Guido Gatti
(NPG 1974-11-83)
Molte volte, nel corso di articoli e nelle scelte che li orientavano, abbiamo sottolineato che il conflitto di mentalità ci pareva prima di tutto «in questioni di teologia». C'è una teologia diversa, «nuova», a monte di tante riflessioni in cui la pastorale giovanile prende corpo.
Un'affermazione del genere ha spesso suscitato ulteriori perplessità, proprio perché aveva la pretesa di mettere il dito nella piaga.
Perché una nuova teologia? Non basta quella di sempre? Che cosa e cambiato? Il «vangelo» e i contenuti della fede?
Riesce certamente difficile il dialogo, quando non ci si intende sui termini.
Da qui il grosso interrogativo, cui cerca di dare una risposta questo articolo: «Perché una nuova teologia?». O, meglio, come apparirà facilmente al lettore attento, «Che cosa è mutato nella teologia di sempre?».
Il discorso e importante, anche se a prima vista potrebbe apparire riservato agli addetti ai lavori e lontano dalle immediate preoccupazioni degli operatori pastorali. Non solo perché non si può impostare un corretto progetto di pastorale giovanile se non dopo aver posto delle buone basi teologiche (ed è il motivo ricordato poco sopra). Ma anche in vista del quotidiano contatto con i giovani, con i quali il nostro «parlar di Dio» richiama immediatamente una visione teologica, vicina o lontana alla loro sensibilità e, nello stesso tempo, poco o molto «cristiana» (come ricorda RdC nel fondamentale par. 77).
Il fondale di tutto il discorso e la riflessione teologica sulla speranza che tanto peso ha nel momento educativo globale, in vista di una fede aperta all'impegno e, in campo teologico, come criterio reinterpretativo di tutto il contenuto della fede (cf in questa stessa rivista, l'articolo di G. Gatti, in 1973 /10).
IL PROBLEMA ERMENEUTICO
Che cos'è l'ermeneutica?
Molti si chiedono oggi nella chiesa il perché di nuove forme di teologia come, ad esempio, la teologia della speranza o la teologia della liberazione.
L'uomo è portato a una specie di istintiva diffidenza per tutte quelle novità di cui non avverte o non capisce il bisogno e che è portato a sentire come una minaccia alle certezze che per tanto tempo hanno dato senso e sostegno alla sua vita.
Non è sempre facile oltretutto rendersi conto di quanto ci sia di effettivamente nuovo in queste nuove elaborazioni del pensiero teologico e fino a che punto esse rinnovino invece in forme diverse una sostanziale fedeltà alla riflessione e all'esperienza di fede del passato.
Per comprendere il bisogno cui cercano di rispondere le nuove forme di teologia e per misurare insieme la loro effettiva novità e la loro necessaria fedeltà al passato della fede, è necessario partire dal problema ermeneutico.
La teologia della speranza e della liberazione sono infatti tentativi di risposta a una problematica che può essere globalmente definita come di natura ermeneutica.
Esse sono cioè tentativi di ri-lettura e di re-interpretazione: ri-lettura del Messaggio alla luce delle nuove esperienze storiche e del nuovo orizzonte culturale, in funzione di una sua fedele ed efficace proclamazione; e re-interpretazione alla luce della fede delle attuali esperienze storiche della comunità di fede, in funzione di una prassi storica in linea col progetto divino di salvezza.
La nuova teologia si propone quindi di operare una più efficace fusione di orizzonti tra il messaggio e la vita, capace di rendere il Vangelo contemporaneo alla nostra storia e di fare delle nostre esperienze storiche una autentica esperienza di fede.
Il problema ermeneutico è essenzialmente un problema di incontro tra un testo e i destinatari o lettori di questo testo; incontro che non può farsi che attraverso il superamento degli schermi storici e culturali che si frappongono tra il testo e i suoi lettori.
Nel campo della teologia, l'esigenza di una ermeneutica dipende dal fatto che una autentica esperienza di fede può darsi solo nella misura in cui la Parola di Dio, pronunciata nel passato della storia di salvezza, resta normativa per ogni successiva esperienza di fede ed ha bisogno di essere pronunciata in modo significativo per noi, di illuminare e salvare la nostra concreta situazione storica.
La Parola di Dio, contenuta nella bibbia e nelle definizioni dogmatiche, può diventare significativa ed efficace per noi solo in una reinterpretazione fedele insieme all'oggi storico che deve illuminare e salvare ( = fedeltà all'uomo) e all'autentica intenzionalità salvifica di Dio, già rivelatasi negli eventi di salvezza del passato della fede (= fedeltà a Dio). L'ermeneutica è appunto questa re-interpretazione fedele sia a Dio che all'uomo.
Perché un'ermeneutica?
Essa è resa necessaria da diversi motivi.
Prima di tutto, la bibbia, come anche le definizioni dogmatiche, non sono mai la «nuda vox Dei», bensì una interpretazione autentica e privilegiata, ma culturalmente e storicamente situata, del mistero della salvezza, attuantesi nella storia come rivelazione concreta della intenzionalità salvifica di Dio.
Dio non può parlare all'uomo che parlando le parole dell'uomo, pensando i pensieri dell'uomo.
Il divario cronologico e culturale che ci separa da questa interpretazione autentica e privilegiata, e quindi dall'orizzonte culturale che le ha fornito il linguaggio e le categorie di pensiero, rappresenta uno schermo che oscura la significatività per noi di questo linguaggio, lo rende lontano dalla nostra sensibilità, limita la sua capacità di comunicare autenticamente l'esperienza di un Mistero che pure in questo linguaggio si è espressa in modo privilegiato.
Esso deve essere riletto, tradotto e reinterpretato alla luce delle nostre esperienze e nell'ambito del nostro orizzonte culturale, proprio per potersi fare significativo-per-noi.
La distorsione del linguaggio (basta a volte che cambi il significato di una parola perché cambi il quadro semantico di tutta una lingua; e si pensi a quante parole hanno radicalmente cambiato di senso anche solo nel giro degli ultimi anni!), la trasformazione, a volte assai radicale, delle strutture mentali, che come una specie di retro-pensiero condizionano lo stesso pensare, il diverso orizzonte di esperienze e di storia, fanno sì che una pura ripetizione materiale delle narrazioni e delle formule che servirono in passato ad esprimere un'esperienza di fede autentica e privilegiata siano oggi inadeguate a comunicare questa esperienza e a mettere in contatto la nostra situazione storica con la Parola di Dio che deve illuminarla e salvarla.
Come si fa un'ermeneutica?
Una ermeneutica della bibbia e delle formule dogmatiche, cioè dei documenti e delle testimonianze di una esperienza privilegiata di fede, normative anche per la nostra fede, dovrebbe comprendere in sostanza i seguenti momenti essenziali:
* Una lettura dei testi, attenta a coglierne i contenuti oggettivi, rispettosa di quello che il testo è in se stesso.
Al di là delle formule essa permette di attingere gli eventi di salvezza e di entrare in contatto con l'esperienza di fede che sta sotto le formule stesse.
* Il risalire, attraverso questi eventi e queste esperienze, al mistero della intenzionalità salvifica di Dio, per cogliere il significato e l'efficacia che questa intenzionalità ha per me qui e ora, l'appello che essa è per me in concreto.
* L'accogliere e il vivere questo appello in una autentica ed originale esperienza di fede nella mia situazione storica.
* E infine il dare a questa esperienza e alla sua autocomprensione una espressione in un linguaggio, attinto dal nostro mondo culturale, comprensibile e significativo per i nostri contemporanei, proprio perché in stretto contatto con l'esperienza concreta di vita del nostro tempo.
Così compresa, l'ermeneutica è un fatto di fede globale che pervade tutta la vita della comunità di fede.
La teologia stessa si identifica con questa interpretazione viva delle formule del passato che è insieme anche ermeneutica dell'esperienza di fede alla luce di quelle espressioni privilegiate della Parola di Dio, la cui intelligenza ha generato nella comunità stessa le nuove esperienze di fede. Tutta la teologia è quindi ermeneutica, non solo nel senso che è spiegazione di una Parola difficile da capire ma anche nel senso che è autocomprensione della fede, cioè spiegazione e interpretazione della vita alla luce di questa Parola, rapporto della fede di oggi con gli eventi di salvezza del passato che permette di rivivere e portare avanti l'esperienza della fede in una continuità vitale che supera la discontinuità del linguaggio. L'ermeneutica della Parola di Dio permette a Dio di riparlare qui e ora; il messaggio testimoniato nella bibbia non si esaurisce nelle formule morte del testo ma è annuncio sempre vivente, dello Spirito, nella vita della chiesa.
La teologia è un momento importante, anche se non l'unico, di questa «risurrezione della parola» dalla «kenosi» che per essa sempre nuovamente comporta la morte di un determinato linguaggio e il sorgere di un nuovo orizzonte di autocomprensione umana.
Un esempio di perdita di significatività di un certo linguaggio
Ci aiuterà a comprendere meglio questa esigenza di reinterpretazione la considerazione del divario culturale che ci separa da un certo passato (divario che ha comportato il passaggio di una «soglia di mentalità» irreversibile, il passaggio da una mentalità sacrale a una secolare) e della perdita di significatività che questo divario ha comportato per un certo tipo di linguaggio teologico del passato.
La nuova mentalità è cioè così diversa dalla precedente che il linguaggio religioso tradizionale rischia di non dire più nulla di significativo, di essere semplicemente senza senso per l'uomo di oggi.
Fa impressione, ad esempio, il costatare quanto un certo ateismo pratico contemporaneo trovi appoggio nel linguaggio e nella mentalità corrente dell'uomo di oggi.
L'ateismo oggi non ha più bisogno di giustificare teoricamente la negazione di Dio. Non gli occorre negare Dio teoricamente con una negazione impegnativa che sia risposta a un problema serio, seriamente posto e seriamente dibattuto.
Dio è pacificamente escluso dalla vita, nel senso che non costituisce più un problema: le affermazioni che lo riguardano appaiono senza senso. L'ateismo del secolo scorso da D'Holbach a Feuerbach e Marx è stato vissuto come impegno etico di lotta per l'uomo e contro la alienazione religiosa. Il fatto era che la religione sembrava ed era ancora una cosa viva, radicata nella mentalità e nel linguaggio.
Oggi per certe correnti dell'ateismo contemporaneo, combattere la religione sembra, al limite, un anacronismo; può apparire ingeneroso e inutile come uccidere un uomo morto.
Le stesse categorie del pensiero metafisico che facevano da supporto all'immagine di Dio e che fornivano il linguaggio logico per la teologia e il discorso di fede, sono così poco attendibili per l'uomo d'oggi da suonargli non solo desuete ma addirittura senza senso.
Un certo tipo di predicazione religiosa manca di presa sull'uomo di oggi. Per questo uomo, abituato a pensare tecnicamente, a giudicare della serietà di un discorso dalla sua verificabilità operativa, dal suo riferimento ad operazioni concrete ed efficaci, il discorso religioso tradizionale risulta, prima ancora che falso, privo di senso, incapace di evocare fatti od esperienze reali, di dire qualcosa di connesso con la vita e quindi di serio e meritevole di attenzione. Esso gli appare come un universo meramente verbale, fittizio, privo di peso semantico e di ogni significatività, una specie di stratagemma del pensiero per evadere dalla realtà e dai suoi compiti impegnativi.
Sul piano spicciolo l'obiezione: «A che cosa serve la religione?»; oppure: «Che cosa ha cambiato il cristianesimo in duemila anni?» è spesso una porta sbattuta in faccia al proseguimento di un qualunque discorso di tipo religioso.
Le nuove teologie, come la teologia della speranza o della liberazione (o come già in passato la teologia della secolarizzazione) affrontano questo problema e cercano di arrivare a una riformulazione del messaggio capace di riagganciarlo alla vita, alle esperienze e agli interessi dell'uomo di oggi e di restituirgli così efficacia e capacità di contagio.
Una consonanza da evidenziare
La scelta del nuovo linguaggio teologico e delle nuove categorie culturali in cui pensare ed esprimere l'autocomprensione della fede non può essere arbitraria; essa deve garantire una uguale fedeltà a Dio e all'uomo; per questo deve cercare ed evidenziare le consonanze segrete esistenti tra il linguaggio e l'orizzonte culturale dell'uomo contemporaneo e certe dimensioni portanti della sostanza del messaggio.
Come già i teologi della secolarizzazione puntarono su un certo carattere embrionalmente secolarizzante del pensiero biblico per ricuperare il pensiero secolare alla comprensione della fede, così i teologi della speranza e della liberazione si rifanno a una certa interna consonanza tra il linguaggio delle speranze e della liberazione umana e il messaggio escatologico della bibbia per ristabilire, attraverso una nuova espressione dell'autocomprensione della fede, una contemporaneità vivente tra l'universo di discorso del vangelo e quello dell'uomo di oggi.
Così secondo il Pannenberg e il Moltmann, la teologia della speranza non farebbe che evidenziare una certa nascosta corrispondenza strutturale esistente tra il carattere progettuale e teso verso l'anticipazione di un futuro diverso del pensiero contemporaneo da una parte, e la dimensione essenzialmente escatologica dell'esperienza di fede dall'altra.
Come la secolarizzazione in genere non porta necessariamente all'ateismo ma comporta anzi delle chanches per una diversa esperienza di Dio, così l'escatologia secolare del marxismo, la filosofia della speranza di Bloch, il linguaggio della liberazione umana parlato dagli oppressi di tutte le terre si rivela capace di sollecitare il discorso di fede a una sua riformulazione fedele insieme a Dio e all'uomo.
Una ricerca di autenticità
È proprio questa esigenza di fedeltà a Dio a imporre una re-interpretazione delle formule del passato, un nuovo discorso su Dio.
La teologia ha bisogno oggi di essere nuova proprio per assicurarsi questa fedeltà, non materiale ma reale, alla Parola di Dio, per inverarla, restituendo ad essa il suo autentico significato, che l'invecchiamento del linguaggio e della cultura distorcerebbe o sottrarrebbe in una pura ripetizione materiale.
Il problema ermeneutico non va visto infatti solo come un problema di «captatio benevolentiae» nei confronti dell'uomo di oggi, come la ricerca di un centro di interesse per provocare l'ascolto e risvegliare una simpatia difficile. Non è in gioco solo la fedeltà all'uomo ma anche la fedeltà a Dio e alla sua parola.
Pronunciata in un contesto storico e culturale diverso dal nostro, essa resta normativa anche per la nostra fede. Essa deve ispirare una esperienza di fede realmente in continuità con quella del passato. Proprio per questo deve essere letta in una «reinterpretazione capace di esprimere realmente e solo il medesimo dato di fede annunciato dalla bibbia, inserito però in una testimonianza reinterpretante». È proprio l'esigenza della fedeltà al senso originale che impone di cambiare l'espressione.
Questo ci è oggi facilitato dal fatto che, rispetto ad una certa teologia del passato, disponiamo di mezzi tecnici capaci di assicurarci un incontro più trasparente con lo stesso contenuto oggettivo dei testi biblici e una migliore comprensione della natura e del peso dei suoi condizionamenti culturali.
Questi mezzi ci sono stati definitivamente assicurati dal progresso degli studi biblici a livello di esegesi.
È stato questo progresso, unito alla perdita di significatività subita dal linguaggio teologico tradizionale, a mettere in crisi, proprio in nome di una rinnovata fedeltà alla bibbia, la sistemazione teologica tradizionale. La struttura mentale, l'immagine dell'uomo, del tempo e del mondo proprie del pensiero biblico si sono rivelati notevolmente diversi dalle categorie del pensiero classico usate in chiave ermeneutica da una certa teologia del passato. Anzi certe concezioni tipiche del pensiero biblico (come ad esempio la concezione vettoriale del tempo storico, il posto centrale dell'uomo nella natura, la struttura unitaria della persona umana) si rivelano più vicine e in più intima consonanza con l'immagine che l'uomo si fa oggi di sé e del mondo, che non con le immagini corrispondenti, codificate dal pensiero classico in una certa metafisica essenzialista. Questa riscoperta della bibbia e di certe sue insospettate consonanze col pensiero contemporaneo rappresentano un invito a superare un certo linguaggio del passato, integrando le vecchie formule in un nuovo linguaggio che ne rinnovi la significatività, evidenziandovi contenuti impliciti e liberandone l'efficacia repressa.
Il carattere provvisorio della nuova ermeneutica
Bisogna d'altra parte aggiungere che la teologia oggi è perfettamente consapevole di non poter operare che una reinterpretazione del messaggio, di sua natura sempre parziale e relativa: parziale perché incapace di cogliere nella stessa luce e di evidenziare con la stessa chiarezza concettuale tutto il contenuto di una Parola in sé inesauribile e trascendente ogni ermeneutica umana; relativa perché inevitabilmente condizionata e limitata da categorie culturali contingenti.
La relatività di ogni ermeneutica teologica comporta una certa sua provvisorietà e impone la continua revedibilità di ogni tentativo umano di tradurre, riformulare e applicare alla vita il messaggio rivelato, e quindi di ogni forma di teologia.
Il nucleo della Parola di Dio può essere colto soltanto nella sua interpretazione e testimoniato soltanto attraverso tematizzazioni storicamente e culturalmente situate, mai perfettamente adeguate ed esaustive.
La formula del passato parla solo in quanto, interpretata, diventa mio presente e resta nella sua provvisorietà aperta a un futuro escatologico nel quale Dio ne invererà pienamente la verità.
«Non è possibile - dice lo Schillebeeckx - fornire una giustificazione della fede cristiana che sia valida per ogni tempo, ma è possibile fare ciò per il periodo in cui si vive. L'autenticità della cultura presente è diversa da quella delle altre culture, sia passate che future. Ciascuno deve realizzare l'autenticità cristiana secondo le forme della propria cultura».
Il dialogo culturale
In ogni disciplina, la metodologia usata è imposta dallo scopo prefisso. A ogni problematica una sua metodologia di ricerca.
L'ermeneutica ha lo scopo di creare una fusione di orizzonti, di rendere possibile una contemporaneità tra l'ieri e l'oggi dell'evento di salvezza e della sua comprensione.
La metodologia sarà perciò quella del confronto e del dialogo tra i due diversi orizzonti di comprensione, tra due diversi linguaggi: nel nostro caso, quello biblico e quello secolare delle speranze terrene.
La teologia della speranza si servirà così da una parte di tutti i progressi in una corretta lettura della bibbia che la moderna esegesi le mette a disposizione, dall'altra accosterà con interesse e simpatia l'universo di discorso e di azione delle speranze terrene e della liberazione umana delle cui categorie userà appunto come di una chiave di interpretazione.
Se in un certo senso il compito dell'ermeneutica è un po' quello di decodificare un messaggio per ricodificarlo in un altro linguaggio, il suo metodo passa attraverso una buona conoscenza e uno stretto confronto dei due codici, cioè dei due linguaggi.
Prendendo a prestito il linguaggio delle speranze terrene, la teologia della speranza fa sue le categorie di pensiero di questa esperienza storica ma non vi si imprigiona né vi si riduce senza residui.
Accettando di pensare in termini di storia e di futuro rifiuta di chiudersi nell'immanenza storica o di limitare le sue prospettive a un futuro immanente.
Il linguaggio delle speranze terrene verrà così adattato ad esprimere un contenuto più grande di quello che è il suo originario. Esso subirà così una specie di transignificazione, una distorsione di significato che ne invera tutte le nascoste capacità espressive (facendolo capace di dire di più di ciò per cui fu creato) ma insieme ne rivela anche il carattere insufficiente e relativo (attraverso lo scarto sempre nuovamente risorgente tra ciò che esso è piegato a dire, e l'inesauribile ricchezza del messaggio).
LA RICOMPOSIZIONE DI UNA FRATTURA
Una frattura nella coscienza cristiana
Le nuove forme di teologia e in particolare la teologia della speranza e della liberazione affrontano inoltre un secondo tipo di problematica relativa alla coscienza cristiana contemporanea e al bisogno sempre più urgentemente avvertito di operare in essa la ricomposizione di una frattura che minaccia la stessa identità del cristiano nel mondo.
È la frattura che si verifica a livello di coscienza nel cristiano impegnato lealmente nei compiti terreni, aperto alle speranze umane intramondane, solidale con tutti coloro che lottano per la liberazione dell'uomo, e nello stesso tempo preoccupato di restare fedele alla Parola di Dio e all'orizzonte escatologico aperto da questa parola e trascendente i compiti e le speranze umane.
La dedizione leale alle speranze umane e la fedeltà alla città terrena non sono facilmente conciliabili con la fede nell'al di là, così che spesso si opera una certa frattura interiore nella coscienza cristiana che vuole restare fedele alla storia oltre che all'escatologia.
Secondo la teologia della speranza queste difficoltà sono appunto legate alle categorie di pensiero e al linguaggio della teologia del passato, agli schemi di una metafisica essenzialista che ha in certo modo destoricizzato e privatizzato il messaggio dell'escatologia biblica.
C'è stato un tempo in cui il pericolo di questo gap non esisteva, perché la storia non si era ancora prepotentemente affacciata all'orizzonte delle esperienze e degli interessi umani.
La spiritualità cristiana, in questo universo culturale, aveva perso di vista la sua importanza e il suo ruolo nella salvezza. Per questa forma di spiritualità la storia terrena non poteva essere considerata degna di attenzione: rappresentava il nulla di fronte al tutto; ciò che non era eterno non era nulla: «Brutta terra, bel Paradiso». Il cristiano ci viveva come in un esilio provvisorio; nulla in esso doveva legare a sé il suo cuore, tutto teso a un futuro che pareva non avere alcun rapporto con la storia.
Il senso degli eventi che l'uomo vi viveva era dato dagli atteggiamenti religiosi di cui essi offrivano l'occasione.
Ciò che contava era la buona intenzione. Servire gli altri non rappresentava il senso di un progetto di umanizzazione del mondo ma il modo di mostrare alla prova un amore che aveva Dio come unico oggetto diretto. Nel giro di pochi secoli l'orizzonte degli interessi si è completamente rovesciato al punto che il carattere trascendente della speranza cristiana rappresenta oggi nel mondo l'eccezione inspiegabile e conturbante piuttosto che la regola comune. Ma è una eccezione che è sempre più difficile se non si rende capace di ricuperare dal di dentro della sua trascendenza i nuovi interessi e le nuove speranze terrene.
Solo recentemente la teologia si è resa consapevole di questa frattura; diversi tentativi sono già stati compiuti (ricordiamo ad esempio le diverse forme di teologia delle realtà terrene, del lavoro, della politica, della rivoluzione), ma non si può ancora dire che questa dolorosa tensione interiore sia stata del tutto risolta. La tentazione di svalutare l'uno dei due termini della tensione per privilegiare unilateralmente l'altro è sempre viva. Non si riesce a mettere simultaneamente a fuoco prospettive così diverse. La tentazione di considerare insignificante ciò che non è eterno è pari a quella di ridurre l'escatologia a un simbolo o a un mito (naturalmente da demitizzare) delle speranze intramondane.
Paradossalmente la fede continua a restare per molti una evasione alienante mentre per altri, perso ogni carattere trascendente, si riduce a una forma di umanesimo sociale.
L'equilibrio difficile a livello di coscienza è ancora più scivoloso in una pratica assorbente e totalizzante. Se, a livello di pensiero, forme di riflessione e di divulgazione teologica che riducono la fede a una dimensione puramente orizzontale coesistono con i residui inerziali di una escatologia alternativa alla storia, a livello di vita, mentre la fede resta per molti credenti estranea alla prassi storica e agli impegni di liberazione politica, finendo per giustificare l'accusa di evasione, per cristiani o circoli religiosi sedicenti cristiani d'avanguardia essa è ridotta alla pura tensione rivoluzionaria, priva di ogni apertura tematizzata al trascendente.
È un problema che il Vaticano II ha affrontato, formulato ed aiutato a maturare.
Ma il dettato della Gaudium et Spes è più un programma di lavoro per la riflessione teologica e per l'esperienza di fede che non una soluzione coerente già confezionata per la saldatura di questa frattura della coscienza cristiana.
Le tensioni restano vive, aperte, il problema irrisolto: ad esso la teologia della speranza e della liberazione cercano di dare una risposta esauriente e convincente, anche per coloro che, incapaci di tematizzare riflessamente il problema, lo soffrono tuttavia sul piano della vita vissuta.
Una riflessione critica sulla prassi storica della comunità di fede
Nel tentativo di saldare questa frattura, la teologia della liberazione si trova ancora una volta alle prese con un compito di natura ermeneutica; non nel senso della interpretazione di un testo ma in quello di una interpretazione della vita.
Per ricomporre infatti questa frattura sembra necessaria una rilettura in chiave di fede della esperienza umana della liberazione e della speranza. Questo problema è stato esplicitamente tematizzato dal filone sudamericano della «nuova teologia». Esso è così sfociato in una nuova metodologia teologica, anzi in una nuova concezione dello stesso teologare. I teologi sudamericani rimproverano facilmente ai loro colleghi europei un certo carattere elitario, astratto e libresco e si propongono una più intima aderenza del pensiero alla vita vissuta, una riflessione, nascente dalla prassi storica della comunità di fede impegnata nella liberazione, e continuamente ritornante a questa prassi come al «locus theologicus» privilegiato di ogni discorso sulla fede.
L'esposizione tematizzata di questo nuovo proposito metodologico è del Gutierrez (Teologia della liberazione, Queriniana).
Secondo questo autore, la teologia avrebbe assunto nel corso della storia funzioni e metodologie diverse.
Nei primi secoli della chiesa «ciò che oggi chiamiamo teologia era strettamente legato alla vita spirituale. Si trattava fondamentalmente di una meditazione sulla bibbia, fatta per progredire spiritualmente».
La teologia aveva una funzione sapienziale. Soggetto del teologare erano soprattutto i monaci, che per scelta di vita cercavano la perfezione cristiana. Le categorie filosofiche usate erano quelle del platonismo e del neo-platonismo, particolarmente congeniali per questa impostazione.
Col secolo XIII cominciò a formarsi la teologia come sapere razionale, come scienza, naturalmente non nel senso della scienza moderna: si trattava di un certo incontro tra fede e ragione; una ragione rappresentata soprattutto da una filosofia eminentemente essenzialista e razionalista come l'aristotelismo.
Dopo Tommaso, i compiti sapienziali assolti dalla prima teologia passano sempre di più dai teologi ai maestri di spirito.
Col tempo le esigenze di sapere razionale si ridussero sempre più a esigenza di sistemazione razionale del dato definito o comunque insegnato dal magistero, a cui passò sempre più l'iniziativa di ogni apporto originale e creatore.
La teologia finì per allentare il contatto con la vita vissuta e per farsi la fama di un sapere astratto ed anacronistico per eccellenza.
Oggi, secondo il Gutierrez, per essere fedele ai suoi compiti, la teologia dovrebbe svolgere una funzione nuova servendosi di strumenti nuovi. A renderla consapevole di questa esigenza sono concorsi diversi fattori. Prima di tutto la scoperta dell'importanza della prassi come stimolo e verifica del sapere nel campo delle scienze: la metodologia delle scienze sperimentali ci ha abituato al fatto che la prassi sia un momento dialettico della ricerca della verità, che «viene progressivamente disvelata dall'intervento trasformatore dell'uomo».
«In questa prospettiva, l'intelligenza della fede appare come l'intelligenza non della semplice affermazione - quasi una recitazione di verità - ma di un impegno, di un atteggiamento che prende tutto l'uomo, di una presa di posizione di tutta la vita».
Vi è poi la riscoperta concreta della vita stessa della chiesa come luogo teologico, luogo dell'incontro tra mente umana e parola di Dio, dove appaiono nei segni dei tempi i criteri per una interpretazione vitale del messaggio.
Questo stimola a rompere il ghetto degli specialisti nel quale si è chiusa la teologia e a restituire il compito del teologare alla comunità cristiana come tale; la specializzazione non è naturalmente esclusa ma ricondotta a un più vivo legame con la vita e la riflessione di tutta la chiesa.
La nuova funzione che è chiamata oggi a svolgere la teologia si configura quindi come una riflessione critica sulla prassi storica della comunità di fede.
Riflessione critica significa pensiero critico di se stesso, dei suoi stessi fondamenti epistemologici, consapevole dei suoi condizionamenti socioeconomici, troppo spesso misconosciuti in passato. Significa inoltre un pensiero che si pone in continua verifica della prassi ecclesiale.
A dire il vero, non è tanto la vita della chiesa ad essere programmata e dedotta dal sapere teologico astratto, quanto piuttosto la teologia ad essere guidata ed ispirata dalla prassi della chiesa, suscitata e sorretta dallo Spirito.
La teologia accetta come suoi i problemi che la storia e la vita della chiesa le forniscono, ad essa si rifà come a un criterio di verità pratica insostituibile.
Ma a sua volta la teologia verifica la vita alla luce di una Parola che è discernimento e giudizio. La verifica teologica della prassi ecclesiale deve essere una critica liberatrice, che, smascherando le tentazioni sempre ricorrenti dell'idolatria, del narcisismo, dell'incoerenza, mette la prassi della chiesa pienamente al servizio della liberazione umana.
Questo suo carattere di riflessione critica su una realtà sempre in movimento è all'origine dell'esigenza del rinnovamento incessante del pensiero teologico.
Teologia come riflessione critica significa infine che la stessa prassi di liberazione storica e di costruzione della città terrena è già in qualche modo un teologare, un far emergere dalla storia le linee del Regno.
L'oggetto della teologia è soprattutto il futuro. Del futuro si può parlare solo realizzandolo; esso è disvelato solo dall'azione che lo attua. La teologia non segue a rimorchio lo sviluppo della storia, ma lo accompagna con la sua riflessione critica, e lo anticipa con una progettualità ispirata alla Promessa.
Il criterio dell'ortoprassi
Una simile impostazione suppone che venga privilegiato come criterio di validità della riflessione teologica il criterio dell'ortoprassi.
La Parola di Dio in cui crede la chiesa è una parola efficace, che realizza quanto dice. Lo spirito che guida la comunità nella riflessione teologica è lo stesso Spirito che trasforma la faccia della terra. Le verità cristiane non sono solo oggetto di contemplazione, sono verità da fare, da portare a compimento.
Privilegiare il criterio dell'ortoprassi non significa eliminare i criteri tradizionali dell'ortodossia e neppure significa soltanto dire che la credibilità di un enunciato di fede è legata alla testimonianza della vita di chi lo proclama.
Si tratta piuttosto di sottomettere l'ortodossia stessa a una verifica ulteriore che è profondamente in consonanza con il carattere creativo e liberatore della Parola. Privilegiare il criterio dell'ortoprassi significa misurare la fedeltà di una traduzione all'originale dalla sua capacità di ricreare la stessa corrente di vita e di trasformazione storica.
Per la teologia si tratta di riscoprire in una prospettiva nuova il suo carattere sapienziale delle origini, quando essa era vera nella misura in cui favoriva il progresso nella santità. Così dovrà oggi essere ritenuta fedele quell'ermeneutica del messaggio che liberandone tutta l'energia trasformatrice prepara ed anticipa nel mondo la giustizia del Regno.
Questo intimo contatto, questo incessante riflusso dalla riflessione alla vita e viceversa non è in realtà una cosa tanto nuova nella storia della teologia. I teologi di professione sono sempre stati insieme membri di una comunità ecclesiale di cui hanno condiviso il linguaggio e la cultura. Il ghetto in cui è sembrata chiudersi una certa teologia del passato era spesso solo il riflesso della staticità e incomunicanza culturale del mondo da cui nasceva e delle esperienze di chiesa a cui si ispirava.
La nuova teologia tematizza riflessamente e programma consapevolmente questa comunicazione e questo riflusso dialettico in consonanza con le scelte di una chiesa che nel Vaticano II ha deciso di aprirsi al mondo e di mettersi disponibilmente al servizio della liberazione umana nella storia. Questo intento comporta lo sforzo di mantenere la riflessione teologica scientifica e professionale in costante dialogo con la comunità, ricordando il carisma di certificazione e di servizio dell'unità svolto in essa dal magistero, per disposizione di Cristo.
Lo Spirito illumina e sorregge tutta la chiesa e le insegna ogni verità; questo chiede al teologo di professione un atteggiamento di umile disponibilità e di ascolto: ascolto della Parola di Dio come suona nella bibbia e nelle formule dogmatiche ma anche nella vita della comunità ecclesiale, guidata dallo Spirito, e nella vita di tutta la comunità umana dove si fa presente l'appello di Dio incluso nei segni dei tempi.