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    Le dieci stanze del rito cristiano /8. La stanza della «frazione del pane»


     

    Alla riscoperta del senso della messa

    Carmine Di Sante

    (NPG 2001-09-4)

     

    Introduzione
    La stanza della Parola
    La stanza della risposta
    La stanza della preghiera
    La stanza della lode
    La stanza dell'anamnesi
    La stanza del sacrificio
    La stanza della comunione
    La stanza della «frazione del pane»
    La stanza della testimonianza
    La stanza del «Fiat voluntas tua»  


    LA STANZA DELLA «FRAZIONE DEL PANE»

    La comunione con il Cristo, facendo un solo corpo con il suo corpo, si presta a un equivoco che è subito necessario dissipare: che possa essere intesa in senso mistico-fusionale dove ci si perde, l’uno nell’altro, come due innamorati per i quali scompare il mondo esterno e ci si chiude nell’incanto della felicità reciproca. In realtà la comunione con il Cristo che il rito cristiano annuncia e realizza non ha nulla a che fare con un’interpretazione come questa, anche se essa si è spesso imposta nella tradizione cristiana per l’influenza dal pensiero greco che è pensiero identitario, dove l’amore – il tendere verso l’altro e il volerlo – è concepito sempre e solo come ricomposizione dell’unità perduta o ri-unione delle parti separate in cui si ricostituisce l’unione originaria.
    Per la bibbia l’amore – e la comunione che essa istituisce – non è l’amore di identità, dove l’io, amando l’altro, ama se stesso, ritrovandosi, compiendosi e realizzandosi, ma l’amore di alterità dove l’io, amando l’altro, è rimandato da questi ad uscire fuori da se stesso, a lasciare, come Abramo, la sua terra per non farvi più ritorno e ad amare l’altro in quanto altro, in quanto straniero, povero, orfano o nemico.
    È questa forma di amore come amore di alterità che, entrando in comunione con il Cristo e facendo un solo corpo con il suo corpo, la comunità cristiana è chiamata a instaurare: non compiacendosi e godendo della comunione con il Signore, ma facendola (mirabile espressione del «fare la comunione» di cui riscoprire il significato originario) dovunque ad imitazione del Signore, portandosi vicino a chi è lontano, dando da mangiare a chi ha fame, e rispondendo alla violenza con la non violenza.
    Nel suo piccolo e bellissimo libro L’uomo che cammina, in cui presenta i tratti inconfondibili di Gesù, Christian Bobin scrive: «Non parla per attirare su di sé un briciolo di amore. Quello che vuole non per sé lo vuole. Quello che vuole è che noi ci sopportiamo nel vivere insieme. Non dice: amatemi. Dice: amatevi. Un abisso tra queste due parole. Lui è da un lato dell’abisso e noi restiamo dall’altro. È forse l’unico uomo che abbia mai davvero parlato, spezzato i legami della parola e della seduzione, dell’amore e del lamento» (Edizioni Qiqajon, Magnano BI, 1998, p. 17; corsivo mio). È sufficiente questo breve testo per capire il senso profondo e sconvolgente del «fare la comunione», divenendo un solo corpo con il corpo del Signore: non perdersi in lui e bearsi della sua presenza ma condividerne il progetto che (con un bisticcio di parole che non è un gioco ma rivelazione di un di più di senso) è il progetto della condivisione: di un mondo dove ci si ami nella pace e nella fraternità.
    E con queste parole siamo già entrati nella ottava stanza del rito cristiano sul cui frontespizio sono incise le parole «frazione del pane» (dal latino frangere, spezzare), il gesto con il quale il padre di famiglia, nell’ebraismo, spezza il pane dividendolo con i commensali, che Gesù ripeté per l’ultima volta nella sua cena d’addio quando «prese il pane, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli», e che il sacerdote celebrante riproduce ritualmente prima di fare la comunione, spezzando l’ostia consacrata in due o più parti.
    Fare comunione con il Signore, divenendo un solo corpo con il suo corpo, vuol dire quindi condividere ciò che lui condivide: cioè il suo progetto che consiste nel capovolgere il mondo, liberandolo dalla violenza che lo aliena e che da eden di felicità ne fa inferno di incomunicabilità e di sofferenza. Progetto – questo – il più rivoluzionario che si possa immaginare, non retoricamente ma realmente e che, con un termine logorato dal tempo e dalle ambiguità che gli si sono sovrapposte, le scritture ebraico-cristiano chiamano redenzione.
    Il progetto di Gesù è un progetto di redenzione – cioè di trasformazione e di rivoluzione – che al regno dell’uomo, dominato dagli egoismi e dalla violenza, sostituisce il regno di Dio, la cui signoria è la signoria della giustizia e dell’amore fraterno.
    Entrare in comunione con il Signore e divenire, con lui, un solo corpo vuol dire condividere questo progetto di redenzione. Redenzione non dell’anima preoccupata della sua salvezza e tesa alla sua pace e alla sua beatitudine, fosse pure la beatitudine eterna (figura estrema di egoismo!), ma del soggetto incarnato che vive nel mondo; e non del soggetto che, nel mondo, vive chiuso in sé e per sé, dove l’altro gli passa accanto e gli rimane estraneo anche quando cammina con lui, ma del soggetto in relazione, il cui essere è di essere per l’altro e dove l’altro non è colui che gli sta accanto o colui che cammina con, bensì colui che, traccia dell’assoluto, con la nudità del suo volto o puro esserci, chiama l’io ad uscire dal suo io e, da io per sé, lo eleva all’altezza dell’io per l’altro, in una relazione d’amore che – altro dall’amore di desiderio – è amore di bontà, gratuità, disinteressamento; e non del soggetto che vive il suo essere per l’altro nell’aria rarefatta del dialogo, bensì del soggetto che, nell’andare incontro all’altro, ci va a mani piene, spezzando con lui il pane e colmandone i bisogni, in una relazione che è e può solo essere di fraternità e di giustizia.
    Il progetto che Gesù ha realizzato e al quale associa chi lo ama – i suoi discepoli, i suoi seguaci – è questo progetto di fraternità che, nella storia delle culture umane, rappresenta una radicale novità (non si dimentichi che, per la stessa Grecia, l’idea della fraternità è impensabile, essendo l’uomo pensato dentro l’ordine naturale, l’ordine della gerarchia e della forza) e così alta da essere, per i realisti di ieri e di oggi, un’utopia irrealizzabile.
    Diventare un «solo corpo» con il Cristo vuol dire, innanzitutto, ricostituire l’ordine della fraternità negata e minacciata non solo nell’ambito del politico che, come vuole Schmitt, ha bisogno dell’altro come nemico per costituirsi, ma soprattutto nell’ambito delle relazioni quotidiane e familiari, dove basta un nonnulla perché i vicini (vicini che condividono la stessa «casa», lo stesso «sangue», le stesse «idee», lo stesso «Dio», la stessa «fede») si scoprano irrimediabilmente lontani e estranei.
    In quanto corpo di Cristo, ricostituire l’ordine della fraternità vuol dire, per la comunità celebrante, ricostituire innanzitutto la relazione gratuita con cui ognuno si senta accolto gratuitamente, come Dio accoglie ciascuno ogni mattina, facendo sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, senza fare preferenze. Sempre Bobin scrive:
    «È pesantezza delle società mercantili – e tutte le società sono mercantili, tutte hanno qualcosa da vendere – concepire la gente come cose, distinguere le cose in base alla loro rarità, e gli uomini in base alla loro potenza.
    Lui [Gesù] ha quel cuore di bambino che nulla sa di distinzioni.
    Il virtuoso e la canaglia, il mendicante e il principe: a tutti si rivolge con la stessa voce solare, come se non ci fosse né virtuoso, né canaglia, né mendicante, né principe, ma solo, ogni volta, due esseri viventi faccia a faccia, e in mezzo ai due la parola, che va e che viene» (L’uomo che cammina, cit., p. 16).
    La fraternità, quella vera, non si istituisce sull’appartenenza ad uno spazio che si ha in comune (sangue, lingua, cultura, ideologia o religione), ma sul principio gratuità che, alla logica dello scambio e del do ut des, sostituisce la relazione faccia a faccia, dove si è accolti e amati non per ciò che si ha ma per ciò che si è, e dove il senso di ciò che si ha non è di averlo per sé ma di donarlo. Istitutrice di fraternità vera e non apparente, la relazione di gratuità non è negazione dell’avere, dell’economia e del mercato, ma rivelazione della loro destinazione che non è per l’io ma per l’altro, perché, come ama ripetere Lévinas, devo avere del pane per sfamare l’affamato e possedere una casa per ospitare lo straniero.
    È qui dove si coglie il senso profondo della comunione cristiana che, nella sua radice ultima, è, e può essere solo, «frazione del pane», cioè condivisione, secondo la testimonianza del libro degli Atti in cui, per la prima volta, si parla dello stile di vita delle prime comunità cristiane:
    «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione di Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia.
    Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35).
    In questo resoconto idealizzato delle prime comunità cristiane delle origini, ciò che sorprende è il legame costitutivo che viene istituito tra la comunione degli animi da una parte («La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola») e la messa in comune dei beni («ogni cosa era fra loro comune») dall’altra, e il significato profondo di quest’ultimo non è nel gesto generoso e filantropico di alcuni a favore degli altri (per quanto nobile, la filantropia è essa stessa figura dell’io narcisista e, lungi dal portare l’io fuori dal suo mondo, ve lo riconduce ostinatamente, senza volerlo), ma nella reinstaurazione del principio gratuità dove non c’è più il «proprio» (idion, nel testo greco, che è ciò che rientra nella sfera esclusiva dell’io) che porta a dire «è mio» («e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva»).
    Questo spazio del gratuito, dove è impossibile dire «è mio» e dove all’io non è più consentito di essere «idiota», nel senso etimologico di costituirsi in proprio, corrisponde, per la bibbia, allo spazio originario della creazione, dove, collocato nel giardino edenico, l’uomo era ospite di Dio che, ospitandolo, lo destinava ad essere, a sua volta, soggetto ospitante. La storia dell’«albero della vita», posto al centro del giardino, di cui l’uomo si appropria mangiandone il frutto, contraddicendo l’ordine di non farlo («Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete»: Gn 3,2), non è un racconto fantasioso e bizzarro, ma il disvelamento, in linguaggio narrativo, della situazione contraddittoria e perduta in cui l’uomo precipita nel momento in cui si appropria di ciò che gli è donato (la stessa contraddizione di chi, ospite di un amico, dicesse che è sua la mensa alla quale siede).
    Narrando delle prime comunità cristiane nel cui ambito nessuno diceva più: «è mio», la coscienza neotestamentaria esprime il convincimento che questa contraddizione è stata smascherata e così superata e che, in Gesù, è possibile tornare a vivere nel mondo come nel primo mattino della creazione e nel giardino dell’Eden, secondo la logica della gratuità recettiva, dove tutto è donato, e attiva, dove tutto si è chiamati a ridonare (rimando su questo tema al mio L’io ospitale, Edizioni Lavoro-Edizioni Esperienze, Roma 2001).
    Essere «il corpo di Cristo», per il rito cristiano, è essere questo spazio edenico che si riapre nella storia, che, da storia di alienazione e di violenza, torna ad essere possibile storia di fraternità.
    Possibile storia. Che – perché diventi realtà – dipende dal «corpo di Cristo». Cioè dai suoi seguaci.


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