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    La teologia del futuro per un futuro della teologia: teologia della speranza



    Guido Gatti

    (NPG 1973-10-19)

    «La riflessione sulla speranza cristiana ha assunto, in questi ultimi anni, un ruolo di primo piano all'interno di tutto il discorso teologico. La speranza, che era finora confinata in un settore limitato e trascurato della teologia dogmatica e morale, diventa il principio architettonico di tutta la teologia, l'orizzonte privilegiato per conoscere chi sia Dio e chi sia l'uomo, la chiave interpretativa dell'intero messaggio cristiano. La ragione di questa svolta così marcata va ricercata nel contatto socio-culturale in cui siamo inseriti. La cultura odierna, con i suoi fermenti e le sue tensioni, è fortemente marcata dalla prospettiva di apertura al futuro. Le categorie del «novum», del «non ancora», del «possibile» ricorrono con frequenza e segnano il pensiero contemporaneo e i costumi dell'uomo di oggi. Di fronte ad un avvenire, che appare spesso minaccioso e incontrollabile, l'uomo si affida alla speranza e le ideologie di un futuro non ancora raggiunto - si pensi al marxismo - esercitano una forte pressione sul presente, suscitando un insaziabile desiderio di trasformazione del mondo.
    Questa passione del pensiero contemporaneo per il futuro - definito un "esistenziale della condizione umana" - trova riscontro nell'approfondimento dell'escatologia biblica, che restituisce alla teologia la categoria dell'avvenire come una delle sue strutture portanti. Si comprende in questo quadro il posto privilegiato che occupa la speranza nella teologia attuale».
    La lunga citazione, mentre inquadra a pennello il significato delle riflessioni sulla speranza nell'attuale sensibilità teologica, offre motivazioni stimolanti per giustificare la presenza sulla rivista di un articolo di carattere teologico. La teologia della speranza rimbalza sulla pastorale giovanile a due titoli:
    - I giovani, un po' ammaccati dalle lotte politiche e che si sono presi le prime scottature della vita, si fermano decisamente a chiedersi: «Ce la faremo?». Ce la faremo a costruire un mondo più pulito, più umano, più giusto, più rispettoso dell'uomo?
    La speranza, in altre parole, è intimamente associata all'idea di liberazione. Non si spera se non perché si e coscienti di una situazione di contraddizioni, di sofferenze, di schiavitù; sperare significa non ritenere fatale questa situazione credere possibile il suo superamento, tendere verso di esso con la lotta contro le forze che cercano di perpetuarla e progettare un'esistenza liberata.
    Ma l'esperienza ripropone la domanda: «Ce la faremo?».
    Non la si può eludere, nel generico.
    Una risposta, sofferta e filigranata sul rifiuto di sicurezze prefabbricate, è indilazionabile. La «speranza» è una risposta che non si basa sull'uomo, troppo fragile per prendersi sulle spalle un peso simile. Ma che si basa su Cristo, su lui risorto. Ce la faremo, perché Cristo è risorto.
    - La pastorale giovanile, per essere seria, ha bisogno di affondare le sue radici nella teologia. Non è solo una batteria di metodi indifferenziati. È un progetto d'azione che incarna, nelle modalità in cui si sviluppa, un quadro teologico.
    Per fare un esempio, l'attenzione ai fatti umani, a cui tanto spesso ci appelliamo, è per noi «atto di fede», nel Dio di Gesù Cristo. «Non si tratta di una semplice preoccupazione didattica e pedagogica. Si tratta invece di una esigenza di incarnazione, essenziale al cristianesimo» (RdC, 96).
    Se è vero che la teologia della speranza offre un principio architettonico rinnovato all'impianto teologico, la pastorale giovanile dovrà presto sintonizzare le sue movenze a questa lunghezza d'onda. Sia a livello di contenuti che mette in circolazione; sia nel privilegiare o meno un metodo d'intervento.
    L'articolo che presentiamo, davvero pregevole nella chiarezza della sintesi e nella concretezza degli enunciati, guida alla scoperta della teologia del futuro... per un futuro della nostra pastorale giovanile.
    L'accento è qui prevalentemente a livello di contenuti. Serve, se si vuole, a fondamento di tanti discorsi già precedentemente fatti. In redazione, comunque, stiamo progettando una riflessione più a carattere metodologico «verso una pedagogia della speranza», che ci auguriamo di poter offrire presto al confronto dei nostri lettori, assieme all'approfondimento di alcuni «temi» presenti nell'articolo in forma molto sintetica.


    UN CAMBIO DI SENSIBILITÀ: LA TEOLOGIA VERSO LA SPERANZA

    Teologia ed esperienza di fede

    «La teologia non ha altro futuro che di essere la teologia del futuro» ha scritto di recente H. Cox, un teologo protestante americano.
    Ora l'avvenire della teologia non è una cosa irrilevante per l'esperienza di fede e quindi anche per la pastorale.
    Dell'esperienza di fede la teologia è l'autocomprensione riflessa. Nella teologia la fede, non per giustificarsi in assoluto con gli espedienti della ragione umana, ma per comprendere se stessa e per farsi consapevole del mistero che essa coglie, cerca di esprimersi riflessamente nel linguaggio degli uomini.
    Espressione di un'esperienza in certo senso inesprimibile, essa riflette e segue il divenire storico di questa esperienza e le è quindi subordinata; tuttavia in un certo senso la precede e la orienta.
    È la parola di Dio a suscitare e rinnovare continuamente l'esperienza di fede; ma la teologia è comprensione e interpretazione sempre attuale di questa parola che annuncia e testimonia la presenza del Regno, e quindi fonte di indicazioni e di luce per il cammino della fede.
    Il fatto che la teologia si senta chiamata ad occuparsi del futuro, indica che il futuro è diventato oggi rilevante per l'esperienza di fede.
    Oggi si sente parlare sempre più spesso di teologia della speranza. È lo sforzo della teologia di includere il futuro tra le sue categorie conoscitive.
    Non si tratta di una nuova moda teologica da salotto o da «gruppuscolo di sinistra», ma di un umile tentativo di esprimere e interpretare il vangelo come messaggio di speranza e come apertura al futuro in un mondo che è assetato di speranza e che parla il linguaggio del futuro; un tentativo che interessa l'esperienza di fede a tutti i livelli e in tutti i settori, non soltanto perché in intima consonanza con i segni dei tempi e le aspirazioni più profonde dell'uomo di oggi, ma anche perché in linea con l'ispirazione più originaria ed autentica del messaggio.

    Esperienza della liberazione e teologia della speranza

    La teologia della speranza è nata dal di dentro di una delle esperienze più universali e caratteristiche del nostro tempo: l'esperienza della liberazione.
    Per questo teologia della speranza e teologia della liberazione, se pure non si identificano certo si compenetrano reciprocamente.
    Per poco che uno legga qualcosa della teologia della speranza non tarderà molto infatti a rendersi conto che essa non è lo sviluppo omogeneo della tradizionale «escatologia dei novissimi», né è nata per generazione spontanea dalle poche righe che la manualistica tradizionale riservava alla speranza. E neppure si tratta di una semplice rilettura, sia pure esegeticamente aggiornata, dei dati biblici relativi alla promessa e al futuro di Dio. Essa vuole essere piuttosto una nuova ermeneutica, cioè una reinterpretazione di questi dati alla luce delle speranze terrene, aperte dalla esperienza della liberazione, anzi, nelle sue forme più originali vuole essere una ermeneutica di queste stesse speranze e di questa esperienza alla luce della parola di Dio.
    Da tempo infatti i cristiani impegnati nell'esperienza della liberazione e della prassi storica tesa alla creazione di un futuro più umano avvertivano:
    * Da una parte una certa intima rispondenza e continuità tra le loro lotte, ansie, aspirazioni e speranze intramondane e la loro esperienza di fede, le loro speranze escatologiche.
    * Dall'altra l'impossibilità di dare espressione a questa intima rispondenza a causa del linguaggio statico e astorico della teologia tradizionale.
    * Di qui un penoso senso di tensione e di frattura nella loro coscienza.
    Da quando con l'illuminismo, e più ancora poi col marxismo, si è cominciato a sperimentare il mondo come storia, aperta al futuro, il presente come luogo della alienazione e della privazione di umanità, il futuro come attesa «patria dell'identità» dell'uomo con le sue aspirazioni e con la sua vocazione umana, la prassi storica trasformatrice e liberatrice come compito e responsabilità fondamentale dell'uomo, una nuova marea di speranze ha cominciato a sollevare il mondo; speranze rigorosamente intramondane, messianismi terreni, tesi alla trasformazione di «questa valle di lacrime» in una patria dell'uomo, e alla creazione di un uomo nuovo riconciliato con se stesso, con gli altri e col mondo e quindi libero e felice.
    Secoli di teologia unilateralmente spiritualista e metafisica, una concezione dell'escatologia che si contrapponeva alla storia, che toglieva ogni rilevanza e valore a ciò che non era eterno, una spiritualità di tipo monacale, impostata sulla «fuga del mondo», avevano preparato un cristiano incapace di assumere questa rivoluzione del pensiero e della vita.
    La speranza cristiana sembrava ostile e impermeabile alle speranze terrene. Naturalmente i cristiani non poterono restare davvero estranei del tutto a queste speranze e tanto meno portarsi avanti una loro «storia parallela», estranea alla storia del mondo.
    Ma nella misura in cui, inserendosi nel processo di liberazione, essi fecero proprie le ansie e le speranze dei loro fratelli non credenti ma impegnati nella liberazione umana intramondana, sperimentarono in se stessi una particolare profonda frattura della personalità, quella che potremmo chiamare una «coscienza divisa».
    Era l'incapacità di allineare le due prospettive troppo divergenti, di mettere ugualmente e contemporaneamente a fuoco l'oggetto terreno e quello celeste delle loro speranze, il futuro storico e quello escatologico.
    Se, in piena lealtà con la loro fede escatologica, speravano davvero il cielo, riusciva loro difficile giustificare le preoccupazioni per la terra. Ma nella misura in cui cercavano di essere leali cittadini della città terrena, era il cielo che perdeva inevitabilmente di interesse.
    Le diverse forme di teologia delle realtà terrene e perfino le forme più radicali della teologia della secolarizzazione e della «morte di Dio», cercarono, in modo diverso, di comporre questo conflitto e di guarire la coscienza divisa dei cristiani impegnati nel mondo.
    La teologia della speranza ci si riprova, utilizzando la migliore eredità dei tentativi precedenti, inserendosi in una delle linee più significative e originali del messaggio ma anche aprendosi al dialogo con il linguaggio delle speranze terrene.

    Il linguaggio delle speranze umane

    Il linguaggio dei messianismi politici e delle speranze terrene con cui la teologia della speranza si è confrontata, è soprattutto quello di ispirazione marxista; non tanto però quello racchiuso nelle rigide strutture del dogmatismo ortodosso, quanto quello di quei pensatori che hanno posto, a volte eroicamente, la spinta critica e liberatrice del pensiero marxiano (si parla soprattutto del Marx giovane) contro la sua stessa cristallizzazione ideologica, giustificatrice del potere.
    Sono stati Havemann, Garaudy, Kolakowski, Lombardo-Radice, Marcuse, Adorno i termini di confronto per quel ripensamento della fede che è sfociato nella teologia della speranza.
    Ma l'ispiratore più diretto e immediato è stato indubbiamente Bloch. Il suo «Principio Speranza» ha fornito al Moltmann e al Pannenberg, gli iniziatori protestanti della teologia della speranza, e in seguito a tutti i loro prosecutori, le categorie espressive e i quadri di pensiero per la loro riflessione.
    La teologia della speranza ha avuto una particolare fioritura nell'America Latina, dove l'impegno dei cristiani (o di alcuni gruppi di cristiani) in un processo tuttora apertissimo di liberazione con particolari caratteristiche di globalità e di conflittualità, ha dato alla riflessione teologica sulla liberazione e sulla speranza (ricordiamo per tutti il cattolico Gutierrez e il protestante Alves) pur in una certa unilateralità e provvisorietà, un aspetto di originalità e di aderenza al vissuto che la teologia europea, più decantata ed accademica, non ha saputo avere.
    Il punto di partenza della teologia della speranza è una riconsiderazione del dato biblico alla luce di queste categorie conoscitive, di questi segni dei tempi, offerti alla nostra sensibilità cristiana dalla cultura contemporanea, per dare, nel nuovo linguaggio delle speranze umane, una nuova ermeneutica della Parola di Dio che sia insieme più fedele a Dio e più fedele all'uomo.

    LA TEOLOGIA DELLA SPERANZA COME CHIAVE INTERPRETATIVA DELLA TEOLOGIA

    Salvezza e promessa nell'A.T.

    Il punto di partenza di ogni teologia della speranza è quindi una riconsiderazione del ruolo della promessa di Dio e della speranza nella storia della salvezza.
    Il Dio della bibbia non si rivolge agli uomini con le forme della epifania dell'eterno presente, tipiche ad esempio della religiosità greca, ma attraverso la forma della promessa, che, svegliando nel popolo la coscienza della sua schiavitù, suscita in lui l'inquietudine del presente e la tensione verso un futuro di libertà.
    Poiché il contenuto della promessa, al di là delle singole formulazioni, è inesauribile come il Dio che in essa si rivela, i singoli successivi adempimenti parziali non chiudono l'apertura della speranza verso il futuro, anzi obbligano a una re-interpretazione e a una ricomprensione della promessa che allarga progressivamente gli orizzonti della speranza.
    L'attesa messianica, a sua volta progressivamente aperta a una crescente ricchezza di contenuti concreti, rappresenta lo sbocco ultimo di questa attesa che avrà in Cristo il suo adempimento definitivo.
    La piena autorivelazione di Dio, una nuova e definitiva alleanza che renda stabile e totale la comunione con Dio da parte del popolo e quindi la piena salvezza dell'uomo in una convivenza universale riconciliata e giusta, si configurano gradualmente come l'oggetto concreto e più vero delle speranze messianiche.
    La storia della salvezza si viene così a concretare come una serie di eventi, costituenti un unico processo di autodonazione di Dio e di salvezza dell'uomo, in forza della promessa e della fedeltà di Dio che collega tutti questi eventi come in un'unica realtà vivente, aperta verso il futuro di Dio.

    Il già e il non-ancora di Cristo

    La venuta di Cristo rappresenta l'Amen, cioè il «sì» definitivo di Dio agli uomini.
    In Cristo, immagine del Dio invisibile, Figlio consostanziale del Padre, ma insieme nostro fratello nell'umanità, gli ultimi tempi sono inaugurati, il Regno di Dio è presente tra gli uomini.
    Con la morte di Cristo, la morte dell'uomo e la stessa misteriosa realtà del peccato, radice ultima di ogni alienazione umana, è definitivamente vinta. Nella risurrezione di Cristo, è anticipato il destino dell'uomo come futuro di libertà e di vita eterna.
    Nel sangue di Cristo è stipulata la Nuova Alleanza ed è offerta a tutti gli uomini la possibilità di accedere a Dio in confidenza filiale e di vivere in intimità di amore con Lui.
    Ma anche il mistero di Cristo ha ancora un suo futuro.
    Il regno è presente nei segni che lo anticipano e lo annunciano, non nella pienezza che lo esaurisce.
    Anche Cristo è insieme adempimento e promessa.
    Il tempo dell'attesa e della speranza non è ancora finito con la sua venuta, ma la presenza del suo appello decisivo e irrevocabile fa di questo tempo un tempo di responsabilità irreversibili.
    Le promesse di Dio si attuano attraverso la libera risposta dell'uomo resa possibile in Cristo, che vincendo il peccato e la sua legge, ha liberato la libertà morale dell'uomo.
    La prima generazione cristiana attendeva con ansioso desiderio questa pienezza che essa presagiva imminente.
    Questa pienezza era pensata, sulla scorta delle parole stesse di Cristo, come:
    * ritorno glorioso del Risorto,
    * fine della storia e giudizio su ogni carne per vincere e sconfessare definitivamente le forze dell'ingiustizia e della schiavitù,
    * risurrezione dalla morte e inizio per gli eletti della vita eterna,
    * rinnovamento radicale del mondo con la creazione di cieli nuovi e terra nuova in cui abiteranno la giustizia e la pace delle promesse messianiche.

    La speranza come chiave di volta della teologia

    La vita cristiana è quindi essenzialmente una vita nella speranza. La speranza impronta di sé tutto il rapporto del credente con Dio e quindi anche il suo rapporto al mondo e agli altri in quanto vissuto nell'orizzonte teologale.
    Credere al Dio della promessa vuol dire contare incrollabilmente sulla sua fedeltà e muoversi coraggiosamente nella direzione del suo futuro. Colui che conta su Dio, vive il suo impegno nel mondo come fiducioso e audace abbandono di sé all'amore dei fratelli, sperando con loro e per loro il rinnovamento del mondo nella giustizia del regno.
    La dimensione «speranza» è così coestesa a tutto il sentire e l'agire cristiano.
    È proprio questa consapevolezza che ha portato i teologi della speranza a fare di essa, più che un settore specifico della teologia accanto ad altri settori, il principio architettonico, la chiave di volta di tutta la riflessione teologica.
    Significativa a questo proposito è la ripresentazione del concetto di trascendenza e quindi della immagine del divino, nelle categorie del futuro. Il concetto di trascendenza è strettamente correlato con quello di immanenza, cioè con la realtà sperimentata come limite trasceso o da trascendere.
    Nelle categorie della filosofia classica, la trascendenza è legata all'idea di meta-fisica; trascendente è ciò che è al di sopra e al di là della natura, l'infinito che avvolge e supera il finito, l'eterno che si stacca dalla finitezza del tempo col suo infinito presente.
    L'antropocentrismo dell'età moderna ha portato alla riduzione della trascendenza alla «coscienza trascendentale» della soggettività che si stacca dalla opacità dell'oggetto e la trascende cogliendosi come autocoscienza.
    Si noti come all'una e all'altra forma di trascendenza rispondono diverse concezioni della politica e dell'autorità.
    Alla politica come «buon governo» e all'autorità come legittimazione sacrale del potere monarchico si oppone la politica come «partecipazione» e l'autorità come espressione del consenso popolare.
    Oggi, accogliendo le suggestioni del linguaggio delle speranze umane, la trascendenza invece che relativa ai limiti dello spazio o della oggettività, è pensata come relativa al tempo. Il presente con le sue miserie e le sue schiavitù è il limite da superare. Il futuro, sperato nella sua radicale novità, è la trascendenza.
    Non un qualunque futuro è pensabile come trascendente, ma solo quel futuro che non è ancora incluso nelle possibilità e nella logica immanente del presente: un futuro che può venire solo da una libertà che, libera dai determinismi della storia, si schiera a favore della libertà nella storia: un futuro insomma che può venire solo da Dio, perché si identifica con Dio, futuro assoluto dell'uomo.
    Dio non è più il «totalmente altro», ma il «totalmente nuovo».
    Anche a questa ultima concezione della trascendenza risponde un modo caratteristico di concepire la politica e l'autorità: la politica è l'ingegneria del futuro e l'autorità è la forza del futuro che agisce sul presente trasformandolo sulla sua immagine.
    È interessante notare oggi come anche i poteri politici intramondani facciano sempre più appello, per la loro legittimazione, alle promesse di un futuro radicalmente nuovo: anch'essi traggono la loro forza dalla trascendenza del futuro.
    Fare di Dio la forza del futuro vuol dire accettare che ci sia in Dio qualcosa che ancora non è pienamente realizzato: il suo progetto di salvezza che si realizza nel tempo ed ha un suo «non-ancora» lega Dio alla storia dell'uomo, lo fa pienamente incarnato nel suo divenire.
    D'altra parte è necessario ammettere che Dio non può condurre l'umanità al suo futuro, se non nella misura in cui, già pienamente se stesso al di fuori del tempo, fa della storia il luogo della sua progressiva autodonazione all'uomo.

    Etica cristiana, peccato e grazia alla luce della speranza

    Alla luce della speranza, va ricompreso il significato autentico dell'etica cristiana.
    Essa appare totalmente contrassegnata dalla tensione verso il futuro quindi dalla progettualità e dalla creatività.
    La fede in Cristo, come superamento della soggezione alienante a una legge che predetermina totalmente l'esistenza, è conquista di libertà istanza di creatività, responsabilità e coerenza con se stessi e con il proprio progetto fondamentale di vita.
    L'etica cristiana impegna alla negazione della negatività del presente al superamento delle chiusure che esso pone alla creatività morale, alla lotta contro tutte le forze che cercano di perpetuare ogni forma di schiavitù morale e un presente troppo distante dalla giustizia del regno. L'impegno morale vissuto nella fede è disponibilità continua alla chiamata di Dio che impone di lasciare la terra delle sicurezze raggiunte e di incamminarsi verso la terra di una libertà sempre sconosciuta e sempre davanti a noi.
    Il cristiano, alla luce della fede, sa che questa stessa tensione verso la libertà, affonda le sue radici nella libertà dell'amore preveniente di Dio, creatore della stessa creatività umana, possibilità radicale di ogni apertura dell'uomo a un futuro di libertà e di giustizia.
    Al di fuori della Grazia di Dio offerta all'uomo in Cristo, l'uomo è infatti schiavo di quella negazione radicale di ogni libertà e creatività che è il peccato.
    In quanto rifiuto e separazione dall'amore liberante di Dio, il peccato è impotenza totale di aprirsi a un futuro diverso, è incapacità di essere progettatori e creatori di sé nel dinamismo dell'amore.
    Se ogni virtù è in ultima analisi speranza, ogni peccato è in un certo senso disperazione.
    Sia esso l'orgoglio di chi afferma l'idolatria del proprio io nella pretesa di costruire il futuro in termini di immanenza, oppure la rassegnazione implicita nel rifiuto di chi preferisce il chiuso e conosciuto tepore della schiavitù al rischio della libertà... c'è sempre nel peccato una carica di disperazione, l'incapacità di far proprio il futuro promesso da Dio, la rinuncia a diventare se stessi nella coerenza con la propria vocazione fondamentale ad essere se stessi nel dono di sé per amore; in una parola assenza di speranza.
    Questo permette di comprendere meglio la misteriosa connessione esistente tra la morte e il peccato, compresa in passato con le categorie mitiche del racconto della caduta o con quelle giuridiche del «maledictum legis». La morte è nell'uomo il segno e il vertice delle forze che fanno dell'uomo peccatore, un essere chiuso nel suo egoismo, schiavo della paura di perdere se stesso nel dono dell'amore, disperatamente teso a trattenere il presente, rifiuto di abbandonarsi alla politica liberatrice dell'amore di Dio. Nel suo mistero pasquale, offrendosi per noi a una morte, sperimentata come estrema coerenza dell'amore e vincendo per noi la morte nella risurrezione, Cristo libera il credente dalla paura di morire e lo rende disponibile all'amore, capace di dare la vita per i fratelli, nella speranza di partecipare con essi al destino di risurrezione toccato a Cristo.

    La missione della chiesa come segno di speranza

    La missione della Chiesa nel mondo ha senso come proclamazione, come segno vivente, espressivo ed efficace, come anticipazione e preparazione nel presente del futuro di Dio.
    Essa non è «tutto il Regno», non ha in sé la pienezza della giustizia e della libertà del Regno, ma è il luogo concreto privilegiato della politica liberatrice con cui Dio viene preparando il suo Regno.
    Nel «depositum fidei», essa reca con sé una «memoria sovversiva», operante come critica liberatrice: ricordando l'evento di Cristo essa ne attualizza la forza di salvezza e ne rinnova la vittoria contro «le potenze reggitrici di questo mondo di tenebre» che detengono prigioniero del presente il futuro dischiuso da Cristo.
    Se, in forza della «riserva escatologica», la fede relativizza ogni presente e dichiara provvisoria, parziale e superabile ogni realizzazione storica dell'uomo, ogni concreta attuazione di giustizia e di comunione tra gli uomini, la chiesa, come comunità di fede deve essere l'istituzionalizzazione della critica escatologica, la denuncia profetica di ogni presente inumano e di ogni pretesa ideologica di onnicomprensiva ed univoca determinazione e pianificazione della realtà umana (Metz).
    La chiesa naturalmente non potrà essere se stessa nella fedeltà a questa sua responsabilità storica di critica liberatrice, se essa stessa non programma, pur nella continuità degli elementi essenziali dell'istituzione divina, il suo incessante rinnovamento interno, strutturandosi come alternativa alla logica di potere e di conservazione propria delle potenze del mondo.
    La vera struttura della Chiesa deve essere la sua condizione permanente di esodo dal presente e di pellegrinaggio verso il futuro.
    La «fuga mundi», cara a una certa spiritualità del passato, può ritrovare un suo senso e una sua validità, non come fuga al di fuori del mondo, in un impossibile spazio di neutralità storica, ma come fuga in avanti verso l'utopia di Dio.
    Proprio perché ogni neutralità nei confronti della storia è impossibile, la Chiesa è chiamata a prendervi posto accanto ai destinatari privilegiati delle promesse di Dio: i poveri, i perseguitati, gli oppressi. Essa deve vivere la sua povertà come solidarietà con i poveri, cui è promesso il Regno, come rottura di ogni complicità anche solo occulta, di ogni tacito appoggio alle potenze della conservazione e della ingiustizia.

    L'INTERROGATIVO DI SEMPRE: ESCATOLOGIA O STORIA?

    Incarnazione e storia

    La teologia della speranza verrebbe meno al suo assunto principale se, al di là di questa revisione di tutta la teologia, non affrontasse direttamente il problema dell'alternativa «storia-escatologia» che ha diviso e divide dolorosamente la coscienza cristiana.
    Premessa alla soluzione di questo problema è la considerazione del nesso essenziale e indissolubile che unisce l'uomo alla storia.
    L'uomo non è se non nella misura in cui si fa, in dialogo con il mondo della natura e il mondo degli altri: questo farsi in dialogo costituisce la storia.
    L'uomo e l'umanità non sono concretamente separabili dalla loro storia; privi di essa si ridurrebbero a un involucro mentale vuoto di ogni senso e ricchezza esistenziale.
    Al di fuori della storia l'uomo non esiste, non può essere né giudicato né amato né salvato. Il suo stesso rapporto con Dio non ha altro luogo in cui farsi concreto che la storia. Le responsabilità dell'uomo verso il mondo, gli altri, la storia sono l'incarnazione concreta delle sue responsabilità verso Dio.
    Il dialogo con Dio è quindi il senso supremo della storia dell'uomo nel mondo.
    Con la sua Incarnazione il Verbo eterno del Padre entra nella storia dell'uomo, si fa ad essa pienamente solidale, la assume in sé e la fa storia dell'autodonazione di Dio all'uomo.
    Da Lui, in Lui e per Lui, ogni cosa creata ha senso e consistenza. Egli è l'Uomo perfetto e quindi il centro della storia: la storia umana diventa il luogo della signoria salvifica di Cristo.
    L'uomo non è salvato che nella storia e con la storia, attraverso la signoria di Cristo sulla storia e su tutto il cosmo in quanto cosmo dell'uomo.

    Destino escatologico della storia

    Il modo concreto della salvezza della storia è la sua escatologizzazione. Nel mistero pasquale di Cristo, la storia riceve il suo senso e la determinazione del suo destino; essa è così una storia segnata dalla croce, dove l'amore che si fa dono è soggetto al tributo della morte; ma diventa anche una storia in cammino verso la risurrezione, cioè verso il ricupero radicale e totale dei singoli uomini e in essi di ogni autentico valore umano realizzato nella storia e che il tempo in questo mondo travolge e lascia dietro di sé.
    Questo ricupero è il fine della storia e ne sarà anche il termine. In esso avrà piena attuazione il Regno di Dio che, anticipato nel Cristo, si viene nascostamente facendo nel corso della storia stessa.
    Questo significa che il farsi dell'uomo nel mondo e nella storia, pur non identificandosi del tutto col Regno di Dio che lo trascende e gli dà efficacia di salvezza, è la preparazione di questo Regno e, trasfigurato, ne sarà la materia.
    I valori che realizzano l'uomo e una convivenza umana liberata non solo sono segni e anticipazioni del Regno, ma, purificati dalle loro inevitabili ambiguità, illuminati e trasfigurati, faranno parte di esso (GS 39).
    In forza dell'inclusione dell'uomo e della sua storia in Cristo e nel mistero pasquale, la storia profana e la storia della salvezza non sono realtà estranee, la loro crescita non è il tracciato di due parallele che non si incontrano ai: esse crescono assieme in un complesso rapporto di interdipendenza.
    Il Regno di Dio è il senso e il destino della storia: un senso e un destino che la trascende mentre l'assume e la salva. La salvezza della storia non si identifica riduttivamente con nessuno dei suoi valori e delle sue realizzazioni, ma solo perché essa è la trasfigurazione di tutti questi valori e queste realizzazioni.

    Le responsabilità del credente nei confronti della storia

    Questo permette di valutare tutte le responsabilità del credente nei confronti della storia: ciò che non sarà stato seminato in essa, non potrà essere assunto dal Cristo nel suo Regno.
    La responsabilità verso la storia non è diminuita ma radicalizzata dalla sua escatologizzazione.
    Ciò non significa tuttavia che l'incombenza del Regno sulla storia alteri l'autonomia interna dei valori umani che in essa si realizzano. Assumendo la realtà umana in Cristo, Dio non solo non ne altera l'interna funzionalità ma la accetta e ne libera la più autentica realtà.
    Il futuro storico intramondano, pur tutt'altro che irrilevante per la fede, non è deducibile dalla fede né pianificabile o normabile in forza di essa. La fede è anzi contestazione positiva di ogni pretesa di pianificazione totale del futuro, che prolungherebbe su di esso il potere manipolante del presente.
    Come «docta ignorantia futuri», e in forza della sua attesa di un futuro assoluto di libertà, in forza del quale ogni presente è dichiarato relativo, la speranza cristiana si fa rifiuto coerente di ogni chiusura del futuro alla novità radicale, all'imprevisto e all'inedito che vi sollevano continuamente la libertà umana e lo Spirito che rinnova la faccia della terra.
    Accettando la dialettica della contemporanea necessità ma anche ambiguità e insufficienza delle ideologie che pianificano e predeterminano futuri parziali, e rifacendosi a una classica contrapposizione del Mannheim (Ideologia e Utopia, Il Mulino), potremmo dire che la speranza cristiana è la difesa dell'utopia contro la sempre rinascente tentazione delle ideologie di farsi assolute, totalitarie, chiuse al nuovo e al diverso.

    La dimensione politica delle responsabilità storiche

    È evidente che parlare di responsabilità della fede nei confronti della storia è parlare in concreto delle responsabilità politiche del credente. Non approfondiamo il tema, già ampiamente trattato dalla rivista. Ma è indubbio che il discorso sulla speranza cristiana, è inseparabile dal discorso su queste responsabilità politiche.
    La dimensione politica ha sempre avuto, a dire il vero, una sua rilevanza in teologia, ma sempre dall'angolatura morale: non è stato sempre ugualmente compreso il suo rapporto con il Regno e l'attesa escatologica del Regno.
    In realtà la dimensione politica è una componente essenziale delle promesse anticotestamentarie e della speranza messianica accesa da queste promesse.
    Cristo invera dialetticamente queste speranze, rifiutando di sacralizzare direttamente qualsiasi tipo di politica concreta, ma annunciando anche un Regno, cioè una convivenza fondata sulla giustizia e sulla pace messianica, Regno che giudica e dichiara sempre relativa, insufficiente e superabile, ogni realizzazione politica storica.
    Senza politicizzare direttamente la promessa, il cristiano non può farsi annunciatore di questo Regno e facitore della sua pace, senza affrontare il rischio di scelte politiche precise anche se contingenti, sia pure mediate da un dialogo leale e aperto con la comunità di fede, soprattutto locale. Egli non può evitare di assumersi fino in fondo le sue responsabilità, assumendo il rischio del relativo e anche dell'erroneo.
    Le sue scelte infatti non saranno univocamente deducibili dalla promessa pur essendo nei confronti di essa significative e rilevanti nella misura in cui la giustizia e la fraternità, oggettivate nelle strutture della città terrena sono segno, anticipo e materia del Regno.

    SPERANZE UMANE E SPERANZA CRISTIANA

    Il volto della speranza

    Giunti a questo punto possiamo delineare ormai la fisionomia morale della speranza cristiana.
    Radicata nella fede, essa si protende verso il futuro promesso, facendo di questo futuro l'orizzonte ultimo e il senso supremo della vita.
    L'attesa di questo futuro assoluto, che trascende assolutamente ogni immagine e sorprende incessantemente ogni aspettativa umana, rende la speranza sempre pronta ad abbandonare le comode certezze del presente dove trova rifugio l'amore di sé, sempre disponibile al nuovo, all'inatteso, all'appello di Dio che viene ogni giorno a sconvolgere i piani dell'uomo. Attesa attiva di una realtà che non viene a noi senza di noi, la speranza è impegnata senza riserve nella realizzazione della giustizia e della pace del Regno, non solo nelle dimensioni individuali e interiori della vita ma anche in quelle storiche, sociali e pubbliche.
    In forza della riserva escatologica e sospinta dall'amore fattivo dei fratelli, la speranza si fa contestazione, rifiuto, lotta contro le «potenze di questo mondo di tenebre», che detengono prigioniera delle strutture alienanti di un mondo in cui regna il peccato, la giustizia del Regno, presente nel mondo come «signum cui contradicetur».
    Per questo la speranza si attende ostilità e persecuzione da parte del mondo, come il Cristo stesso ha preannunciato.
    Abbandonandosi alle risorse dell'amore, trova in esso un coraggio che la fa più forte della morte e diventa, nelle tribolazioni del presente il virile coraggio della sopportazione, cui è promessa la vittoria.
    Morendo ogni giorno con Cristo alle forze di peccato del presente, continuamente sperimenta in sé la forza del Risorto che la fa rinascere al futuro per vivere in «novità di vita».
    Nell'umile consapevolezza che ogni suo potere le viene dall'amore preveniente di Dio, affida totalmente a Lui il suo destino ultimo e lotta nel presente per un futuro più umano in questo mondo che sa affidato alle sue responsabilità.

    Alternative o integrazione?

    Quanto al suo rapporto con le speranze umane, esso potrebbe essere descritto in tre momenti dialetticamente distinti e compresenti:
    - Un primo momento di rottura: la demitizzazione dei falsi assoluti degli idoli storici, attraverso la riserva escatologica e la critica liberatrice che a questa riserva si ispira.
    - Un secondo momento di assunzione: le speranze umane sono fatte proprie dalla speranza cristiana come mediazioni del Regno, come alimento di quell'impegno nei confronti della storia i cui frutti diventeranno materia del Regno di Dio.
    - Un terzo momento di trascendenza: assumendo le speranze umane essa le lancia al di là di quanto esse possano mai sperare, e dà alle loro attese l'unico fondamento che le può rendere tutte pienamente possibili: la Risurrezione di Cristo che sola garantisce la salvezza definitiva degli individui e delle unità storiche, anche di quelle che la storia vota alla sconfitta. Essa sola può dare un significato e un esito di salvezza al sacrificio totale dell'individuo per un futuro storico che non lo toccherà.
    Essa sola rende possibile l'utopia di Dio: la ricapitolazione in Cristo di tutto ciò che di umanamente valido, vero e buono, sarà stato vissuto e sofferto nella storia dell'uomo.


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