a vivere in un modo nuovo.
    Lo si dice espressamente di quel funzionario della regina Candace che, illuminato da Filippo lungo il suo cammino di ritorno da Gerusalemme alla sua terra, scopre che il Servo di JHWH di cui parlava il profeta Isaia in uno dei suoi quattro celebri canti che stava leggendo sul suo carro (Is 53,7), è Gesù morto e risorto (At 8,27-35). Il testo dice, letteralmente, che egli, dopo la scoperta fatta, «pieno di gioia, proseguiva la sua strada» (v.39).
    Lo si dice anche del carceriere di Filippi, il quale, dopo il terremoto avvenuto verso mezzanotte, avendo sentito la parola di Paolo che gli annunciava il Signore, ossia Cristo risorto, «subito si fece battezzare con tutti i suoi […] e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio» (At 16,33-34).
    Aderire a Gesù, dire di sì alla sua Persona viva e alla sua proposta di vita costituisce quindi, stando alle testimonianze degli scritti neotestamentari, una fonte di gioia, pur in mezzo alle difficoltà interne ed esterne che tale adesione comporta. Si è pertanto lontano dal vero senso della fede quando la si converte in una mera adesione a verità fredde e astratte che si accettano anche «con il sacrificio della ragione». O quando la si fa consistere in un’osservanza servile e paurosa di leggi e precetti cui si ottempera faticosamente, come portando un giogo pesante sul collo. O ancora quando la si riduce alla partecipazione in atti di culto che si realizzano come espressione di una concezione quasi commerciale del rapporto con Dio. Tutto ciò non è sorgente di gioia, ma viceversa spesso di tristezza e paura. Solo quando l’accoglienza delle verità enunciate, l’attuazione delle norme di comportamento e le espressioni cultuali hanno come sfondo la gioia del «tesoro scoperto» possono avere un senso positivo e costruttivo.

    Fede feriale e fede festiva

    L’adesione a Gesù e alla sua proposta di vita richiede senz’altro un’attuazione quotidiana. Di per sé è un’opzione che investe tutta la vita e tutti i momenti e le circostanze della vita. Ovviamente, se si riesce a viverla nella sua pienezza, cosa che non è tanto comune. Sono molte infatti le controproposte che la mettono alla prova, e in più di un caso la sopraffanno. È forte la loro attrattiva e la loro carica di seduzione, e spesso hanno la meglio nell’esistenza di ogni giorno. La fede però non ammette di per sé compartimenti stagni, e richiederebbe di occupare tutti gli spazi della vita riempiendoli della sua gioia. Essa è quindi un qualcosa di feriale, di quotidiano. S. Paolo lo insegnava ai suoi cristiani con parole che le sono caratteristiche: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31). Il testo accenna inizialmente alle cose più elementari dell’esistenza umana, il mangiare e il bere, come a dire che niente, nemmeno le cose che sembrano più in-significanti ne resta escluso. Da lì si proietta poi su «qualsiasi altra cosa». Si può perciò parlare di una fede «feriale», che tende ad estendersi ad ogni momento e circostanza della vita, e che può essere vissuta anche in momenti dolorosi e difficili.
    Ma la fede si celebra anche. E celebrare è, antropologicamente parlando, fare qualcosa che di per sé è comune, in maniera comunitaria e festiva. Due sono quindi le sue caratteristiche principali: la comunitarietà e la festività.
    Nessuno fa festa da solo. Si è almeno in due a festeggiare. Perché festeggiare è condividere gioiosamente con altro o con altri ciò che è motivo di festa. Una della maniere più usuali di festeggiare è quella di mangiare insieme. Un mangiare che implica un vero salto di qualità. Ordinariamente, chi mangia lo fa per soddisfare la fame, per ricuperare le forze perdute e le energie bruciate, o per ricaricarsi di energie nuove. E in ciò l’uomo non differisce dagli animali. Si mangia per sopravvivere, perché se non si mangia si muore. Ma quando ci si riunisce per celebrare qualcosa, il mangiare acquista un altro senso. Gli animali non fanno dei banchetti, mangiano solo perché ne hanno fisiologicamente bisogno. E mangiano da soli, anche se sono in branco. Gli esseri umani invece sono capaci di «banchettare». E nel banchetto, tutto ciò che si usa per i pasti ordinari viene in qualche modo come trasfigurato. Le cose che si mangiano non sono quelle di ogni giorno, il tavolo attorno al quale ci si riunisce viene ornato in modo diverso, le parole che si usano hanno un carattere tipico e spesso, almeno in certe zone del mondo, la musica dona al banchetto una tonalità particolare.
    Ma soprattutto, e in ciò ci si riallaccia alla seconda caratteristica della celebrazione, non si mangia da soli. Si condividono infatti i cibi, ma anche i discorsi e i sentimenti. Un banchetto festivo è sempre, nella misura in cui è tale, una autentica espressione del «noi». È per questo che le persone che non riescono ad amarsi, o addirittura si odiano, non possono sedersi attorno a un tavolo a festeggiare insieme. Non riescono a costituire un «noi» sincero e profondo. Tutt’al più il loro è uno stare fisicamente insieme, ma senza che arrivino a una vera comunione interpersonale.
    La fede in Gesù, che si vive nel feriale, si festeggia anche. Il vissuto di ogni giorno nello sforzo di seguire le sue orme acquista, in certe circostanze, una «qualità festiva». Non per niente l’espressione più alta della fede è la celebrazione del banchetto dell’Eucaristia. In esso i discepoli di Gesù portano la loro fede feriale al livello della festività. Perciò il momento più alto dell’Eucaristia è la comunione in cui, condividendo il Corpo e il Sangue del Signore morto e risorto nei segni del pane e del vino «transustanziati», essi celebrano tutto lo sforzo di comunione fraterna vissuto nel quotidiano.
    Benedetto XVI ha qualificato le Giornate mondiali della Gioventù come una «grande festa della fede». Si potrebbe dire che esse, oltre a far partecipare festivamente i giovani nelle Eucaristie che vengono celebrate nel corso delle loro diverse manifestazioni, sono chiamate ad essere una grande Eucaristia: festa gioiosa di comunione con il Signore morto e risorto e con tutti gli altri fratelli nella fede. Vi partecipano migliaia e migliaia di giovani di tutto il mondo, ma c’è qualcosa che li unifica al di là delle innegabili differenze, «l’esperienza del Signore Gesù risorto e vivo e del suo amore per ciascuno». Esperienza di cui è segno manifesto la gioia debordante che le contrassegna.


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