Lino Badino
(NPG 1975-7/8-63)
«Ricordatevi che laggiù avrete molto più da imparare che da insegnare. Non andate con progetti vostri. Non mettetevi subito a "fare". Passate un buon periodo di tempo a osservare, per capire quella gente, per inserirvi». Queste erano le frasi che risuonavano come un ritornello durante i due mesi di Corso CEIAL (Centro Ecclesiale Italiano America Latina), cui partecipai sulla fine del 1968.
Trovandomi, nei primi mesi del 1969, a Rio de Janeiro, udii un giorno un padre olandese che, parlando a delle catechiste, diceva: «Evangelizzare è soprattutto scoprire l'azione di Dio nel mondo».
Ero da pochi mesi nella parrocchia di Recife, quando una sera un prete italiano, dopo avere partecipato alla riunione di un gruppo di evangelizzazione in una casa, mi disse: «Sai, Lino, io penso che qui il compito del prete sia soprattutto quello di non intralciare l'opera dello Spirito Santo».
Ho voluto citare questi tre «momenti», perché restano, nel ricordo, come molto importanti nello sviluppo del mio lavoro pastorale e specialmente del mio comportamento nei riguardi della mia comunità. Evidentemente, al momento in cui sentivo queste parole, non ero in grado di valutarne tutto il peso. Ma, con l'andare del tempo, l'esperienza mi ha confermato la profonda verità di quelle affermazioni: soprattutto mi ha messo nelle migliori condizioni personali per capire che non ero andato laggiù solo a insegnare o a portare qualcosa. Mettendomi in un atteggiamento fondamentale di «ascolto» avrei potuto «scoprire» le ricchezze di quelle comunità. Oggi, specialmente dopo l'ultimo Sinodo dei Vescovi, è diventato più naturale sentire la «missione» come rapporto tra Chiese sorelle, come scambio reciproco di ricchezze, come corresponsabilità assunta, alla pari, dai «missionari» e dalle comunità locali. Ma allora, forse, il discorso era ancora appena agli inizi.
Cinque anni nei «Mocambos» di Recife
Vorrei parlare della esperienza che ho vissuto, per cinque anni, a Recife, nel Nordest del Brasile, per mostrare come queste convinzioni siano venute radicandosi in me sino a costituire un elemento essenziale della mia «presenza sacerdotale» in quella comunità.
Sono arrivato a Recife nell'agosto del 1969. Dom Helder Câmara, il mio Vescovo, mi mandò come aiuto ad un giovane prete maltese, Padre Joao, che aveva la responsabilità di due parrocchie della periferia povera della città, la zona dei «mocambos», con un totale di circa 130 mila abitanti. Durante il primo anno non ho voluto, di proposito, assumere una precisa responsabilità di parroco. Ciò mi permise maggiore disponibilità, per prendere molti contatti con la gente, soprattutto con i gruppi di evangelizzazione («Encontros de irmâos» = incontri di fratelli) che stavano sorgendo, dopo l'appello di Dom Helder, del marzo 1969.
E qui feci le prime «scoperte». Andavo alle riunioni dei gruppi come un amico, un fratello, non come un responsabile. Mi accoglievano con fraterna cordialità, e la riunione si svolgeva con semplicità, sotto la guida dell'animatore. Anch'io, a volte, dicevo la mia parola, ma «alla pari», come uno di loro. Mi accorsi che, a poco a poco, quelle riunioni stavano diventando delle autentiche «liturgie della Parola». Un clima di preghiera e di fede (canti, preghiere dei fedeli, preghiere spontanee); una profonda attenzione alla lettura della Parola di Dio; e poi gli interventi, parole semplici, disadorne (la maggioranza era costituita di analfabeti e di razza nera o «morena»), ma che centravano sempre un fatto della loro vita collegato alla Parola ascoltata. Quante volte li ho sentiti ripetere: «Cerchiamo il Vangelo nella vita e la vita nel Vangelo»! Mi ha sempre stupito il fatto che in tanti anni di partecipazione a quegli incontri, non ho mai sentito una discussione: si trattava di una autentica «comunicazione» personale di vita, nella fede. Questo mi spiegava il fascino di quelle riunioni, anche per coloro che non erano mai stati in Chiesa o che da anni avevano lasciato ogni pratica religiosa, ed erano circa una metà dei partecipanti.
Nel frattempo (dicembre nel 1970) ero diventato parroco di una delle due parrocchie, quella dell'Alto do Pascoal (circa 50 mila abitanti).
Comunità ecclesiali di base
Ben presto i gruppi, che andarono aumentando fino ad essere una quindicina, diventarono anche animatori delle messe festive (tre) che si celebravano nella piccola chiesa parrocchiale. Praticamente tutta la prima parte della messa, la liturgia della Parola, si trasformò in uno scambio di esperienze di vita e di fede: a poco a poco, le parole che dicevo, al Vangelo, diventarono sempre più brevi, e si limitarono ad una ri-presentazione delle letture. Posso dire che la celebrazione della messa fu sempre, per me, un momento forte di arricchimento spirituale: sentivo veramente di ricevere tanto da quella gente, di cui conoscevo le condizioni di vita, la miseria, le sofferenze, i sacrifici. Udirli parlare di fede, di carità, di gioia, di pazienza, di speranza, era per me occasione per sentirmi spiritualmente tanto piccolo nei loro confronti. Per questo dicevo loro molto spesso, e con piena convinzione, che nel cammino della fede siamo veramente fratelli che ci aiutiamo l'un l'altro.
A poco a poco scoprivo che la maggior parte del lavoro «pastorale» che credevo di dover fare come impegno del mio sacerdozio, era invece una conseguenza logica del mio essere cristiano: perché anche loro si sentivano direttamente e seriamente impegnati nella evangelizzazione. Compresi meglio, allora, il valore del mio battesimo, e andava scomparendo in me l'idea aulica del prete-capo-che-dirige-tutto. Loro stessi un giorno dissero di fronte a parecchi preti riuniti per un mese di ritiro: «Noi non vogliamo più il prete "dono da Palavra" (padrone della Parola), ma il fratello che cammina con noi, nella fede». Bisogna avere vissuto a lungo con quella gente per comprendere che in quelle parole non c'era nessuna idea di disprezzo o di sottovalutazione del compito del prete nella comunità. Posso dire di avere scoperto, con loro, la missione del prete coordinatore, animatore, che incoraggia, dà fiducia: del prete cui sono affidati i compiti specificamente ministeriali (specialmente l'Eucaristia). Come è arrivata, questa gente, a queste intuizioni? Non lo so, certe cose si possono spiegare soltanto con l'azione dello Spirito Santo.
Non hanno mai letto i testi conciliari. Perché e come potevano dire nella preghiera dei fedeli: «Ti ringrazio, Signore, perché hai mandato alla tua Chiesa Papa Giovanni, che ha dato ai cristiani la parola e la responsabilità dell'annuncio del Vangelo»?
Fede semplice di una comunità
Come tutti coloro che hanno avuto il dono di fare questa straordinaria esperienza, anch'io ho scoperto che il contenuto della loro fede è ridotto a poche idee essenziali. «Le stesse, mi diceva un prete brasiliano, che ritroviamo nelle comunità primitive»: Dio è nostro Padre; Gesù, il Salvatore, è risorto e vive in mezzo a noi; lo Spirito Santo ci fa figli di Dio, ci illumina perché possiamo scoprire il Messaggio e ci dà la forza per annunciarlo ai fratelli; siamo una Chiesa viva; siamo tutti fratelli e come tali dobbiamo vivere; l'Eucaristia è la manifestazione più alta di una comunità che vive nella fede e nella carità. Anche il Card. Léger, dopo un anno di vita in un lebbrosario d'Africa, diceva di avere scoperto che il messaggio cristiano è estremamente semplice, adatto per tutti gli uomini, e che troppe volte viene complicato dalla elaborazione teologica, che lo rende incomprensibile, almeno ai più semplici.
C'è una differenza profonda tra la nostra cultura religiosa e il contenuto della fede della mia gente: loro hanno poche idee, ma essenziali, e soprattutto idee che vengono assimilate e vissute fino alle ultime conseguenze. Il piccolo Ferreira, undici anni, che dopo avere ascoltato la lettura del vangelo della Passione, racconta ai compagni di una lite finita a botte, dirà: «A me pare che quando picchio quel mio compagno è Gesù che soffre». Ricordo anche Antonio (12 anni) che sapendo di un suo compagno rimasto a casa perché a scuola non c'era più posto, si dà da fare e avvicina tante maestre e arriva fino alla direttrice che gli domanda: «Ma insomma, questo bambino è mica tuo fratello?». E Antonio risponde: «Sì, è mio fratello, perché in Gesù siamo tutti fratelli, e io non posso essere contento di venire a scuola finché saprò che lui è rimasto in mezzo alla strada!». Ecco ancora un esempio di una «idea» vissuta fino alle ultime conseguenze: una sera, mi trovavo in un gruppo. Una signora, dopo avere ascoltato il Vangelo, diceva la sua difficoltà a perdonare una sua vicina che le aveva fatto un grave torto. Il «monitore» le disse: «Senta, signora: lei è una Chiesa viva, e lo sa, ed ha la gioia di saperlo. Anche quella signora è una Chiesa viva, ma non lo sa. Se lei avrà il coraggio e la forza di perdonare, anche questa signora scoprirà di essere una Chiesa viva e ne sentirà la gioia». Quella donna rimase alcuni istanti in silenzio, poi disse: «Vou perdoar!» (perdonerò).
Si parla molto della Chiesa come «luogo teologico». Mi pare di capire, per la mia esperienza, che la teologia nasce dalla Chiesa e che ai teologi spetta il compito di coglierla e formularla. E così, quante volte ho raccontato l'intervento di Mario, uno dei nostri «animatori» di comunità, che nel giorno della festa della SS. Trinità disse in chiesa: «Per me questo mistero è un popolo, che è riunito dall'Amore che è lo Spirito Santo, e che cammina col Cristo verso il Padre»! Di fronte a questi fatti, e ne potrei raccontare a decine, come si capisce bene l'esultanza di Gesù, al vedere che il Padre rivela ai piccoli ciò che nasconde ai grandi e ai sapienti!
Ho già raccontato [1] come siamo arrivati alla celebrazione dell'Eucaristia nelle case dove si riunivano i gruppi, soltanto dopo due anni, per esplicito loro desiderio: «Non siamo ancora pronti, mi avevano detto, l'Eucaristia la celebreremo quando il nostro gruppo vivrà più profondamente la fede, nell'impegno concreto per i fratelli».
Vangelo e/o promozione umana?
Le varie comunità andavano a poco a poco assumendo vari compiti pastorali: l'evangelizzazione dei bambini (oltre i 9 anni) in preparazione alla prima Eucaristia, con riunioni di piccoli gruppi fatte nelle case degli stessi bambini, la preparazione dei genitori dei battezzandi, la preparazione dei fidanzati, la comunione agli ammalati. È interessante notare come non ho mai udito dire: «Stiamo aiutando padre Lino»; essi si sentivano corresponsabili in proprio della evangelizzazione della comunità. Ma la vita delle comunità non si riduceva soltanto a riunioni di preghiera e a compiti pastorali. Ogni gruppo si sentiva responsabile della coscientizzazione di altre persone sui problemi del quartiere (igiene, strade, trasporti, luce, ecc.).
Non bisogna però generalizzare questo fatto e pensare che in poco tempo tutti i membri della comunità siano arrivati allo stesso grado di coscientizzazione e di impegno. Dopo anni, anzi secoli, in cui il Vangelo è stato presentato quasi sempre in funzione dei colonizzatori («oppio dei popoli» ha avuto il coraggio di dire Dom Helder Câmara in un suo intervento all'ultimo Sinodo dei Vescovi), non è facile far comprendere che Dio non è d'accordo con la situazione di oppressione e di ingiustizia in cui si dibattono i poveri del Terzo Mondo (e il Nordest del Brasile ne fa parte). È il primo passo, importantissimo, al quale arrivano i cristiani quando si accostano alla Parola di Dio. «Lo Spirito del Signore mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione,... per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18) ha detto Gesù, ripetendo le parole di Isaia: un Vangelo che libera l'uomo dal peccato, ma da tutto il peccato, con tutte le sue conseguenze: odii, ingiustizie, oppressione, sfruttamento, miseria, fame... E l'uomo è chiamato a cooperare per attuare nel mondo il piano di Dio che è mistero di salvezza: «Andate nel mondo, predicate la Bella Notizia» cioè l'annuncio della salvezza, della liberazione. Dicevo che è il passo più importante, ma anche il più difficile: passare da uno stato di fatalismo, di passiva accettazione della situazione («Deus quer», Dio lo vuole è una espressione frequente tra il popolo) ad una consapevolezza della propria dignità di uomini e di Figli di Dio, e quindi ad una decisione di lavorare, di darsi da fare perché la situazione diventi meno ingiusta, non è cosa facile. Per questo, chi segue una comunità deve conoscere i propri limiti, ma anche i limiti degli altri. È una fatica grande, questa, specialmente per chi, come noi uomini della civiltà dell'efficienza, formuliamo facilmente piani e li vogliamo attuare al più presto, mettendo in atto tutto il peso della nostra preparazione culturale, le nostre capacità tecniche e, magari, la potenza dei nostri mezzi economici. Occorre rispettare i tempi di crescita, con infinita pazienza, perché solo a distanza di anni si possono intravvedere dei passi, a volte molto piccoli, che ci danno la prova che la strada è giusta.
Ecco un fatto: Odilon, un capo comunità, ciabattino, semianalfabeta, ha bisogno di una visita del chirurgo. Essendo pensionato dell'INPS, per invalidità, ha diritto alla visita gratuita Parte da casa, una mattina alle 4, per potere avere, alle 7, la scheda numero 1. Il chirurgo sta operando; quando finalmente scende, sono le 11 e mezza. Ma, con sorpresa di tutti, dice: «Mi spiace, ma oggi sono molto stanco e non posso visitare nessuno; tornate dopodomani». Tutti accettano e si allontanano, come fanno di solito i poveri di fronte a chi è più forte. Ma Odilon non si dà per vinto. Si avvicina al dottore e gli dice: «Dottore, sono partito da casa alle 4 e sono ancora digiuno. Non ne posso più. Se mi tocca, vado a terra. La prego, mi visiti». Il chirurgo ripete che è stanco e che non lo farà, e aggiunge: «Non sei mica arrabbiato con me?». «No, dottore, risponde Odilon, io non sono arrabbiato con lei, perché purtroppo il potere sta nelle sue mani. Se il potere fosse nelle mie mani, lei mi visiterebbe, ma siccome sta nelle sue, io tornerò dopodomani. Arrivederla». Piccole cose, certo, non si tratta di un gesto clamoroso, ma è il segno che quest'uomo, riflettendo sulla Parola di Dio, ha preso coscienza della sua dignità e del suo diritto di essere rispettato come uomo. Si intravvede un cammino lungo - uomini con questa formazione non se ne trovano molti - ma si ha la certezza che la Chiesa deve annunciare il Vangelo così, perché sia davvero «un lieto messaggio per i poveri», specialmente per coloro che maggiormente sono schiacciati dall'ingiustizia e dall'oppressione.
Rispettare i tempi di crescita
Ho già detto della semplicità del contenuto di fede che anima queste comunità. Non so se si riesce ad immaginare lo sforzo che il «missionario» deve fare per dimenticare il bagaglio culturale di cui è stato sovraccaricato, soprattutto nel tempo della sua formazione. E quando dico «missionario», non intendo soltanto lo straniero perché, come dice spesso il mio Vescovo Dom Helder, «Io ho dei preti che sono nati a Recife e che sono stranieri per la loro gente». È il tipo di formazione che ci fa di un'altra cultura. In questi anni, ho imparato a scoprire e ad apprezzare 1a «cultura» della mia gente: che grande scoperta è stata per me quando mi sono accorto che molti analfabeti sono tutt'altro che degli ignoranti! Quando li ho sentiti ripetere interi brani della Bibbia, o riassumere gli interventi di una riunione. Quando li ho visti risolvere, con sapienza e prudenza, casi anche difficili, alla luce della Parola di Dio di cui mostravano una conoscenza approfondita dalla costante riflessione! Oggi c'è nel Terzo Mondo (o meglio nella «Terza Chiesa») un accresciuto interesse per le culture popolari, soprattutto per la religiosità popolare. Un giorno un prete «straniero» mi accennava «a quelle stupidaggini dello xangò (sono i riti afro-brasiliani in uso nel Nordest)». Ho accolto quella frase come un pugno in faccia. Io non ho approfondito molto lo studio di questi riti, ma avevo due centri di xangò a pochi passi dalla mia casetta. Quando celebravano i loro riti, sentivo il ritmo dei tamburi e le nenie dei loro canti, che duravano quasi ininterrottamente dalle 19 alle 4 del mattino. Vi ho assistito molte volte: sapevo che gli schiavi importati dall'Africa, per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero o di cacao, erano stati praticamente obbligati a ricevere il battesimo. Perciò avevano camuffati con nomi di santi e della Madonna (Yemangià, la dea del mare) le loro divinità. Una religiosità che resiste a secoli di oppressione e di lontananza dai luoghi di origine, non è degna di ogni rispetto?
Dallo xangò allo spiritismo, alla religiosità popolare: per arrivare ad una espressione che presenti, in tutta la sua purezza, il messaggio evangelico, quanto cammino da compiere! Eppure, bisogna tenere conto di tutti questi elementi, scoprire i valori autentici che si nascondono sotto forme che, a prima vista, ci sembrano totalmente negative. Lo scorso anno (1974) quando ancora mi trovavo a Recife, in parecchie riunioni di consiglio presbiterale e poi di clero, abbiamo preso in esame la pastorale del battesimo. Abbiamo scoperto che in quelle «motivazioni» che per tanto tempo si erano definite «superstiziose» o «di carattere sociologico», c'erano genuini valori teologici. Se si domanda ai genitori: «Perché chiedete il battesimo per vostro figlio?», si possono avere le risposte più disparate, oltre a quelle che vengono da una fede autentica. Vi risponderanno per esempio: «Lo battezzo perché è ammalato, così guarisce»; «perché il bambino non diventi "bicho" (= bestia feroce)»; «così avremo un "compadre" e una "comadre" (i padrini) che lo aiuteranno in caso di necessità». A prima vista, possono sembrare motivazioni poco valide religiosamente. Ma, riflettendo, abbiamo scoperto, per esempio, che il desiderio dei genitori che il bambino cresca sano, corrisponde ad un autentico diritto dell'uomo. Quella «vita abbondante» che Gesù assicura, sarà una pienezza di vita umana e divina insieme; se i genitori chiedono «che il bambino non diventi una bestia», c'è in loro l'espressione implicita del desiderio che il loro figlio cresca pienamente come uomo. Ora, un uomo oppresso, sfruttato, un bambino che viene nutrito soltanto con acqua e zucchero, esposto a tutte le malattie (nella mia parrocchia circa metà dei bambini muoiono prima di un anno di età!), può dirsi «uomo», creato a immagine di Dio? E se i genitori cercano, per mezzo dei padrini, di allargare il clan familiare che forma un cerchio di protezione sociale, ciò non è conforme al messaggio liberatore di Cristo? Non è invece l'affermazione, magari inconscia, che nell'accogliere un nuovo membro, la comunità cristiana deve assumere l'impegno di sostenerlo, proteggerlo, assicurarne la crescita, e non solo nella fede?
Non parlo da teologo, ma espongo situazioni e considerazioni che ho sofferto con i miei fratelli di laggiù. Di fronte a queste situazioni, come sentiamo l'insufficienza dei nostri discorsi, dei nostri manuali, dei nostri schemi pastorali!
Camminare con loro
In questi cinque anni, ho cercato di camminare con loro più che di lavorare per loro. Non ci sono state nuove costruzioni, non ho fondato nessun centro assistenziale, nessuna scuola, raramente ho preso delle iniziative: quasi sempre ho atteso che queste partissero da loro. Ho dato loro fiducia: li ho accettati, o almeno ho cercato di accettarli così come erano, così diversi da me, con altri ritmi, altre maniere di scoprire ed affrontare i problemi. È stata questa, forse, la «fatica» e la sofferenza più grande. Molte volte sentivo dentro di me qualcosa che si spezzava, che moriva: erano i miei schemi, i miei progetti, il mio modo di pensare, insomma tutto il bagaglio culturale che mi ero portato dietro. Ma ho compreso che «il dare la vita per l'amico», dovevo realizzarlo ogni giorno, lasciando morire un pezzetto di me stesso, per accogliere gli altri nella loro diversità. Il modo con cui la mia comunità ha discusso ed accettato la mia partenza definitiva per l'Italia, mi ha confermato che in questi anni c'era stata una crescita nella capacità di assumere la propria responsabilità autonoma, consapevole. Ho avuto la prova che il nostro «camminare insieme» è stato prezioso ed utile per me e per loro.
In una delle riunioni dei responsabili, nelle quali abbiamo riflettuto sul significato della mia partenza, sono state dette cose bellissime, che ritrovo sul mio quaderno di appunti:
Jorge: «Quando ho letto il brano degli Atti (l'addio di Paolo agli anziani di Efeso) ho sentito che anche noi ci troviamo nella stessa situazione. Ma Gesù ha detto: Non vi lascerò orfani, vi manderò lo Spirito Santo».
Placido: «La nostalgia e la sofferenza sono grandi, ma sia fatta la volontà del Padre. Chi si offre per il servizio di Dio deve camminare. Dio chiama. Sta a noi compiere la volontà del Padre».
Odilon: «Penso all'episodio della Trasfigurazione: i tre apostoli volevano fare tre tende. Gesù non fu d'accordo. Per noi è un grande onore che padre Lino vada a trasmettere il nostro lavoro e il nostro messaggio. Parta, padre Lino, e che lo Spirito Santo l'accompagni e rimanga con noi».
Manoel: «lo ho fatto una riunione con la mia famiglia ed abbiamo parlato della partenza di padre Lino. Marcos ha detto solo: Ah! e si è ritirato in camera, commosso, senza poter dire una sola parola».
E Carlos (13 anni): «lo piangerò, ma padre Lino sarà felice quando riceverà le nostre lettere in cui scriveremo che il lavoro di evangelizzazione sta continuando: la vita della Chiesa è affidata a noi, ma io non ho paura perché in mezzo a noi c'è Dio».
Conclusione
Penso che, a questo punto, sarà facile comprendere la visione della «missione», come «scambio tra Chiese sorelle» più che come «donazione paternalistica di ricchezze che pensiamo di possedere in esclusiva». La nostra vecchia Chiesa d'Europa, con la sua lunga storia, possiede un patrimonio prezioso di cultura, di esperienza. Ma anche le nuove Chiese, con la loro vitalità, la loro giovinezza, hanno molto da dire e da offrire. Invece di tentare di fare, da solo, una sintesi di quello che la Chiesa d'America Latina mi ha dato in oltre cinque anni di permanenza, preferisco citare, schematicamente, alcune delle conclusioni a cui siamo arrivati con un gruppo di preti, religiosi, suore e laici (una sessantina) nel gennaio di quest'anno, dopo due settimane passate nel Seminario dell'America Latina di Verona, per riflettere sul lavoro che si sta compiendo laggiù. Cito dalle conclusioni dei vari gruppi che avevano meditato sul tema «conversione personale»:
- Coraggio di rinascere, spogliandosi da strutture; e questo, come primo tipo di povertà.
- Missionarietà come provvisorietà, in tutti i sensi: capacità di cambiare.
- Trasformazione della propria personalità (mentalità e carattere). Uno ha detto: Persino mia madre mi ha trovato cambiato!
- Povertà, come riscoperta continua di ciò che è essenziale, e abbandono di ciò che è accessorio.
- Abbandono dei propri progetti e capacità di acquisire uno sguardo profetico, per vedere la realtà di Dio operante nel popolo.
- Perdita del senso della «proposta», per acquistare il senso dell'«ascolto».
- Pazienza, accettando i tempi di crescita nostra e degli altri.
- Indipendenza e autonomia dal legalismo, dalle nostre «teologie», per partire dall'uomo concreto.
- Perdita delle nostre funzioni di leaders, per la scoperta e la crescita dei ministeri nella comunità.
- Ricerca, con la gente, della risposta del Vangelo.
- Obbedienza, come servizio alle situazioni umane, più che agli schemi nostri.
- Costruzione della nostra personalità, partendo dai più poveri che incontriamo.
- Diventare «uomini», condividendo i problemi umani e non creando problemi artificiali.
- Realizzazione personale, come riscoperta della propria vocazione, nel confronto con la Parola di Dio, letta dalla parte dell'oppresso e nella «scelta di classe».
- Riscoperta e ricupero dei valori tradizionali, partendo dalla visione della libertà e del servizio.
Le «conclusioni» che ho citato, possono dare un'idea di quanto una esperienza come quella fatta in una Chiesa locale di America Latina, possa essere «marcante» per la vita di una persona, anche per me che sono partito dopo avere vissuto trent'anni di sacerdozio in Italia. D'altra parte è evidente, quanto sia estremamente difficile comunicare una esperienza di vita, solo raccontando qualche fatto o facendo qualche considerazione.
Penso che l'affacciarsi della Terza Chiesa alle porte della vecchia Chiesa d'Europa sia il fatto più importante di questa nostra epoca: e anche il dono più grande che il Signore ci offre, per un rinnovamento profondo delle nostre comunità.
Da qui nasce, per tutti, la necessità di mettersi in un atteggiamento di rispetto, di attenzione, di ascolto, per potere accogliere il messaggio che ci giunge dai nostri fratelli delle giovani Chiese: l'avvenire delle Congregazioni, delle comunità ecclesiali, dipenderà proprio da questo.
Favorire i contatti, gli scambi, le visite, gli impegni di presenza anche a più lunga scadenza, ma sempre in questo clima di scambio fraterno, ecco un impegno importante e decisivo, perché l'offerta di un dono così ricco possa essere veramente feconda.
NOTE
[1] Note di Pastorale Giovanile, aprile 1972, pp 55-65.