Guido Gatti
(NPG 1975-7/8-73)
LA FEDE, ESPERIENZA Dl ASCOLTO
Uno dei problemi che ha tormentato per secoli la teologia è stato quello della salvezza di chi pare escluso da quella fede soprannaturale che, secondo il dato rivelato ed esplicitamente insegnato dal Magistero, è necessaria «necessitate medii» alla salvezza. Di fronte alla costatazione del grandissimo numero di persone che a questa fede non arrivano (almeno apparentemente), senza alcuna colpa, soltanto perché nessuno annuncia loro in modo adeguato Cristo, si è pensato a possibili interventi straordinari di Dio «in articulo mortis» che salvassero, con un annuncio adeguato, la serietà della volontà salvifica universale di Dio insieme con l'esigenza inderogabile della fede per la salvezza Avrebbe potuto trattarsi dell'invio di un angelo rivelatore o meglio ancora di una rivelazione diretta di Dio, attraverso una qualche forma di ispirazione interiore prodigiosa, quindi soprannaturale nella sua sostanza ed immediatamente riconoscibile come tale. Oggi questa ci può sembrare fanta-teologia: non solo queste ingegnose soluzioni ma la stessa problematica sottostante sono considerate desuete. Il problema è posto in termini diversi e in una prospettiva nuova.
Nessuno pensa più alla eventualità di un accesso alla fede attraverso un incontro diretto con Dio, almeno come via normale o quasi, di giungere a Lui.
Intendiamoci, la fede resta quello che è sempre stata, cioè un'esperienza umana di Dio, e un'esperienza nella quale Dio ha l'iniziativa assoluta. Non è l'uomo a «mettere le mani su Dio», a raggiungerlo attraverso forme di ricerca intellettuale o morale, attraverso una specie di «yoga dello spirito» Nella fede l'uomo si sperimenta raggiunto da Dio, imprevedibilmente e sorprendentemente; al di là di ogni suo diritto, di ogni suo sforzo, al di là di ogni pretesa e di ogni espediente umano; in forza di una decisione liberissima e gratuita di Dio che lo previene nel modo più totale.
La Bibbia presenta questa caratteristica essenziale della fede (sulla quale insiste moltissimo, dal Pentateuco a S. Paolo) attraverso le categorie espressive della parola e dell'ascolto.
Dio chiama, l'uomo risponde: «Parla Signore che il tuo servo ti ascolta». In Cristo è la Parola terna del Padre che si fa carne, si rivolge all'uomo, diventa parola umana, discorso vivente nella persona dell'uomo Gesù. Davanti a questa parola-persona l'adesione della fede è un ascolto che investe tutta la vita. Non ci si deve chiudere nella dimensione intellettualistica del linguaggio. La parola non è soltanto il veicolo delle «idee chiare e distinte» di cartesiana memoria. La parola insegna ma chiama anche all'azione, comunica all'altro le ricchezze più profonde della persona che parla, tende a fare dei due una sola vita vibrante all'unisono gli stessi sentimenti e le stesse esperienze.
La parola non cerca solo discepoli ma anche collaboratori ed amici. L'ascolto diventa allora non soltanto apprendimento, ma anche ubbidienza (l'auditio si fa «ob-auditio») e comunione di vita.
L'esperienza di Dio nella fede è quindi un ascolto che è incontro persona-a-persona, insomma una esperienza umana integrale, nella quale l'elemento conoscitivo, intellettuale, pure necessario, è soltanto strumentale e secondario.
La fede infatti è un vedere nella penombra, ma andando verso la chiarezza di una visione totale, è un camminare considerandosi sempre in strada, non-ancora-arrivati. E la meta di tutto è una comunione piena, di vita e di amore, che sarà la realizzazione di tutte le nostre istanze (la salvezza!) e di tutti i nostri desideri di felicità.
L'elemento unitivo è quindi preminente e finale nella fede rispetto a quello cognitivo.
La fede è quindi veramente esperienza di Dio (sia pure solo oscura e iniziale) e non solo una informazione su di Lui.
DIO SI DÀ ALL'UOMO ATTRAVERSO LA MEDIAZIONE DELLA STORIA
E tuttavia la fede resta un'esperienza umana di Dio, quindi non diretta, ma mediata e condizionata (e quindi proprio per questo iniziale ed oscura).
L'uomo non esiste che dentro una storia, in dialogo con altri uomini, plasmato da una cultura particolare. Tutto il suo patrimonio di ricchezze spirituali non è che la rielaborazione personale di ciò che la storia gli fornisce. Egli, come uomo, è essenzialmente condizionato da una situazione storica e culturale contingente. Non è pensabile come uomo concreto, fuori di essa e senza di essa.
Dio quindi non lo può raggiungere che dove egli si trova e in ciò che egli è, cioè attraverso la storia e dentro di essa; che è come dire, al di dentro del suo dialogo con gli altri uomini, attraverso la mediazione di questi altri uomini e della loro interazione reciproca di cui è fatta la storia. Il progetto di Dio per la salvezza dell'uomo si cala quindi nella storia, la fa sua, ne fa una storia di salvezza e solo attraverso questa storia raggiunge e salva i singoli uomini.
La storia umana (cioè gli uomini nel loro farsi in dialogo ed interazione reciproca nel mondo) è l'unico tramite dell'incontro con Dio, per tutti gli uomini. Naturalmente non lo è in forza dei suoi immanenti dinamismi umani, ma in quanto raggiunta da Dio, perché tutta quanta segnata da un evento, tutta ricapitolata in una persona che è per eccellenza il dono di Dio agli uomini, il sacramento del suo amore, l'unico mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo.
Questa persona e questo evento, limitati a un punto contingente della storia umana (come ogni altra persona ed evento umano), diventano presenti a tutti i tempi e a tutti i popoli della terra in modi misteriosi che solo Dio conosce, ma soprattutto e in modo privilegiato attraverso il ministero dei suoi testimoni, la comunità di fede e i singoli credenti, continuatori del suo mistero di salvezza e quindi, con Lui e in Lui, protagonisti della storia in quanto storia di salvezza.
LA DIMENSIONE MISSIONARIA DELLA FEDE
A dire la verità, ogni uomo, credente o meno, è per gli altri uomini che incontra nella vita, in una storia tutta assunta dal Verbo incarnato e quindi tutta storia di salvezza, un sacramento (magari oscuro e inconsapevole) dell'incontro con Dio.
Lo è anche senza volerlo e senza saperlo: la sola sua presenza all'altro è per l'altro appello a una scelta di fondo per l'amore o per l'egoismo, per la serietà o per il disimpegno morale, che è già fede (magari implicita) che salva o incredulità che perde. Ogni incontro umano, e quindi ogni momento della vita associata è per tutti coloro che vi partecipano appello a una sempre rinnovata presa di posizione anche solo implicita nei confronti di Dio.
Ma per il credente, questo carattere sacramentale della propria vita nei confronti dei fratelli (che si salda naturalmente con la sacramentalità del fratello per me), questa possibilità di essere mediazione della Parola e del Mistero che salva, testimonianza della Verità che illumina, è qualcosa di consapevole e di intenzionale, è una vocazione e una responsabilità: è ciò che propriamente si chiama la missione profetica di ogni battezzato.
Credere è anche rendersi conto della ineliminabile dimensione missionaria della propria vita; una dimensione che può essere anche vissuta negativamente: la vita può essere una testimonianza credibile che illumina e convince ma anche una contro-testimonianza che allontana e rende più difficile la fede dei fratelli. Anche solo vivendo, sono eco (comprensibile od oscura) e riflesso (illuminante o distorcente) della Parola di Dio che provoca alla fede. E così anche solo vivendo, condiziono la fede dei miei fratelli. La fede e la salvezza di ogni uomo dipende anche dalla testimonianza di ogni altro uomo che egli incontra, in una storia di solidarietà reciproca e di condizionamenti vicendevoli, in cui ognuno è affidato a ogni altro.
SOLO LA VITA RENDE CREDIBILE L'ANNUNCIO
Per comprendere meglio il valore di queste affermazioni, che potrebbero anche sembrare un luogo comune enfatico e vuoto, proviamo a porci una obiezione.
La comunicazione umana non è mai comunicazione diretta da mente a mente: passa attraverso le oggettivazioni dello spirito, prima di tutte la parola; la parola è qualcosa di mio, ma una volta pronunciata diventa indipendente e autonoma da me, sviluppa una sua efficacia oggettiva. Questo vale per la parola parlata, ripetuta di bocca in bocca in una specie di lentissima staffetta (come fu, ad esempio, per il kerygma della chiesa primitiva). Ma quando la parola viene scritta, essa è doppiamente oggettivata, molto più autonoma e indipendente nella sua efficacia dalla persona che l'ha detta. La parola scritta surclassa in efficacia e rapidità di comunicazione la parola parlata. Lo stesso vale per la comunicazione attraverso le immagini; pensiamo all'efficacia comunicativa della TV e del film. Potremmo allora chiederci: perché la parola di Dio non può oggettivarsi in libri ed immagini e diventare indipendente dalle persone che sono chiamate e ripeterla, rendendo così superflua la loro testimonianza con la vita? Perché il vangelo non può essere indipendente dai suoi annunciatori almeno quanto la Divina Commedia è ormai indipendente da Dante o dai dantisti? Perché non possono bastare i libri a diffondere la Parola e provocare la fede? Perché i libri non possono essere una mediazione della Parola equivalente agli uomini, e magari più precisa e trasparente di loro?
I motivi sono soprattutto due: uno più esterno, di ordine apologetico, cioè riguardante la credibilità del messaggio, e l'altro interno alla sua stessa natura di messaggio di salvezza.
Quanto al primo: il messaggio non gode dell'evidenza evincente di un teorema di matematica; non convince da solo. È la certezza che viene da Dio che permette di affidarsi ad esso nella fede, di trovarci davvero Dio. Questa certezza è in un certo senso una premessa alla fede. La parola di Dio ha bisogno di credenziali per essere creduta divina. In passato si è fatto molto affidamento a credenziali di natura intellettualistica, comunicabili attraverso i libri, oggetto di un insegnamento neutrale, convincente perché alla portata della ragione umana: erano i c.d. «prolegomena fidei» o presupposti razionali della fede, cioè la dimostrazione (metafisica) dell'esistenza di Dio e le prove (storiche) del fatto della Rivelazione. A dire la verità non credo che siano mai state molte le persone che si siano decise a credere per l'evidenza astratta di questi presupposti razionali della fede.
Troppi elementi soggettivi, abitudini mentali e morali (acquisite educazionalmente o liberamente) entrano in gioco e influiscono sulla pura ragione ragionante, quando ricerca e decide problemi così significativi per la vita. Sono problemi davanti ai quali l'uomo non è mai nudo e non è mai neutrale.
A questo punto è evidente che il condizionamento di una persona o di una comunità che testimonia la sua fede vivendola in maniera convincente è sempre decisivo non solo sul sì della fede in senso stretto, ma anche sulla presa di posizione nei confronti di queste premesse della fede, che nella psicologia concreta dell'individuo fanno un tutt'uno con la fede in senso stretto. Oggi soprattutto.
La sfiducia dell'uomo contemporaneo nei confronti della ragione metafisica (una sfiducia che può benissimo essere ingiustificata e incoerente ma non è per questo meno reale) introduce elementi di opzionalità nel giudizio della ragione sull'esistenza di Dio, che fa da premessa al sì della fede.
Oggi l'uomo privilegia il criterio prassologico della verità come metodo di prova e di verifica. L'ipotesi atomica si dimostra vera nella bomba atomica o nelle tracce lasciate dagli atomi nella camera di Wilson. Nel mondo secolare non esiste altra camera di Wilson per rivelare le tracce di Dio che la testimonianza vivente dei credenti.
Dio è riconosciuto o negato non per l'efficacia razionale delle prove metafisiche della sua esistenza, ma per le prove concrete che egli offre del suo essere e del suo agire nella vita dei credenti; essi fondano oggi la credibilità di Dio nel nostro mondo.
Quanto al fatto della rivelazione, esso non può essere considerato storico secondo i criteri della storia profana: è un fatto di fronte al quale nessuno può essere neutrale. I documenti che lo provano non giungono a noi che nel seno di un contesto di fede vissuta, portati da una tradizione che, sulla verità del messaggio che reca, ci gioca la vita.
Questo non toglie oggettività alla testimonianza dei nostri «Padri nella fede», che come in una gigantesca staffetta attraverso i secoli hanno portato fino a noi la notizia e i documenti della rivelazione, ma esclude ogni previa neutralità nei confronti della credibilità della loro testimonianza. Testimone è colui che afferma una cosa decisiva e che non ha altro per provarla che la credibilità della sua parola; una credibilità che affonda necessariamente le sue radici nella vita, che non si può oggettivare in nessun libro. In fondo è la fede stessa di chi ci precede nella fede e ci inizia alla fede che fonda il nostro credere.
Ogni altra apologetica ha senso solo dentro l'apologetica della vita. I veri motivi di credibilità non possono stare nei libri, così come non possono essere intaccati dai libri; sono un fatto globale di vita, la garanzia di un'esperienza che si comunica solo per contagio.
SOLO LA VITA È VERAMENTE ANNUNCIO
Ma c'è un motivo ancora più intrinseco alla fede che ne esige la trasmissione per osmosi vitale piuttosto che per propaganda libresca; un motivo che non è legato all'apologetica che fonda dal di fuori la credibilità della fede, ma alla sostanza stessa della fede, al suo contenuto di salvezza. Esso non può essere di natura sua un contenuto solo verbale, pur ammettendo la ricchezza espressiva e operativa della parola sia parlata che scritta.
Anzi proprio il fatto che la fede è ascolto di una parola che è anche invito alla conversione, all'azione e alla collaborazione, domanda che essa non sia solo un fatto di contagio intellettuale, ottenibile attraverso i libri o forme di insegnamento neutrale.
La fede è inserimento in un progetto di salvezza che è già in atto. Dio mi chiama a collaborare perché ha già dato inizio per primo a una azione di salvezza. Egli mi offre, e non solo a parole, l'accesso a una comunione di vita con sé e con i fratelli. Nella salvezza nessuno comincia da zero. La salvezza è storia, cioè inserimento e continuità; è il riscatto della storia e la trasfigurazione della essenziale storicità dell'uomo.
Essa affonda quindi le radici in un passato in cui già esiste, si attua e si sviluppa in un presente che raccoglie tutta l'eredità del passato e, innovandola creativamente, la protende verso un futuro che ne è il senso pieno e il compimento. Storia è questa continuità vitale di tutti gli uomini e di tutti i tempi.
Non sono chiamato a fare ex novo la mia salvezza in un vuoto assoluto di storia, nel «privatissimum» di una vita spirituale indipendente e disincarnata, ma a inserirmi in una salvezza che Dio ha già acceso nella storia (insieme con la storia), quindi con altri accanto a me, in una comunità che mi coinvolge e mi trascina e che io coinvolgo e trascino (oppure freno).
Non solo ho bisogno di vedere all'opera accanto a me la salvezza, per trovarla credibile, ma anche per inserirmi in essa, per trovare un contatto reale e non solo mentale con essa; un contatto che è sempre anche adesione fondamentale a un modello globale di vita, visto all'opera in altri e trovato credibile in forza della sua efficacia concreta e della sintonia che fa della esperienza di chi mi inizia alla fede una mia esperienza. Allora è chiaro che la vocazione missionaria inerente a ogni esperienza di fede è vocazione a vivere una fede testimoniale, cioè credibile e coinvolgente. Credere è testimoniare Cristo, cioè essere missionari, secondo modalità diversissime secondo il tempo, il luogo e i destinatari, ma sempre con il coinvolgimento della vita in tutte le sue dimensioni quotidiane, cioè in tutte le dimensioni nelle quali la fede si incarna per essere autentica. Il testimone parla con la vita, non perché vuole parlare, ma proprio prima ancora per il fatto stesso che vive.
UNA MISSIONARIETÀ Dl INCARNAZIONE
Ma la credibilità del testimone ha bisogno anche di una particolare sintonia col destinatario della sua testimonianza, che domanda al missionario (cioè al credente) la più ampia possibile solidarietà e condivisione di vita con coloro cui si sente inviato: è legge di incarnazione. Non ci si può capire se non si usa lo stesso linguaggio, dotato degli stessi contenuti semantici. E questi contenuti sono legati alle esperienze di vita. Non si possiede un linguaggio comune, che intende con le stesse parole le stesse cose e quindi capace di fare davvero da ponte, se non si fanno prima le stesse esperienze.
L'osmosi ha bisogno della compenetranza, il contagio del contatto vitale. È in forza di questa incarnazione e di questa compenetrazione che il missionario non solo dà e insegna ma anche riceve e impara, così che nello scambio reciproco l'esperienza di fede non si trasmette infruttuosa come un liquido da un recipiente all'altro ma cresce e si arricchisce nel passaggio, attraverso il contributo reciproco, in una fecondità sempre aperta.