A cura della redazione
(NPG 1975-11-5)
Da tempo stiamo portando avanti una serie di riflessioni sull'animazione del mondo sportivo. Crediamo alla opportunità di un'azione pastorale che s'innesti nell'esperienza sportiva, come esperienza umanamente interessante e rilevante. Ma vogliamo uno sport diverso, più a misura d'uomo, per rendere possibile di fatto una crescita in umanità che apra alla gioiosa coscienza di essere figlio di Dio. La pastorale non fa una metodologia educativa dello sport come non fa una teologia dello sport: lascia l'una e l'altra cosa alle discipline competenti. Chiede però di parlar di Dio in modo che c'entri con l'interesse umano dello sport. E parte da una pedagogia sullo sport che rifiuti l'acceso agonismo, la selettività che conduce all'emarginazione dei più deboli, la riduzione dello sport alla sola dimensione tecnico-pratica. La pastorale pone delle «pregiudiziali» all'autonoma riflessione degli educatori-animatori sportivi. In un certo modo di concepire umanamente le quindi tecnicamente) lo sport è possibile l'integrazione tra fede e vita; in altre prospettive non c'è spazio per un discorso di fede; se fosse fatto risulterebbe oggettivamente retorico. In questo spirito abbiamo sempre cercato di parlare dello sport, dalle pagine della rivista.
Molti educatori ci hanno seguito. Le loro realizzazioni e le loro preoccupazioni hanno sorretto e unificato il nostro itinerario. Per altri il discorso è diventato duro: o perché era sotto giudizio il loro modo di fare sport o il loro modo di fare pastorale.
Nel centro di un cammino importante e impegnativo, desideriamo fare il punto sulle nostre ricerche. Per recuperare i temi già trattati e per aprire ai successivi interventi.
Questo studio - frutto della collaborazione del Centro Salesiano Pastorale Giovanile con molti amici militanti nel mondo sportivo (C.S.I. di Torino e P.G.S.) - offre un quadro di riferimento, angolato sul taglio della formazione di animatori sportivi «in un certo modo». È una proposta come le tante altre di cui Note di Pastorale Giovanile si fa eco. Un progetto che cerca verifiche teoriche e pratiche, un confronto e un dialogo con i lettori.
Per collocare l'intervento nel contesto delle riflessioni pastorali già elaborate, abbiamo preferito moltiplicare rimandi, espliciti o indiretti, a cose già scritte.
L'ANIMATORE AL SERVIZIO DELLA LIBERAZIONE DELL'UOMO
La scelta: una educazione liberatrice
Il cambiamento socio-culturale della nostra società fa emergere la esigenza sempre più avvertita di uno sport inteso non più semplicemente come pratica sportiva fortemente agonistica, selettiva, tesa al professionismo, allo spettacolo commerciale e divistico, ma concepita come un vero e proprio servizio sociale: come un diritto di tutti i cittadini, che si realizza attraverso attività ludico-motorie proposte a tutti. Quindi senza selettività e senza fini che non siano quelli di una educazione che faccia esercitare e interiorizzare valori quali la creatività, l'inventiva, la partecipazione, la corresponsabilità. In questo senso lo sport diviene fatto culturale, che si inserisce direttamente in un progetto di formazione permanente. Esso non ignora nessuna attività umana e concepisce l'attività fisica non come fattore secondario o marginale, riservato ad alcuni specialisti, ma come esperienza ordinaria che, insieme alle altre, fa la cultura della persona intesa come unità e interdipendenza di relazioni sociali.
Esigenze di educazione liberatrice
Il raggiungimento di simile obiettivo è ancora molto lontano dalla espressione quotidiana degli stessi sportivi. Molti condizionamenti, sia culturali che strutturali, favoriscono il persistere di una mentalità consumistica, disimpegnata e di «delega». La situazione dominante rimbalza nel mondo sportivo, trovando in esso un terreno favorevole, per la pretesa di «apoliticità» e di neutralità con cui lo sport è stato, per molto tempo, mistificato.
Il problema si pone anche a livello delle generazioni più giovani, che continuano ad essere vittime di questa mentalità, per farsene in seguito protagonisti.
La riflessione su questi dati di fatto, che ogni giorno possiamo toccare con mano, ci conduce a postulare una educazione capace di portare i giovani ad un permanente atteggiamento critico, liberato dall'istintività compulsiva e calibrato dall'oggettività. Ciò che permette all'uomo di liberarsi veramente è la sua coscienza critica, che lo rende capace di essere nello stesso tempo «oggetto» e «soggetto», e cioè né passivamente succube di eventi fatali, né illuso di poter dominare dal di fuori, a sua volontà, tutta la realtà.
L'educazione non potrà perciò prescindere dal considerare il processo di liberazione come una delle sue dimensioni basilari.
Lo sport terreno privilegiato di umanizzazione e di educazione liberatrice
Lo sport è per molti giovani un luogo privilegiato in cui essi manifestano, spesso solo inconsapevolmente, il progetto di sé, la scala di valori e le scelte radicali di vita, in cui si riconoscono. È, per molti, un'esperienza «forte» che richiama tutto di sé, nel modo con cui essa è condotta e vissuta.
Ricordare la necessità di una educazione liberatrice, in questo contesto, significa richiamare l'importanza di far emergere quella immagine d'uomo che è sottesa ad un certo modo di fare sport. Lo sport diventa così terreno di verifica e di giudizio sul progetto d'uomo che ciascuno si porta dentro. Questo compito educativo corrisponde ad una educazione liberatrice perché da una parte elimina la conflittualità tra progetto di sé e modi ordinari, spesso disumanizzati o disimpegnati, di viverlo e, dall'altra, assicura la possibilità di un giudizio critico su se stessi, sul modo di progettarsi in vista della realizzazione di sé, nell'insieme sociale. Tale verifica necessariamente diventa anche istanza di liberazione nei confronti di quel sistema manipolatore in cui viviamo, che invece favorisce la disgregazione tra progetti impegnati e azioni disimpegnate, innescando nello sport quei processi di alienazione che percorreranno poi molti rapporti personali e strutturali.
In una visione cristiana dell'uomo e della realtà
Ci muoviamo all'interno di una prospettiva esplicitamente cristiana: il nostro servizio nel mondo sportivo è qualificato dalla nostra fondamentale ispirazione cristiana. In una situazione «profana» come è l'attività sportiva, essa si risolve in un impegno di educazione umanizzante, vissuto all'interno di una chiara visione cristiana dell'uomo e della realtà. Lo sport non è mezzo per raggiungere fini religiosi, ma istituzione umana per la liberazione delle persone. Nella elaborazione di un progetto d'uomo verso cui incanalare l'educazione umanizzante e liberatrice, l'ispirazione cristiana non dà modelli particolari predefiniti, ma fornisce una sensibilità di fondo, che porta a giudicare gli umanesimi e le ideologie ricorrenti, secondo la dimensione di umanità globale che emerge dal Vangelo.
Il progetto che stiamo elaborando, perciò, è per noi proposta «pastorale» anche se indiretta. Si tratta di una educazione alla fede e di una testimonianza della nostra esperienza cristiana, protesa direttamente alla creazione di un modo di concepire lo sport, umanamente e tecnicamente, in cui sia possibile obiettivamente l'integrazione tra fede e vita.
Il compito dell'animatore nell'educazione liberatrice
Gli obiettivi che caratterizzano l'educazione liberatrice appellano direttamente alla figura dell'animatore: una persona, unificata da una grande capacità di amare, ricca dei valori fondamentali che caratterizzano l'essere adulto, che sa inserirsi nel rapporto con l'altro, per far emergere la spinta critica e la capacità creativa, verso una crescita globale della persona nelle singole situazioni di vita.
Solo attraverso il servizio di animatori capaci, lo sport, come le altre esperienze umane, potranno essere vissute in dimensione veramente umanizzata e umanizzante.
Le funzioni dell'animatore
Possiamo sintetizzare la funzione dell'animatore nei seguenti due aspetti correlativi: egli è chiamato a far emergere i problemi e i condizionamenti, in vista della elaborazione di modelli alternativi.
Nella particolare situazione sportiva, questa funzione significa:
- il servizio all'istituzione sportiva perché essa si renda conto dei condizionamenti di cui soffre, delle immagini distorte di sport che eventualmente persegue, dei problemi che vi sono connessi, delle globalità sociali che il fatto sportivo comporta;
- verso l'elaborazione compartecipata di un modo alternativo di fare e di progettare lo sport.
In altre parole, all'animatore si richiede una particolare capacità umana e tecnica:
* Per liberare dai condizionamenti presenti. La sua funzione è strutturalmente di tipo terapeutico. È presente ed invocato, perché si sta vivendo una situazione patologica. Il richiamo all'animatore parte quindi sempre da una coscienza di alienazione che caratterizza il gruppo umano in cui egli è chiamato ad agire.
* Per progettare. L'animatore non è solo un tecnico, capace di decondizionare. La crescita della persona non coincide con la sua liberazione dai condizionamenti: esistono valori oggettivi con cui confrontarsi. Ai valori si giunge attraverso la presentazione-proposta; essi non emergono all'interno del gruppo. Sono un «dono» al gruppo. Tocca all'animatore gestire tale proposta.
Certamente non attraverso modelli di indottrinamento, ma «testimoniando» nella sua persona questi valori alternativi e guidando il gruppo a prese di coscienza mature di esperienze in cui questi nuovi valori siano presenti.
* In un corretto rapporto interno/esterno. Il servizio dell'animatore non è rivolto solo verso l'interno del gruppo. Ogni istituzione è parte di un più vasto sistema che influenza e da cui è influenzata. Perciò fa i conti con la globalità dei problemi e con le strutture che normalmente mediano e intersecano i rapporti interpersonali. La squadra sportiva non può diventare «l'isola felice» disancorata dal mondo reale di cui ogni sportivo è sempre parte. Rifiutiamo, in altre parole, la concezione neutralistica di sport, che voleva lo sport fuori e sopra la mischia politica della vita quotidiana.
L'animatore sportivo
Essere animatore implica una globalità di attitudini di tipo generale, chiamate in causa dalla sua funzione, a prescindere dal concreto in cui questa stessa funzione è esercitata. C'è quindi una preparazione generica ad essere animatore, che lo specifica in quanto «animatore» in assoluto. L'animatore è, nello stesso tempo, fortemente condizionato e «relativizzato» dalla funzione specifica che esercita: il qui-ora concreto in cui è animatore.
L'animatore, chiamato perciò ad un servizio attivo nel mondo sportivo, ha bisogno di una qualificazione specifica, sia nel momento della progettazione della sua figura, sia nel momento della sua formazione pratica. I concreti problemi dello sport «dicono» quale animatore va preparato. L'animatore sportivo deve perciò conoscere a fondo le linee che qualificano la sua figura, ma deve nello stesso tempo conoscere bene il mondo sportivo, i suoi problemi, gli aspetti tecnici in cui si muovono le varie competenze, per offrire un servizio non generico.
Questo criterio di bipolarità (un animatore - per il mondo sportivo) sostiene la proposta contenuta in queste pagine.
L'ANIMATORE NEL MONDO SPORTIVO
Il lungo discorso introduttivo ci porta a concludere che per realizzare un vero servizio sociale sportivo, sono necessari, accanto ai ruoli tradizionali esistenti nel mondo sportivo (tecnici, allenatori, dirigenti...), nuovi ruoli che consentano di raggiungere l'obiettivo di uno sport di reale servizio sociale, fatto culturale, inserito in una programmazione di educazione permanente. Anzi si richiede sempre più che i ruoli tecnici (non essendo mai ruoli neutrali) siano vissuti in una precisa dimensione educativa, attraverso la riqualificazione del tecnico in animatore culturale, la assunzione di reali doti di animazione, la collocazione previa in una prospettiva di educazione liberatrice.
Ogni tecnico sportivo un animatore
I rapporti interpersonali non sono mai rapporti neutrali. Essi contengono una proposta, comunicano un messaggio, per il fatto di esistere. Questo è vero soprattutto in riferimento ai ruoli tecnici del mondo sportivo. Allenatori, Dirigenti, Arbitri hanno un peso notevole sui giovani sportivi che contattano. La loro proposta necessariamente supera la dimensione strettamente tecnica per afferrare prospettive umane. Comunicano un progetto d'uomo, nei termini in cui esercitano la loro mediazione tecnica.
Essi perciò sono i primi e più immediati «animatori» nel mondo sportivo. Lo sono di fatto. Quindi lo devono diventare attraverso una qualificazione precisa, che dia ad essi una coscienza riflessa del proprio ruolo umano, che li aiuti a collocarsi in una prospettiva di liberazione, che offra la strumentazione adeguata per esercitare in forma matura il proprio servizio.
Una verifica degli apparati tecnici
In questa prospettiva assume importanza «umana» anche l'insieme degli apparati tecnici che determinano le «regole del gioco». Esse sono normalmente un fatto «gratuito», che viene accettato e assunto per poter sviluppare un comportamento intersoggettivo.
Nello stesso tempo sono, tendenzialmente, una codificazione di rapporti interpersonali, all'interno di una determinata logica.
Questa logica passa un progetto d'uomo, proprio nell'apparente banalità di un gesto sportivo. O perché richiede una necessaria mediazione di «arbitri», quasi che le persone non fossero capaci di autogestione, o inizia quella divisione di ruoli che poi sarà perpetuata nei rapporti del lavoro; o perché assume come definitive opzioni che invece sono totalmente «gratuite»; o, infine, perché isola il fatto sportivo dal resto dei problemi umani.
Verso un'animazione distribuita
Il livello più alto di animazione si raggiunge quando esiste una reale «distribuzione» di animazione: non come suddivisione di ruoli ma come compartecipazione reale al compito di «educare-educarsi» verso la liberazione.
Questa meta importante è facilitata se qualcuno, nella istituzione sportiva, si assume il ruolo di «animare» il cammino di tutti verso questo traguardo.
Si può quindi parlare di un servizio di animazione «a cerchi concentrici». Esiste un animatore-coordinatore che si incarica di «coordinare» il lavoro di tutti, in una scelta di sport veramente alternativo.
Ad assumere questa mentalità sono guidati i tecnici che, a più titoli, dialogano con i membri dell'istituzione sportiva. Tra essi e l'animatore globale nasce una reale sintonia di progetti e di realizzazioni, una effettiva compartecipazione di impegni educativi.
I membri dell'istituzione sportiva sono aiutati a passare dall'agglomerato al vero «gruppo», suddividendosi eventualmente in sottogruppi a maggior coesione interna, se l'insieme fosse molto vasto.
All'interno di questo gruppo nasce una successiva presa di responsabilità personale e collettiva: una vera esperienza di gruppo, con relativa circolazione di modelli e di proposte.
La funzione di animazione passa lentamente dalle mani di pochi, al gruppo nella sua globalità. L'istituzione sportiva è diventata «comunità» educante, secondo le caratteristiche particolari dell'interesse sportivo coltivato.
Una tensione alla globalità di interessi: dallo sport ai problemi sociali
La crescita in maturità e responsabilità umana dei membri dell'istituzione sportiva porta, normalmente, a due tensioni molto interessanti. Le elenchiamo per offrire all'animatore un obiettivo qualificato del suo servizio:
* dall'interesse sportivo alla pluralità di interessi sportivi: si parla di polisportività per ricordare la necessità di superare la singola competenza sportiva verso una globalità di interessi nel mondo sportivo;
* dall'interesse sportivo all'interesse sociale: una concezione di sport di base fa necessariamente prendere coscienza sui problemi reali del quartiere dove lo sport è vissuto, allarga la percezione ai fatti umani connessi e coinvolti in questo gesto. Apre cioè l'interesse sportivo ad una animazione più vasta, in prospettiva sociale e politica.
I CONTENUTI DELL'ANIMAZIONE SPORTIVA
Un progetto di formazione di animatori sportivi deve fare alcune opzioni di fondo, in cui qualificarsi. Le pagine precedenti hanno sottolineato soprattutto le «costanti» del discorso, per tratteggiare l'obiettivo e i destinatari. Ora indichiamo quattro opzioni preferenziali, sulla cui falsariga elaborare i contenuti specifici delle singole discipline.
La dimensione politica dell'essere animatore: caratteristiche della educazione liberatrice
«L'educatore ha il compito di proporre una mediazione di "adattamento" tra i due interlocutore di ogni processo sociale:
- il "giovane" che cresce e cerca un suo inserimento nelle istituzioni sociali [integrativo, evasivo, o eversivo, non importa: si tratta di modalità, anche se radicalmente diverse, di uno stesso processo di confronto-inserimento);
- le istituzioni sociali che preesistono come dato di fatto: qualsiasi istituzione e l'insieme delle istituzioni: il sistema "sociale".
Nei confronti delle istituzioni il giovane è allo stato "puro": ignora le regole di condotta che determinano il bene/male sociale (molto spesso convenzionale: si pensi alla c.d. "buona educazione"), non ha ancora gerarchizzato i valori secondo una convenzionalità indotta, non ha ancora sufficientemente interiorizzato i modelli di comportamento che faciliteranno in seguito il suo rapporto con persone, fatti, strutture. L'istituzione invece ha già una sua precisa codificazione: alcuni comportamenti sono a priori "normali" (cioè corrispondano alle "norme", quelle "regole di condotta che riscuotono l'approvazione sociale"), altri invece sono "devianti" (corrispondono a norme socialmente disapprovate).
È evidente che non vogliamo ridurre ogni decisione etica a questo rapporto esteriore di conformismo sociale. Crediamo fermamente all'esistenza di valori trascendenti e crediamo alla capacità soggettiva di prendere atto di questi valori primordiali, attraverso la coscienza morale. Molti comportamenti sociali sono però estremamente convenzionali, e, spesso, anche l'interpretazione corrente dei valori più oggettivi risente della pressione istituzionale.
Il terreno dell'azione educativa è questo "conflitto" di norme, dalla cui soluzione nasce un tipo di impatto tra "giovane" e "istituzione", con relativa reciproca collocazione-adattamento. Da questo confronto affiora la gerarchizzazione esistenziale dei valori, l'accettazione di quelli veramente normativi (nel peso di cui sono rispettivamente carichi) e la creatività o l'integrazione passiva nei confronti di quelli solamente sociali-strutturali: nasce, insomma, un tipo di "maturità".
L'adattamento è lo spazio operativo dell'educatore. Educatore significa progettare un rapporto adattivo (quale?) della persona alle istituzioni sociali, alle regole di condotta in esse presenti e dominanti, ai modelli e ai valori che in esse riscuotono il prestigio sociale.
Secondo quali direzioni?
Ne ipotizziamo tre, toccando per ogni discorso la soglia-limite:
* Adattamento come "accettazione incondizionata" delle norme istituzionali: educare può significare guidare il giovane ad interiorizzare le norme della istituzione sociale, addolcendo l'impatto con i vari "premi" sociali (la promessa del successo, della carriera, della "fortuna" nella vita...) e smussando le emergenze troppo rigide; per raggiungere l'inserimento pieno o integrato in una istituzione che accoglie il "nuovo" senza modificarsi.
* Adattamento come "eversione" dell'istituzione sociale: educare può significare rinforzare, attraverso opportuni interventi educativi, la spontanea reazione di rifiuto che ogni "nuovo" assume nei confronti di un sistema culturale prestabilito. Sulla forza di questo spontaneo rigetto può nascere un principio eversivo nei confronti dell'istituzione, soprattutto in ciò che essa ha di costitutivo: il quadro dei valori.
Una forma adolescenziale di eversione è l'evasione: la fuga verso un mondo utopico, dove le istituzioni mai sono normative e dove la creatività fantasiosa di ogni persona è protagonista indisturbata della strutturazione sociale.
* Adattamento come "educazione liberatrice": educare può significare guidare il giovane a confrontarsi in forma critica con i valori vigenti, per "decidere" una posizione creatrice nei confronti della istituzione.
Commisurare, in altre parole, la "realtà" di ogni istituzione con la novità che è ogni persona, per instaurare un rapporto di innovazione permanente. I conflitti che descrivono questo rapporto dialettico e realistico, sono anticipati e sostenuti dagli interventi dell'educatore, preoccupato più della maturità della persona che della pace sociale.
Abbiamo l'impressione che non esistano alternative, fuori di queste indicate. L'educatore è chiamato a collocarsi in una delle tre opzioni. Il non pensarci, il rimandare il problema, il rifiutare la decisione, significa optare per l'adattamento passivo: quindi credere alla intangibilità delle norme sociali e lavorare perché ciascuno sia in grado di integrarvisi. Si tratta, come si vede, di una chiara scelta politica, da cui l'educatore non può sfuggire».
(Centro Salesiano Pastorale Giovanile, Fare pastorale giovanile oggi, LDC 1975, pag. 84-85).
È facile notare come la scelta di una prospettiva a scapito dell'altra abbia un rimbalzo concreto nello specifico terreno sportivo. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. Nel momento concreto della formazione degli animatori sportivi, un discorso del genere va tradotto in termini molto concreti. Si pensi, solo per fare un esempio, al rapporto della squadra e del singolo con i «regolamenti» tecnici e esecutivi. Sono possibili tre reazioni:
- l'accettazione incondizionata del regolamento, con la motivazione che è un fatto gratuito e quindi neutrale. Mentre, all'opposto, è facile scoprire il progetto d'uomo che ad esso è sotteso, in quanto codificazione istituzionalizzata di rapporti interpersonali;
- il rifiuto del regolamento, con le conseguenze che il gesto comporta;
- la fatica di far emergere dall'interno della squadra i «giudizi» sul regolamento stesso, sui problemi umani e strutturali connessi, alla ricerca di alternative possibili e realistiche.
La dimensione tecnica dell'essere animatore: un tecnico-militante
L'animatore è la «coscienza critica» della squadra sportiva, perché la guida a procedere in avanti, elaborando progetti alternativi man mano che emerge la problematicità di quelli in esercizio.
Per svolgere questa funzione l'animatore deve avvalersi di una strategia che faccia scaturire la circolazione delle idee e dei valori all'interno della squadra, senza porre «proposte» dall'esterno, con metodi indottrinanti. In questo servizio egli è però necessariamente «collocato». Ha fatto una sua opzione e a partire da questa opzione inizia il suo processo di animazione.
Egli è e rimane un educatore, anche se modifica strutturalmente la metodologia di educazione, facendosi strumento e stimolo di «dialogo», di rapporti critico-creativi, verso l'educazione liberatrice.
«Le linee che caratterizzano la strategia dell'animatore possono essere così riassunte:
Stimolo ad una più facile interiorizzazione attraverso la razionalizzazione della propria esperienza.
Ogni gruppo vive una propria esperienza, fatta di cose liete e tristi. La realtà esterna vissuta è significativa, per i membri del gruppo, solo quando viene interiorizzata. Ma l'interiorizzazione è possibile a patto che l'esperienza sia analizzata, "razionalizzata", in modo da essere condotta a dimensioni di comprensibilità, a livelli cioè in cui le cause, le scelte operate, le difficoltà incontrate, gli scacchi subiti e le vittorie ottenute, siano chiari, catalogati, semplificati da ogni sovrastruttura. La razionalizzazione (semplificazione e descrizione "fredda" dell'esperienza) è condizione base per l'interiorizzazione.
Stimolo a razionalizzare i bisogni
Quando il gruppo ha preso coscienza di se stesso, è più facilmente pronto a razionalizzare ed a comprendere i bisogni, le tensioni che si agitano all'interno di esso. La risposta a questa necessità di chiarimento e di razionalizzazione la si ha attraverso la comunicazione e perciò l'interazione dei membri al gruppo.
Stimolo alla comunicazione delle idee
La funzione dell'animatore ha qui un suo ruolo proprio e specifico in quanto deve continuamente stimolare la comunicazione secondo un modello democratico e controllare che essa non sia manipolata né dall'interno, né dall'esterno.
L'animatore deve poi controllare che essa non si centralizzi né intorno ad alcuni membri del gruppo né intorno alla sua persona, perché la centralizzazione della comunicazione crea immediatamente un centro di potere e di prestigio che distrugge il clima di libertà e di rispetto. L'animatore non deve accentrare su di sé le risposte agli stimoli che lancia ma fare in modo che esse si producano in interazione tra i membri del gruppo. Questo implica anche un continuo controllo della leadership del gruppo affinché non centralizzi e ponga perciò in modo autoritario la comunicazione tra i membri del gruppo.
Stimolo alla creatività
Tutto quanto è stato detto finora presuppone la capacità di esprimersi delle persone con cui l'animatore opera.
Questo può avvenire nella misura in cui si stimolano le persone alla creatività, che è l'antidoto più efficace contro le manipolazioni e gli influssi traumatizzanti della tecnologia. Creare una attitudine alla creatività significa svolgere un lavoro profondo che deve far comprendere come ad ogni gesto umano corrisponde un valore profondo nella misura in cui questo ha un significato genuino ed è intessuto d'amore.
La creatività non è niente altro che il riscoprire giorno dopo giorno i propri gesti in rapporto a sé ed agli altri, il rinnovare in ogni momento la sorpresa o lo sgomento, la fiducia o la paura di fronte al procedere della vita e di esprimersi con un gesto cosciente di amore che rifiuta il conformismo e il procedere vegetativo».
(R. Tonelli, La vita dei gruppi ecclesiali, LDC 1974, pag. 126-128).
Quale uomo?
La terza opzione è il progetto d'uomo verso cui tendere: il tipo di uomo da far emergere in ogni disciplina, pur nella specifica autonoma consistenza.
In sintesi: ci pare di dover superare una concezione sia individualistica che collettivistica dell'uomo, per definire l'uomo attraverso il primato radicale che si riconosce alla comunione intersoggettiva, al di là di ogni tendenza solo conoscitiva o autosufficiente.
La verità dell'uomo non è teoretica od oggettiva, ma è l'amore vissuto, l'etica responsabilmente assunta nei confronti dell'altro. L'irruzione dell'altro nella personale esistenza è il fenomeno originario dell'uomo e della sua esistenza.
È anche questo che conferisce al mondo il suo significato umano. Il riconoscimento dell'altro si deve fare attraverso il mondo materiale. Le cose conosciute dalla scienza diventano così materiale di un dono che si riconosce nell'altro.
Quale sport?
Le tre opzioni precedenti sono riconducibili a questa che ne è la sintesi e l'aspetto portante: quale sport? Verso quale tipo di sport l'animatore è chiamato a indirizzare il suo servizio di educazione liberatrice?
La letteratura sull'argomento è ormai vasta.
Per evitare l'equivoco di parole, consumate dall'abuso, preferiamo ritagliare l'immagine di sport in cui ci riconosciamo, attraverso le percezioni negative.
Il rifiuto di quanto ci pare alienante, dice senza equivoci il progetto verso cui tendiamo.
«È urgente cambiare le risposte, gli obiettivi assegnati oggi allo sport. Li conosciamo tutti quali sono, e ne vediamo le conseguenze: idolatria dei campioni, alienazione dei tifosi, sovvenzioni di denaro pubblico alle squadre-spettacolo e alle società-vivai di campioni. La pulsione agonistica canalizzata verso obiettivi di natura tecnica ha reso lo sport occasione di scontro tra atleti e di polemiche con gli arbitri, di divismo per i vincitori e di frustrazione per i vinti, privilegio dei forti ed emarginazione dei deboli, ricerca angosciosa di successo e di denaro: uno sport in cui il risultato sta alla gara come il voto all'esame. Il nuovo progetto di attività sportiva nella quale l'uomo diventi realmente ciò che è per natura, cioè soggetto e fine di ogni azione, esige non la eliminazione (del resto impossibile, come abbiamo visto) dell'agonismo, ma un radicale cambiamento degli attuali obiettivi e dei modi concreti della sua attuazione.
La scelta dei modi è conseguente alla scelta degli obiettivi: questi dovranno essere cercati non più, come ora, al di fuori, ma all'interno del soggetto. La vittoria è un traguardo che si situa all'esterno dell'atleta, un elemento che non aggiunge niente a ciò che egli è o ha. Essa è solo l'occasione e lo stimolo per sprigionare il massimo delle capacità psicofisiche latenti, non è lo scopo dello sport. Questo si deve cercare nell'area psichica, fisica e morale dell'atleta, per arricchirla dei valori liberati dall'attività agonistica.
Una esemplificazione di questi scopi potrebbe elencare l'impegno, la responsabilità verso avversari e compagni di gara, la creatività, la gioia, l'amicizia, l'autocontrollo, la collaborazione, il dialogo: qualità umane spesso nascoste nell'individuo, che vengono risvegliate e attivate dal fatto sportivo. In questa visione la vittoria più bella deve ritenersi quella riportata su di sé, sull'egoismo che tende a strumentalizzare gli altri e ad affermare sempre e comunque il proprio io.
Nella definizione rigorosamente scientifica dello sport entrano il gioco, il movimento, l'agonismo, non la vittoria. Diversamente, chi perde non farebbe sport! L'elemento «successo tecnico» è estraneo alla natura dello sport, e se oggi sembra così connaturato con essa, tanto che molti non riescono a capire come ci si possa divertire... perdendo una gara, ciò dipende dalla mentalità commerciale e utilitaristica che si è affermata nella nostra cultura secondo cui il successo è uno dei valori sommi della vita.
Per attuare il nuovo progetto è necessario convincersi che il fine dell'agonismo sportivo si esaurisce nel misurarsi con l'avversario (sia esso una persona o un'asticella, una parete rocciosa o una distanza) per "educare", trarre fuori da sé il massimo di conoscenze, di abilità e di prestazioni psico-fisiche di cui si è capaci, al fine di integrarle nella struttura della persona. La conoscenza delle proprie qualità operative, tendenziali e affettive, acquisita nelle competizioni sportive mette il soggetto in grado di collegarle e ordinarle alla "costruzione" della propria personalità. Esse costituiscono risposte al profondo bisogno di crescita e agli interrogativi metafisici che egli si pone sul senso della vita, della realtà e del suo rapporto con essa. Tutto questo discorso si regge se è sorretto da un'adeguata conversione strutturale. Uno sport selettivo, condizionato dal campionismo, mai potrà diventare il luogo di circolazione di valori umani e cristiani. Si tratta innanzi tutto di prendere coscienza che Il sistema sportivo attuale non è l'unico possibile, che le attuali strutture non sono "dati" immutabili, ma progetti storicamente realizzati e quindi trasformabili. Il reale, infatti, non è solo ciò che oggi esiste; è formato anche da tutti i possibili futuri che solo a chi non ha fede e speranza appaiono come impossibili. Il possibile, anzi, fa parte del reale e nasce dall'iniziativa dell'uomo e della sua azione.
Se è anche cristiano, questo uomo sa che la fede non genera rassegnazione alla realtà esistenti, ma impazienza e atteggiamento critico. Come i profeti di Israele, egli si impegna a combattere l'idolatria delle cose e delle istituzioni. Spera nella risurrezione che non è solamente un "fatto" consegnato al passato, ma un "atto" creatore che avviene tutti i giorni.
Credere per il cristiano significa allora non solo inserire la risurrezione nella prospettiva della storia individuale e sociale, ma porre la storia nella prospettiva della risurrezione.
Questa, nello sport, è affidata agli animatori culturali, cioè a coloro che sono capaci di credere in una vita diversa, anche nello sport.
Per dare tuttavia credibilità e concretezza a questo discorso di rinnovamento dei contenuti del fatto sportivo è necessario un taglio con il passato, con le vecchie strutture fatte su misura di uno sport fine a se stesso».
(V. Peri, Uno sport senza agonismo o uno sport senza campionati, in Note di Pastorale Giovanile, 1974/1).