Ruolo e insegnamento

della filosofia

Antonio Gargano


 

Che cos'è la filosofia?

Diogene Laerzio, uno scrittore del III secolo d.C., alle cui Vite dei filosofi attingiamo la maggior parte delle notizie sui primi pensatori greci, riporta in questa forma un aneddoto circa il primo filosofo, Talete: «Si narra che, tratto di casa da una vecchia per contemplare gli astri, cadde in un fosso, e la vecchia ai suoi gemiti disse: "Tu, o Talete, non sai vedere le cose che sono tra i piedi e credi di poter conoscere le cose celesti?». Questo breve racconto è estremamente significativo circa l’interpretazione che del filosofo e della filosofia dà il senso comune, l’opinione comune: il filosofo vive tra le nuvole (il commediografo Aristofane descriverà appunto Socrate, il filosofo per eccellenza, che vive in un «pensatoio» sospeso fra le nuvole), preso dalle sue astrazioni, lontano dal mondo reale e concreto. Il «buon senso» dileggia dunque la filosofia come quella disciplina inutile che «lascia il mondo tale e quale».
Per comprendere che cosa è «filosofia» è senz’altro utile cercare di capire da che cosa essa si distingue (tra l’altro uno dei compiti principali della filosofia è quello di cogliere l’«essenza» delle cose, cioè «ciò per cui le cose sono quello che sono» e si distinguono dalle altre). È dunque importante stabilire questa prima distinzione: fin dalle proprie origini la filosofia è stata percepita come distanza dal senso comune.
Mentre il senso comune, l’opinione, si ferma alla superficie della realtà, si accontenta di fermarsi a come essa appare ai sensi, si arresta dunque al fenomeno, la filosofia va oltre l’apparenza, trascende il dato, cioè quel che ci sta davanti, ponendosi alla ricerca di ciò che è al di sotto di ciò che appare, della sostanza.
La filosofia è dunque diversa dal senso comune e spesso è in polemica con questo. Filosofare non significa semplicemente pensare (il pensiero è un’attitudine generica dell’uomo, che pensa anche quando deve svolgere un’attività banale, come per esempio prendere un autobus). Ma in che cosa consisterà questo specifico tipo di pensiero che è il pensiero filosofico? Filosofare - dice Hegel, è un po’ come nuotare: non si può veramente imparare a nuotare se non ci si getta in acqua. Così non è possibile comprendere in che cosa consiste il filosofare prima di esercitare la filosofia. Anzi, dice Hegel, la filosofia non si può definire all’inizio: la sua definizione «è il risultato dell’intera indagine» filosofica stessa. Il ragionare è comunque senz’altro connaturato alla filosofia, ne è un carattere decisivo, carattere che la differenzia dalla religione, in cui predominano altre attitudini umane, quali fede e sentimento, o dall’arte che, pur non essendo una manifestazione arbitraria come molti oggi tendono a pensare, è pur sempre espressione di una capacità creativa, di una ispirazione, di una «divina mania», come disse Platone.
Tra filosofia, arte e religione c’è un elemento di affinità, si può dire infatti che esse hanno lo stesso contenuto, mirano allo stesso oggetto: la Verità, l’Universale, il Divino, il Sostanziale, la Totalità. L’arte però coglie l’universale sotto la forma di immagine sensibile, come insieme di colori, di note, di versi, etc. La religione coglie l’universale sotto la forma di rappresentazione, anch’essa in qualche modo legata al sensibile (le leggende, le narrazioni, le parabole, etc.). La filosofia coglie invece l’universale nella forma del ragionamento, si sforza cioè di cogliere la sostanza della realtà quale essa è, e la sostanza (appunto ciò che sta al di sotto delle apparenze) è il logos una ragione presente nelle cose.
Questa è la grande scoperta della civiltà greca, base della filosofia, della scienza e della civiltà moderne: al di sotto dell’apparente molteplicità dei fenomeni, al di sotto dell’apparente disordine delle manifestazioni della natura, c’è invece un profondo ordine, c’è una rigorosa logica, e la mente umana è perfettamente in grado di riconoscere e di capire quest’ordine, questa logica: c’è un’intima affinità fra la logica delle cose e la logica della mente umana.
La vera alba dell’umanità, dell’Uomo come noi lo intendiamo, consapevole cioè del mondo e di se stesso, spuntò dunque in Grecia. Le altre civiltà, il mondo orientale, erano vissute nel torpore del mito, si erano sottomesse alla natura considerandola imperscrutabile, misteriosa, mossa da forze occulte e sovrannaturali, minacciose per l’uomo, posto in loro balìa. Questa visione del mondo è ben riflessa dall’arte orientale che ama le dimensioni sovrumane, le raffigurazioni di animali e di divinità potenti e terribili. L’arte greca invece, con la centralità della figura umana, colta nella sua armonia, con perfetto senso delle proporzioni, testimonia della centralità e della potenza dell’uomo nella mentalità greca, che raffigura gli stessi dèi con figura umana e proporzioni umane. Emblema della mentalità mitica è la Sfinge, che sovrasta l’uomo con la sua enigmaticità. Ma, secondo la leggenda, un uomo greco, Edipo, risolve l’enigma della sfinge e la precipita nell’abisso: il logos sconfigge il mito, l’uomo si accinge alla comprensione della realtà e della propria posizione nella realtà. La filosofia è la scienza universale dei principi delle singole scienze (la definizione è di Hegel), nel senso che, lungi dall’opporsi alle scienze, vuole anzi fondarle, dare cioè loro fondamenti logici, metodologici, concettuali rigorosi. Le scienze partono infatti sempre da determinati presupposti, che danno per scontati, e che vanno invece anch’essi passati al vaglio della critica razionale, come fa la filosofia (o, meglio, come dovrebbe fare: assistiamo infatti nella nostra epoca a una grave crisi del pensiero filosofico). È in sede filosofica che vengono discusse, categorie (come per esempio la categoria di casualità) di uso comune nelle scienze, è la filosofia che analizza la validità dei metodi usati nelle scienze, etc. Anche la più rigorosa fra le scienze, la matematica, per esempio parte sempre da alcuni presupposti (assiomi) che essa stessa non può provare. Su quali fondamenti sussistono questi assiomi? La risposta non viene data nell’ambito della matematica. Un limite delle scienze particolari è che in esse si parte da princìpi non dimostrati, la filosofia si pone invece come scienza dei princìpi delle scienze singole.
Un’ulteriore differenza fra scienza e filosofia sta nel distacco fra lo scienziato e il suo oggetto e nel coinvolgimento invece del filosofo nell’oggetto stesso delle sue indagini. Non si tratta, ovviamente, del coinvolgimento emotivo: un astronomo, uno zoologo o anche un matematico possono senz’altro essere emotivamente partecipi delle loro ricerche, prenderne a cuore i risultati, sentirsi impegnati con tutta la loro persona nella ricerca, ma dal punto di vista conoscitivo ciò che indagano è altro da loro stessi (corpi celesti, animali, figure geometriche, etc.). Anche il biologo o lo psicologo, che si occupano dell’uomo, si occupano di un uomo oggettivato, «altro» da loro stessi, «altro» dal soggetto osservante. Nella ricerca filosofica invece c’è una profonda compenetrazione di soggetto e oggetto, né potrebbe essere diversamente, vista l’aspirazione della filosofia alla totalità, cui si è accennato.
Questo carattere della filosofia è implicito nel termine stesso che la designa. Il termine «filosofia» infatti, è composto da fileo (amo) e sofia (sapienza), etimologicamente quindi sta a significare «amore della sapienza». Le due componenti del termine includono uno, «sapienza», l’oggetto cui si tende, l’altro, «amore», la tensione del soggetto. Le implicazioni che ne scaturiscono sono mirabilmente analizzate da Platone nel suo dialogo Simposio (o Convito): la filosofia è connessa con l’amore, amore scaturisce, secondo il mito greco, da Eros, Eros è figlio di πevía, penìa, la povertà (da cui l’italiano penuria) e pópos, il guadagno, la ricchezza. L’atteggiamento filosofico, cioè l’amore per la sapienza, scaturisce dunque da un avere e da un non avere contemporaneamente: se si fosse ricchi della sapienza, se si possedesse già la sapienza, si sarebbe semplicemente "saggi" e non "filosofi". Essere filosofi implica dunque mancare della sapienza (e averne desiderio), essere ignoranti. Ma insieme l’essere filosofo implica l’avere già un qualche sapere, possedere già una certa conoscenza di quello che si cerca (altrimenti non si cercherebbe neppure), implica avere un sentore o una nostalgia (per dirla con un termine romantico) della verità: l’animale, il bruto, che si trova in una situazione di assoluta ignoranza, neppure cerca la sapienza.
La condizione del filosofo, a metà strada fra ignoranza e sapienza, implica un essere sempre in cammino e diventa emblematica della stessa condizione dell’uomo, che non è né un Dio onnisciente, né un bruto assolutamente inconsapevole. Il filosofo, l’uomo, è un essere in cammino, è un essere perfettibile.
La filosofia rimane sempre «amore del sapere»: si avvicina al suo oggetto, la Verità, ma non la coglie mai pienamente, né potrebbe essere altrimenti. Dal punto di vista ontologico il cogliere pienamente l’oggetto sarebbe possibile diventando l’oggetto stesso, sciogliendosi, per così dire, come soggetto. Ma il soggetto ricercante, il filosofo, rimane tale, non si annienta nell’oggetto, ne resta quindi sempre a una certa distanza, non lo raggiunge mai pienamente, non raggiunge mai pienamente la Verità.
La ricerca filosofica è quindi inesauribile, e comunque mai paga dei risultati raggiunti. Questo non implica però il ricadere nell’ignoranza, nello scetticismo, bensì uno sforzo continuo di appropriarsi della verità. La filosofia implica quindi una ricerca inesauribile delle strutture più profonde della realtà (= oggetto), come del posto che la nostra umana esistenza occupa in essa e quindi dei compiti che l’uomo (= soggetto) è chiamato ad assolvere. Questa compresenza di soggetto e oggetto nella ricerca filosofica non deve però portare a ritenere (come fa l’opinione comune in disprezzo del rigore della filosofia) che la ricerca filosofica sia qualcosa di soggettivo nel senso di arbitrario (è oggi frequente l’errore di considerare soggettivo = individuale = arbitrario). Si tende oggi a confondere la filosofia con la Weltanschauung, con la visione del mondo.
La filosofia, come si è detto all’inizio, si distingue dall’opinione. La filosofia, in quanto tensione verso l’oggettivo, è ben diversa dalla «visione del mondo» soggettiva, che ognuno si fabbrica, per così dire, da sé. «Se si prende la filosofia sul serio - ha affermato in un suo corso di lezioni del 1962 all’Università di Francoforte il filosofo tedesco Theodor Adorno - il compito della cultura filosofica deve consistere nella liberazione, attraverso lo stesso lavoro filosofico, da questa idea che uno possa scegliere la sua Weltanschauung adottando quella che più gli si attaglia - idea in cui è già implicitamente presente quella di una mancanza di necessità e rigore onde la filosofia viene privata della sua pretesa di verità [...]. Direi che la filosofia ha il compito di liquidare l’opinione, e cioè di andare al di là di tutte le convinzioni che uno ha scelto semplicemente perché gli si attagliano [...]. La filosofia è scienza oggettiva della verità, scienza della necessità della verità, conoscenza concettuale, e non già opinare e filza di opinioni».
Perché bisogna insegnare ai giovani la storia della filosofia?
La filosofia, come progressiva e sempre più adeguata consapevolezza dell’uomo, non può essere disgiunta dalla dimensione della memoria storica. «Siamo nani sulle spalle di giganti» affermavano gli Umanisti italiani, dando nuovo senso a un motto di Bernardo di Chartres: la nostra ragione potrà essere tanto più potente e lungimirante, quanto più ci saremo impadroniti del pensiero dei «giganti», cioè dei classici: solo a partire dalle loro altezze, da quanto essi hanno conquistato col loro ingegno, potremo lanciare uno sguardo su orizzonti più lontani. La filosofia dunque non può fare a meno di fondarsi sulle conquiste dei grandi pensatori che ci hanno preceduto. Il patrimonio di razionalità di cui possiamo godere noi oggi non è scaturito immediatamente, non germoglia soltanto dal terreno del presente, ma è un’eredità, il risultato del lavoro di tutte le generazioni che furono, come afferma Hegel: «Sebbene la storia della filosofia sia una vera storia, tuttavia non ha da fare con un mondo scomparso. Contenuto di questa storia sono i prodotti scientifici della razionalità; ed essi non sono transitori. Ciò ch’è stato conseguito in questo campo è il vero, ed esso è eterno, né può esistere in un tempo e in un altro no; è vero, non soltanto oggi o domani, ma fuori di ogni tempo, e in quanto esiste nel tempo, è vero sempre ed in ogni tempo. Certamente [...] la vita temporale e i destini esteriori dei filosofi non sono più, ma la loro opera, i pensieri, non li hanno seguiti nella tomba, giacché il contenuto razionale delle loro opere non è stato loro immaginazione o sogno. La filosofia non è sonnambulismo; ma piuttosto la più vigile coscienza; e l’opera di quegli eroi consiste appunto nell’aver tratto il razionale in sé dalle profondità dello spirito, dov’esso si trova dapprima soltanto come sostanza, come essenza interiore, e nell’averlo recato alla luce, nell’averlo sollevato alla coscienza, al sapere; consiste, insomma, in un progressivo risveglio. La funzione dell’età nostra, come di ogni altra, è di impadronirsi della scienza, del patrimonio di conoscenze già esistente, di assimilarla, e di portarla a un grado più elevato».
Anche le scienze particolari procedono sulla base dell’ampliamento di quanto si è già raggiunto nei vari campi, ma nella filosofia quelli che sono gli stadi precedenti di sviluppo sono vivi e presenti nella comprensione attuale del mondo. E questo proprio perché la filosofia è sforzo di cogliere con la nostra ragione la razionalità presente nella realtà.
Ora, mentre la conoscenza sensibile è immediata, è fondata sull’intuizione, su un atto di carattere puntuale, diretto (il vedere una penna, l’afferrare un bicchiere), la conoscenza razionale è mediata, è fondata cioè sul discorso, sulla concatenazione di una serie di termini intermedi, è conoscenza mediata, in cui ogni termine svolge un ruolo insostituibile, come l’anello di una catena, che, venendo meno, fa venir meno la catena stessa. Il dispiegarsi della ragione, il ragionamento, è concatenazione di termini. Questo modo di procedere è ben chiaro in matematica: basti pensare ai passaggi della dimostrazione di un teorema. La filosofia è come un tentativo di dimostrare il teorema della realtà intera: nel ragionamento filosofico nessun termine è superfluo o casuale, perciò Hegel afferma che: «Ogni filosofia è stata necessaria».
Se il ragionare non è immediato, bensì mediato, è passaggio da un termine all’altro, è evidente che esso non può svolgersi in un punto del tempo, in un attimo, bensì è un processo temporale, storico: la filosofia si dispiega nella storia. Le categorie filosofiche, le chiavi di comprensione della realtà che la filosofia elabora corrispondono ai singoli filosofi, ai singoli sistemi filosofici che si sono presentati, con reciproche critiche e superamenti, sulla scena della storia: all’ordine logico dei concetti filosofici corrisponde il loro presentarsi nella storia della filosofia: la filosofia coincide con la sua storia.
La filosofia coincide con la propria storia. E questa storia inizia in Grecia. L’uomo greco dona all’umanità la consapevolezza di essere portatrice della cultura, cioè della possibilità di «coltivarsi», di crescere (a differenza delle specie animali, imbrigliate in meccanismi automatici e sempre identici, senza sviluppo se non nei tempi lunghi dell’evoluzione biologica): l’uomo è portatore di una possibilità di autoperfezionamento, di progresso, in contrapposizione alla natura, immobile nella sua ciclicità, ferma al ripetersi di meccanismi fissi. La cultura è per i Greci paideia (= educare, formarsi): fu all’idea greca della cultura che Augusto riallacciò la missione dell’Impero romano. Senza l’idea greca della cultura non vi sarebbe un’antichità classica quale unità storica densa di messaggi per l’umanità successiva, non vi sarebbe stata una civiltà rinascimentale, mancherebbe ogni fondamento al «mondo civile», mancherebbe la storia come noi la intendiamo. "Filosofia", "storia" e "classicità" formano un trinomio inscindibile.

Il manuale di filosofia

Proprio l’affacciarsi di nuove esigenze didattiche, svariate e ancora non ben definite nei loro contorni, fa risaltare oggi i pregi di un manuale normale, essenziale, concentrato, rigoroso, completo come quelli di Francesco Albèrgamo, di De Ruggiero-Canfora, Lamanna, Sciacca, dell’Abbagnano e del Martano nelle rispettive prime versioni, tutti manuali «socratici». Socratici nel senso che l’esposizione in termini essenziali della storia del pensiero permetteva l’acquisizione del bagaglio indispensabile di informazioni e concetti, ma lasciando ampio spazio all’elemento veramente decisivo nell’insegnamento della filosofia: il rapporto dialogico tra docente e discenti. Non mancano oggi storie della filosofia ampie e articolate, ricche antologie, classici egregiamente annotati e introdotti, supporti multimediali suggestivi. I manuali degli anni ‘50 - ‘70 nella loro essenzialità permettevano di far affrontare allo studente l’intero panorama storico del pensiero, senza lasciargli la frustrazione di aver adoperato un decimo (come a volte oggi capita) di un volume ponderoso, con l’impressione che il più della disciplina gli sfugga. Il docente dovrebbe ritrovarsi uno strumento essenziale, integrabile agevolmente con tanti altri, ma prima di tutto con la propria presenza quale guida del dialogo e interlocutore primario degli studenti.
Ignorare poi nelle sue grandi linee la storia della scienza significherebbe rendere inintelligibile la stessa indagine filosofica intorno al saper scientifico, la quale, così privata di ciò che ne costituisce il concreto contenuto ed oggetto, perderebbe ogni valore formativo, generando nei giovani l’opinione che si possa discutere filosoficamente sulla scienza senza conoscerla.
Si deve inoltre tener presente che le stesse teorie scientifiche, quando pervengono a un alto grado di generalità, finiscono col configurarsi esplicitamente anch’esse come vere e proprie teorie filosofiche: tali sono, ad esempio, la dottrina evoluzionistica e quella della relatività, che solo dei preconcetti possono indurre a considerare come pura scienza: analogamente, si dovrebbe allora sostenere che la questione se l’universo sia finito è filosofica nella trattazione di Kant, non filosofica in quella di Einstein. Il carattere filosofico di queste grandi sintesi teoriche rende pertanto perentoria la loro introduzione in un testo di filosofia.
In generale, anzi, non vi è teoria scientifica che non sia anche in sé, sia pure implicitamente, una filosofia della scienza: e ciò per la semplice ragione che lo scienziato, in quanto conosce quello che egli stesso viene costruendo, è più di ogni altro in grado di intendere filosoficamente la propria indagine, purché non sia fuorviato da vedute estranee alla sua ricerca. Ciò costituisce un’altra ragione a favore della introduzione delle più essenziali cognizioni di storia della scienza in un corso di filosofia per i Licei.