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    L'ipotesi Dio

    è ragionevole?

    Marcelo Bravo Pereira [1]


    Dio non è verificabile empiricamente, però si può arrivare a Dio attraverso ciò che è empiricamente verificabile. Partiamo da due dati che non si possono negare.
    Primo, l'esistenza di Dio non è evidente. Almeno non è evidente come lo è la presenza degli oggetti materiali che mi circondano.
    Ci sono stati filosofi che hanno affermato il contrario. Sono i cosiddetti "ontologisti". Dio, secondo loro, sarebbe un'idea originaria e originante. Originaria, cioè, sarebbe presente in ogni intendimento umano come la prima idea, come l'immagine di Dio impressa nell'anima di ogni uomo. Non solo. Sarebbe anche l'idea originante, cioè, darebbe origine ad ogni altra conoscenza.
    Tutto ciò che so lo conosco - secondo questi autori - sub specie divinitatis, alla luce dell'idea di Dio impressa nella mia anima. È curioso notare che questi filosofi, pur avendo fissato l'affermazione dell'evidenza di Dio, come dato irrefutabile, passino dopo a moltiplicare le prove dell'esistenza di Dio. Non era allora evidente? Così, affermano in pratica che l'idea di Dio, se deve essere dimostrata, non è evidente.
    Dio, pertanto, non è evidente. Quanti hanno affermato di aver visto Dio - i mistici, per esempio - non hanno visto realmente proprio Dio. Hanno visto, al massimo, "l'orlo del suo manto", le sue spalle, come nel caso di Mosé quando, nascosto nel cavo di una roccia, vide "passare" Dio. Cioè, coloro che hanno visto Dio hanno visto al massimo l'influsso decisivo e unico che questi ha avuto in alcuni momenti della loro vita. "Dio nessuno l'ha mai visto" è la frase lapidaria di San Giovanni nel suo Vangelo.
    Il secondo dato che non si può negare è la tendenza dell'uomo ad affermare l'esistenza di Dio. Esiste nell'uomo un'inclinazione molto "ostinata", molto difficile da estirpare, e che ritorna costantemente: la tendenza ad affermare che Dio esiste; non però come esistono le favole, le fate, gli elfi, ecc. L'uomo, anche il bambino, sa perfettamente - sebbene non sempre sappia spiegarlo - qual è la differenza tra "l'abominevole uomo delle nevi" e Dio.
    Ci sono stati nella storia pensatori - tanto per chiamarli in qualche modo - che hanno negato l'esistenza di Dio. Se Dio non esiste, la persistenza dell'affermazione di Dio nell'uomo si deve a varie cause che però non hanno niente a che vedere con Dio, dal momento che Dio non esiste. Hanno detto che la religione è frutto della paura, è una sovrastruttura sociale che blocca la lotta di classe, è frutto della repressione-sublimazione degli istinti sessuali, alienazione della miseria umana e proiezione in un universo metafisico delle qualità che sono caratteristiche dell'uomo stesso, manifestazione storica di archetipi presenti nell'inconscio collettivo, ecc.
    E malgrado ciò, come abbiamo già visto, "Dio" è ostinato. Continua a riapparire. L'uomo in questo è come la cavalla vecchia, basta allentare un poco le redini e torna sempre alla stalla. Buttiamo fuori Dio dalla porta e questi ritorna dalla finestra. Puoi dare all'uomo tutte le ragioni che vuoi, per allontanarlo dalla fede in Dio, e costantemente sentirà la nostalgia della casa paterna.
    Perché ritorna sempre questa nostalgia di Dio? Oltre a tutte le cause particolari del sorgere della religione, c'è una causa che considero essenziale. Certamente è una causa che sarà prontamente negata da coloro che, avendo ridotto l'uomo ad una sola dimensione, quella materiale, riducono anche la religione ad un mero fenomeno psico-biologico, sociale o culturale.
    Però non è così. L'uomo non è solo psiche e storia. È anche e soprattutto un essere che si trova a suo agio in un ambiente spirituale. La religione scaturisce da questa dimensione. L'uomo è religioso, l'uomo tende ad affermare l'esistenza della trascendenza perché è spirituale. In assenza di questa considerazione, la religione - e la conseguente affermazione di Dio - cadono nell'assurdo, come cade nell'assurdo l'uomo stesso quando lo si riduce ad una sola dimensione.
    L'affermazione di Dio non sorge dalle dimensioni inferiori dell'uomo, come una specie di invasione del mondo subcosciente, subumano nella sfera della coscienza. No. La religione - e la conseguente affermazione di Dio - sorge dalla dimensione più alta dell'uomo: quella che ha a che vedere con la sua intelligenza e la sua volontà. Certamente non solo dalla sua intelligenza e dalla sua volontà, perché l'uomo non è solo questo. L'uomo è anche sentimento, passione, dinamismo psichico, abitudini ataviche, ecc. Ciononostante, il sentimento, la passione, il dinamismo psichico sono incapaci di dare forma alla convinzione dell'esistenza e dell'azione di Dio. L'uomo tende ad affermare l'esistenza di Dio perché ritiene che questa affermazione sia in accordo con il suo intendimento e con la sua tendenza verso il bene. In definitiva, perché "l'ipotesi Dio" è ragionevole. E se è ragionevole la si può "affermare" di fatto.
    Alla domanda: "Perché asserisci l'esistenza di Dio se non è evidente?" L'uomo "normale" risponde: "Perché non ho motivi sufficienti per non affermarlo e invece molti per affermarlo (la sensazione di non essere solo, il valore oggettivo della morale, la ricompensa dei buoni e la condanna dei cattivi, l'intelligibilità dell'universo, il valore del principio di finalità..., e perché mia madre, che è buona e non mi può ingannare, mi ha detto che esiste... ecc.).
    Pertanto, due dati sono incontestabili: Dio non è evidente e l'uomo sostiene ciò che non è evidente. Perché?

    II racconto dell'ateo e del rabbino

    Prendiamo il racconto dell'ateo e del rabbino. Dato che l'ateo si trova in minoranza, tocca a lui prendersi la noia di dimostrare perché affermi ciò che quasi nessuno afferma, cioè che Dio non esiste. Quindi, dopo aver affinato tutti i suoi argomenti, l'ateo salì sul monte su cui meditava il rabbino. Entrò nella sua grotta senza bussare alla porta - molto probabilmente perché la porta non c'era - e aspettò la reazione dell'anziano rabbino. Questi non si scompose, e continuò a leggere la Sacra Scrittura per un momento. Alla fine, il rabbino, senza nemmeno alzare la testa esclamò: "Forse è vero".
    Qui termina il racconto. E qui termina la veemenza dialettica dell'ateo. Egli nulla ha potuto contro questo "forse". Forse sì, forse no. Forse Dio esiste. Forse non esiste. La mancanza di evidenza colpisce tanto l'ateo quanto il credente. Nessuno dei due ha l'evidenza per affermare con assoluta certezza la propria posizione. "Dio" non è evidente perché o non esiste (ciò che non esiste non si può vedere) o perché mi sono reso incapace di vederlo. E se sono incapace di vederlo, dovrei, per onestà, dare ragione a Wittgenstein: di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere.
    Si potrebbe comunque arrivare ad un compromesso tra l'ateo e il credente: siamo pari, né tu né io siamo vincitori, non ci sono vinti, meglio che ognuno tenga per sé il proprio giudizio e non attacchi l'altro. Questa sarebbe la cosa più semplice. E, malgrado ciò, c'è qualcosa in me che non mi lascia tranquillo. Nonostante tutto, non posso tacere. Qualcosa mi spinge e so che questo "qualcosa" non si riduce ad un puro meccanismo psicologico. Che cosa c'è in me? Che cosa c'è nella realtà che mi circonda che mi spinge all'affermazione di ciò che non posso vedere, di ciò che non è evidente, di ciò di cui non posso parlare?

    La scienza e la fede in Dio

    L'analisi della condotta umana, dell'uomo normale, ci porta necessariamente ad una conclusione: per l'uomo non è assurdo credere nell'esistenza di Dio. Il bambino accetta di buon grado di entrare in contatto con questo essere misterioso e invisibile che chiamiamo "il Buon Dio" (o nella cultura latinoamericana "Tata Dio" dove "Tata" è il nomignolo con cui si indica non un essere malvagio e oppressivo, ma un "nonnino", immagine della bontà e della generosità).
    È vero che l'avvicinamento a Dio varia da cultura a cultura. La visione di Dio che ha un cristiano o un musulmano, un induista o un melanesiano non è la stessa. Una cosa è certa: l'ambiente non è determinante nel sorgere, nella coscienza, dell'esistenza di Dio - come non lo sono nemmeno i fenomeni psico‑biologici – questi fenomeni determineranno, in ogni caso, i tratti caratteristici della personale visione di Dio, ma non il fatto dell'affermazione di Dio.
    Non succede la stessa cosa con l'affermazione dell'ateismo. L'ateismo è estraneo alla coscienza umana nel suo stato di "normalità". È piuttosto frutto di un'elaborazione concettuale. Questo è un fatto. Il bambino e l'uomo "normale", sono soliti credere in Dio senza domandarsi seriamente il perché di una convinzione tanto paradossale come l'esistenza di Dio. Se domandiamo all'uomo "della strada" perché crede in Dio, non saprà bene come rispondere. Sarebbe una domanda imbarazzante. Al contrario, nessuno è ateo "per caso" ma per diversi motivi - concettuali, morali, politici - che non pretendo enumerare qui. L'ateo avrà sempre motivi per essere ateo.
    Consideriamo "normale", pertanto, che l'uomo sia religioso. E questa "normalità" è indipendente dal grado di cultura, dallo stato emotivo, dall'età. Troviamo uomini religiosi sia tra i contadini sia nelle facoltà di scienze. E vero che tra gli uomini di scienza a volte c'è una percentuale maggiore di atei. Nell'Associazione scientifica americana la percentuale di atei è più o meno del 90%, cioè, la percentuale inversa a quella degli atei nella popolazione americana (90% di credenti). Per alcuni, questa percentuale di adesione mostra che se c'è una professione che non risveglia sentimenti religiosi, questa è quella scientifica.
    A questo si può rispondere in due modi: il primo è analizzare la percentuale che ci viene proposta. È vero che, stando ad alcune indagini, i190% degli uomini di scienza americani si dichiarano atei. Però se si analizzano le aree scientifiche separatamente si scoprirà che gli uomini di scienza che più tendono a credere in Dio sono gli astronomi e i matematici, mentre coloro che meno accettano "l'ipotesi" Dio sono i biologi.
    Cioè, in ogni caso non sono gli atei gli uomini di scienza, ma solo un gruppo di essi: i biologi; e oltre a ciò ci si potrebbe domandare quale era il "Dio" proposto in queste indagini: una cosa è ritenere l'esistenza di una causa prima (magari senza volto e personalità), e un'altra è credere nel Dio di Gesù Cristo o di Maometto.[2] Comunque, resta il fatto che i biologi sembrano essere i meno credenti degli scienziati. Ma questa miscredenza è dovuta forse più ai presupposti ideologici darwiniani dello studio della biologia - che non sono strettamente parlando "scientifici" - che alle conclusioni stesse della scienza.
    Un'altra risposta si riferisce al fatto stesso che esistano uomini di scienza credenti. Qui l'eccezione non conferma, ma distrugge la regola (cioè che gli uomini di scienza facciano fatica a credere). In linea teorica mi basterebbe un uomo di scienza di primo livello, riconosciuto in tutto il mondo per il suo sapere, che fosse credente, per mostrare che la scienza non è necessariamente in contrasto con la fede in Dio, perché se così fosse, quest'uomo di scienza non potrebbe essere di primo livello e la sua fede in Dio sarebbe un ostacolo insormontabile per la sua ricerca scientifica. Il fatto è che non c'è un solo uomo di scienza, ma molti che affermano l'esistenza di Dio propio - e questo è notevole - a causa dei loro studi scientifici. Attraverso lo studio dei fenomeni cosmici arrivano alla convinzione di un'intelligenza precedente che ha dato forma "more geometrico" all'universo.

    È ragionevole che Dio esista?

    Esiste, pertanto, questa vecchia convinzione esistenziale nell'uomo: Dio esiste e agisce nella vita degli uomini. Dio si lascia vedere, sebbene nascondendosi attraverso i fenomeni della vita del cosmo e si rende presente nell'intimo della coscienza umana.
    La domanda non è pertanto se Dio esista. A quanto pare, nonostante la sua non evidenza, Dio esiste con il consenso di tutti gli uomini, o della maggior parte di essi. Ma il problema di Dio non è una questione democratica. La domanda è piuttosto un'altra: ho la convinzione esistenziale che Dio esista, perchè lo sento, perchè mi hanno parlato tanto di lui, perchè l'ho "poppato" dal seno di mia madre, ma posso affermare l'esistenza di Dio anche con la ragione? In altre parole, è ragionevole che Dio esista? Posso passare dal "vissuto", dall'involucro di esperienze concrete, emotive, sentimentali che circonda "l'ipotesi" Dio alla convinzione che quest'idea non è irrazionale, ma addirittura, che sono obbligato intellettualmente ad affermare che Dio esiste?
    Qui si radica il problema fondamentale di ciò che chiamiamo "teologia razionale". Dio non è evidente, è necessario dimostrare la sua esistenza. Però la finalità di questa dimostrazione non è, in primo luogo, suscitare la fede in Dio. Coloro che seguono il percorso della teologia razionale non mettono tra parentesi la propria fede in Dio per vedere se possono arrivare a lui per una via puramente razionale.
    San Tommaso, per citare il più rappresentativo, non è stato un ateo che è arrivato alla fede e alla conoscenza di Dio attraverso le cinque vie; cioè non è passato dal "non-Dio" a "Dio". Egli è stato un credente che ha tentato di analizzare dal punto di vista della ragione le "ragioni" della sua fede in Dio. Qui si radica uno dei grandi errori della riflessione su Dio. Molti, tra cui il grande Pascal, hanno rifiutato le prove dell'esistenza di Dio per la loro incapacità di convincere un qualunque ateo che Dio esiste e che Egli si è rivelato in Gesù Cristo. Ovvio, perchè si aspettavano dalle cinque vie di San Tommaso ciò che queste non potevano offrire. La conversione va molto oltre un mero gioco concettuale. È implicata tutta la vita. È implicata soprattutto la grazia divina.
    Aristotele ci ha insegnato che un errore, piccolo all'inizio, diventa grande, incolmabile, alla fine. Se si guarda con attenzione, c'è una differenza notevole tra il dire che il punto di partenza è vedere se Dio esiste e considerare, al contrario, come punto di partenza la possibilità di dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio. Chiaramente, i neopositivisti diranno che "Dio esiste" è una proposizione carente di senso in quanto non è empiricamente verificabile. Effettivamente, "Dio" non è empiricamente verificabile, però si può arrivare a Dio attraverso ciò che è empiricamente verificabile.
    Qui sta il nodo dell'argomentazione tomista. Qui sta tutta la forza argomentativa delle cinque vie tomiste, nella possibilità - che nessuno può negare ragionevolmente - che ci siano verità evidenti e altre meno evidenti e che le prime (le verità evidenti) mi servano da gancio per arrivare alle seconde (le verità non evidenti).
    Facciamo un esempio molto semplice: no:' dente che chi legge questo scritto-.. \ - evidente perchè, se legge questo scritto, è vivo tanto come colui che lo ha scritto, almeno nel tempo che ha impiegato per scriverlo. Non è evidente che sia mortale. E evidente piuttosto il contrario: chi legge questo articolo è vivo e data la situazione presente, attuale, non si vede in modo evidente se sia destinato alla morte.
    Malgrado ciò, io posso affermare con verità che chi legge questo scritto - Francesco, per fare un nome - è mortale perchè, dato che è evidente che Francesco è un uomo, Francesco è un individuo che appartiene alla natura umana, e il fatto che ci siano tanti morti nel cimitero indica evidentemente che chi appartiene alla natura umana è mortale; pertanto, posso dire con certezza che Francesco è mortale. E dire il contrario sarebbe andare contro l'evidenza, non l'evidenza immediata ma contro l'evidenza mediata. Cioè, sono passato da una verità evidente ad un'altra non evidente e questo passaggio è talmente argomentato che non posso dubitare del valore di verità della proposizione non evidente.
    È possibile arrivare all'esistenza di Dio in questo modo? Sembra semplice: è possibile passare al non evidente a partire da qualcosa che è evidente e che mi serve da termine di unione tra l'evidente e il non evidente? Però, quale sarebbe questo termine di unione nel caso della dimostrazione dell'esistenza di Dio?

    Dall'evidente al non evidente

    Immaginiamo di camminare in un bosco. All'improvviso troviamo un albero con un ramo rotto, appeso al tronco dell'albero. Che pensieri suscita in noi questo fenomeno? Se il ramo è rotto e appeso al tronco, la prima cosa che mi domando è: "Che cosa è successo qui?".Generalmente i rami degli alberi non crescono in questo modo. Se vedo al contrario un albero con tutti i suoi rami integri, non mi faccio altre domande. Che un albero abbia i rami dritti è normale. Però se trovo un ramo rotto e a penzoloni, è normale che mi domandi cosa sia successo.
    Ma posso sapere, a partire dal ramo spezzato, chi ha rotto il ramo? Posso sapere se è stato un animale o un uomo o il peso della neve o il vento? Posso conoscere il motivo per cui un uomo – se effettivamente è stato un uomo – ha rotto il ramo? Posso sapere se lo ha fatto per pura cattiveria o perché voleva dare un segnale ad un'altra persona? Posso conoscere il colore degli occhi di questa persona, la sua età, la sua statura fisica e il suo atteggiamento morale o spirituale? La risposta a queste domande è ovvia: no. Non posso sapere tutto questo perché esiste una sproporzione reale tra l'effetto (il ramo spezzato) e la causa (uomo, animale o fenomeno naturale).
    Non succede lo stesso con Dio? Quel che è evidente per noi è il mondo naturale, sensibile, materiale però, non esiste una sproporzione tale tra il Creatore e la creatura da rendere illegittimo questo passaggio? La creazione è materiale, Dio - se esiste - è spirituale. Tra il mondo materiale e l'ambito spirituale c'è una differenza qualitativa, non solamente quantitativa. Sarebbe lecito passare da una realtà materiale, sensibile ad un realtà spirituale, immateriale? A quanto pare, no.
    Torniamo all'esempio del ramo spezzato che pende dall'albero. Il fatto che si verifichi questo fenomeno non mi dice granché della sua causa. Però mi dice una cosa: deve esistere una causa. Non so che cosa sia successo a questo ramo, può darsi che non lo saprò mai. Ma so almeno che "è successo qualcosa". E questo lo so con certezza. L'albero non può ferirsi da solo, né finora si può parlare di alberi che naturalmente fanno crescere rami rotti. Non si considerano qui le circostanze del fatto (se la frattura sia grande o piccola, se sia stata fatta nella parte larga o stretta dell'albero, ecc.). Ciò che si considera qui è il fatto in sé, che è rotto. Cioè, l'esistenza stessa dell'effetto mi porta necessariamente alla sua causa. Chiaramente, si potrebbe ribattere anche dicendo che il ramo si è spezzato a causa di un difetto proprio dell'albero e quindi non a causa di qualcosa di esterno. È vero, e l'esempio che ho utilizzato non è perfetto. Malgrado ciò, anche qui dobbiamo dire che c'è stata comunque una causa, sia stata questa la fragilità propria dell'albero e la forza di gravità. Cioè, c'è stata una causa.
    Con Dio succede lo stesso. Partiamo da ciò che è evidente, cioè, dalla realtà naturale. La prima considerazione, la più generale che ci suggerisce è che di fatto esiste. C'è qualcosa invece del nulla. Questo qualcosa è variabile, multiforme, colorato, però anche contingente, precario, cangiante, instabile... e per lo stesso motivo, scopro che io stesso e ciò che mi circonda potrebbe essere stato fatto diversamente da come è attualmente. Se i miei genitori non si fossero incontrati, io non sarei esistito; e questo vale per tutte le realtà naturali. Tutto ci dice che tutto potrebbe essere stato diverso da come è. Cioè, non esiste necessariamente, è contingente. Non trova in se stesso la ragione d'essere della propria esistenza attuale.
    Ora, la pura contingenza è irrazionale. E come dire che il ramo ha rotto se stesso senza nessuna causa. Non l'ha rotto nessuno! Ma allora dovrebbe stare dritto come gli altri rami. Insisto. L'impossibilità di dedurre le caratteristiche di questa causa non incide minimamente sulla necessità che esista una causa. In riferimento all'esistenza del mondo, della realtà contingente, si fa la stessa affermazione: non so come sia questa causa, però so almeno due cose, in primo luogo che esiste una causa, e in secondo luogo che ha il potere, la capacità di influire su tutto quel che causa, cioè sull'effetto. Nel vedere il ramo spezzato affermo necessariamente che, primo, c'è una causa di questa rottura e, secondo, questa causa ha la forza sufficiente almeno per rompere il ramo.
    Così succede nell'universo contingente nel suo insieme. L'esistenza stessa del mondo esige una causa, e questa causa deve avere tanta forza, tanta capacità, almeno, da trovarsi all'origine dell'esistere stesso del mondo.
    In questo modo possiamo rispondere soddisfacentemente al problema fondamentale: è possibile passare dall'evidente al non evidente nell'argomentazione sull'esistenza di Dio? Si, è possibile. L'evidente è l'essere stesso delle cose e la loro insufficienza, la loro incapacità di autogiustificarsi. Questo essere contingente evidente esige l'affermazione di una causa proporzionata non evidente, cioè, una causa capace di creare, di dare l'essere che le creature non possono dare a se stesse. Questa causa prima omnes Deum appellant, "tutti la chiamano Dio".


    NOTE

    [1] P. Marcelo Bravo Pereira LC, nato a Santiago del Cile nel 1970, è direttore dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Dopo la laurea in Filosofia ha ottenuto il dottorato di ricerca in Teologia con una tesi sul rapporto tra cristianesimo e religioni presso il medesimo Ateneo, dove è docente di Teologia fondamentale e di Filosofia della religione. Ha pubblicato Las religiones no cristianas a la luz de la revelación, Pensiero filosofico su Dio e la religione, e La ricerca di quello splendore. Note introduttive alla fenomenologia della religione e ha collaborato con la rivista Ecclesia con diversi articoli su temi di filosofia e teologia.
    L'articolo è tratto da "21mo Secolo. Scienza e tecnologia", n. 9 /2011 e fa parte di un dossier speciale dal titolo "Scienza e fede"
    [2] Si può consultare a questo proposito Scientists and Religion in America, di Edward J. Larson e Larry Witham, articolo pubblicato sulla rivista Scientific American, Settembre 1999, pp. 78-83.


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