Il terzo uomo
Armido Rizzi
Il tema di fondo consiste nel tentativo di far circolare il motivo della persona nella sua singolarità. Da parte mia cercherò di ridefinire il concetto di persona. Si tratta di un concetto filosofico e antropologico che ha anche una chiara matrice religiosa e biblica con una evidente apertura verso l’ambito dell’etica da un lato e della politica dall’altro. Analizzeremo pertanto insieme alcuni aspetti di teoria politica, di antropologia filosofica e di ermeneutica biblica.
La mia riflessione si presenta suddivisa in quattro parti:
- la concezione dell’individuo nella modernità;
- la concezione di un individuo diverso quale appare nel racconto dell’Esodo;
- una definizione di questo individuo alternativo come persona;
- la comunità credente come comunità alternativa all’interno della più ampia società politica. La comunità credente infatti renderebbe superflua la dimensione politica del convivere se riuscisse ad essere realmente se stessa.
La postmodernità è un esito non necessario della modernità, ma alla quale sembra approdare nella sua concezione dell’individuo. Leggendo qualunque saggio sulla società e sulla sua composizione ci si imbatte nella distinzione fondamentale operata sui modelli di società. Da un lato appare il modello della società arcaica e medievale come grande corpo all’interno del quale gli individui sono degli "organi" (idea organica della società), dove al primo posto è collocato il "tutto sociale", l’organismo sociale, al cui interno gli individui acquistano senso soltanto come parti. Il "tutto" ha più valore delle parti che lo compongono dato che le parti hanno senso soltanto come frazione di questo "tutto". Dall’altro invece appare il modello della società centrata sull’individuo in cui l’individuo come tale è ciò che dà origine, il "micro-tutto" originario. Chi per primo ha descritto questa tipologia oppositiva è stato Ferdinand Tönnies, un sociologo e filosofo tedesco, che ha definito come "comunità" la prima tipologia (Gemeinschaftt) e come "società" la seconda (Gesellschaft).
La società di tipo organico non sarà il nostro polo di confronto. Quello su cui fare i conti è invece l’individuo come si è configurato nella modernità. Probabilmente sul piano politico questa definizione sembra essere il male minore. Ma se vogliamo dare una base antropologica al rapporto del vivere e del convivere, credo che non ci si possa accontentare di quella che oggi è una formula piuttosto diffusa: si sente parlare infatti di un individualismo che si giustifica nell’ambito di una interpretazione "temperata", dal volto umano. C’è un modo di pensare l’individuo che non è più quello della modernità, anche se la modernità è decollata anche in forza di questa altra immagine di individuo.
Tra l’individuo umano come parte all’interno del tutto sociale (come nella società arcaica) e l’individuo umano come nucleo sul quale si organizza il tutto sociale (come nella modernità), c’è una terza figura irriducibile rispetto alle prime due: si tratta del terzo uomo non riducibile né all’uomo organico né all’individuo originario. È l’individuo in quanto "io", la cui identità si dà soltanto sotto uno sguardo che la definisca. L’identità delle cose è tale solo quando viene riconosciuta e definita. La base ontologica, lo sguardo che riconosce l’identità della cosa, consiste nell’appartenenza della cosa complessa ad un tutto. Quando si riconosce un io, si definisce qualcuno che non ha bisogno di uno sguardo superiore, ma della autopresenza e della autocoscienza. La percezione di questo fenomeno è peculiarità dell’uomo moderno.
La definizione dell’uomo nella filosofia era quella dell’animale ragionevole, dove "animale" a sua volta consisteva nel vivente senziente e il "vivente" era a sua volta il corpo con la vita, e il "corpo" era la sostanza materiale. La ripetizione di quello che il discepolo di Aristotele, Porfirio, aveva disegnato è poi entrato di fatto nella tradizione dell’Occidente ed è un’immagine che è arrivata fino a noi. L’uomo è un animale ragionevole composto di anima e di corpo. Si procede per specificazioni, ma all’interno di quel grande corpo di base che è la natura. Quindi anche la ragione è una determinazione interna alla natura.
Dire che l’essere umano è un "io" significa recidere alla base questa concezione di appartenenza, anche umana, al tutto cosmico. Significa interrompere la fraternità cosmica tra gli animali, i vegetali e gli umani. Chi viene prima di tutto è l’io, il quale non appartiene ad altro e non è definito da una appartenenza. Ha un corpo, un corpo vero sottoposto alle stesse leggi fisiche e biologiche. Ma tutto questo di per sé non fissa ancora i limiti dell’io che è, per definizione, il non appartenente, o meglio l’autoappartenente e l’autodefinito.
Sono da considerare almeno tre matrici:
1. La matrice cristiana sottolinea il valore infinito di ogni individuo in quanto anima creata direttamente da Dio. L’individuo umano è pertanto staccato dal piano che lo circonda. Per il suo rapporto con Dio l’individuo umano ha un valore assoluto che lo rende differente da ciò che lo circonda.
2. La matrice borghese definisce l’individuo in quanto nato in una certa famiglia e quindi destinato a prolungare e a ripetere la categoria a cui appartiene. Ognuno "è" quello che riesce ad essere grazie alla propria iniziativa.
3. Vi è infine una matrice che deriva da una lettura scientifica del mondo naturale non più come cosmo all’interno del quale sono ordinati tutti gli esseri, ma come macchina a cui appartiene tutto, ad eccezione del soggetto pensante. La contrapposizione tra questa macchina retta dal principio di misura matematica da un lato e dal principio di casualità dall’altro porta all’io come res cogitans.
Queste tre matrici hanno in comune la pars destruens: tutte negano che l’uomo possa essere definito da legami organici con quanto lo circonda o perché definito direttamente dal rapporto con Dio, o perché definito dalla propria iniziativa, o perché definito dalla propria contrapposizione rispetto al mondo-macchina. La pars costruens che definisce l’uomo è l’identità per autoidentità, per autopresenza, o in quanto soggettività. Questa idea di soggettività non era assente dal pensiero precedente, ma veniva inscritta come modalità interna al cosmo naturale. Lo specchiarsi in sé era il punto più alto, il vertice delle possibilità del cosmo naturale.
In questa nuova visione traspare il carattere essenzialmente nuovo della soggettività. Da un lato questa si esprime come soggettività cognitiva, come libero pensiero (Kant dirà "approdo all’età maggiorenne"), dall’altro come soggettività pratica che si esprime appunto nel lavoro mediato dal progetto. Il soggetto si trova necessariamente in relazione con gli altri. Anche se con descrizioni diverse resta comune in ogni visione l’idea che l’io, quando entra in rapporto con gli altri, ha un bisogno non solo di autoaffermazione in base alle proprie capacità, ma anche di sentimento del diritto. Il soggetto rivendica per sé il diritto allo spazio in cui avere il diritto di affermarsi. La capacità è sul piano del fattuale e il diritto passa ancora su un altro piano. Quando mi trovo di fronte ad un altro che vuole affermarsi come me e le nostre due volontà di affermazione si scontrano, io affermo me stesso come diritto ad affermarmi attraverso l’esercizio delle mie capacità. Al tempo stesso però non posso non riconoscere il diritto dell’altro.
Nel quarto articolo dei diritti dell’uomo e del cittadino (del 26 agosto 1789), la libertà è definita come il "poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri". Vicino alla singolare intuizione dell’individuo come "l’originario", vi è qui una seconda singolare intuizione: l’individuo in quanto io è simultaneamente un insieme di individuale e di universale. L’Io è ognuno degli altri: è soggetto ed individuo empirico che porta dentro di sé questa stranissima ed elevatissima realtà che è l’autopresenza e la soggettività. Il soggetto che si afferma è il soggetto individuale empirico in quanto portatore, detentore, contenitore identificato dell’Io nella sua universalità. Il soggetto è per definizione soggetto di diritto. Ma questo comporta automaticamente anche il riconoscimento dei diritti dell’altro io: "la libertà di fare tutto ciò che non nuoce agli altri". L’altro è presente a me come un altro Io. La stessa forza che mi spinge ad affermarmi, mi disegna anche il limite della propria affermazione individuale. La determinazione di tutto questo si fa all’interno di un contratto sociale grazie ad un insieme di norme e di garanzie affinché il rispetto dei diritti altrui (proclamati in linea di principio nel riconoscimento dall’altro Io) venga garantito in relazione ai "furbi" e quindi anche attraverso la forza. L’idea di Stato moderno ingloba questi tre aspetti: la definizione dell’Io come originario e universale; la necessità di dare concretezza e determinazione attraverso delle leggi e delle norme; la garanzia che il riconoscimento di principio dei diritti dell’Io venga sostenuta dallo Stato come unico detentore della forza. In linea di principio il cittadino è dunque sovrano. Ma lo Stato può garantire i diritti solo alzandosi al di sopra del cittadino.
La postmodernità sperimenta un movimento contraddittorio. I diritti dell’Io diventano di fatto i diritti di pochi, cioè dei borghesi e degli intellettuali. Le due libertà fondamentali sono dunque quelle economiche e quelle legate alla circolazione delle idee.
Già a partire dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo e dal codice napoleonico vi è una progressiva estensione dei diritti. Si allarga lo spazio di coloro che possono essere riconosciuti cittadini in senso proprio. Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito ad una esplosione dei diritti nel senso dell’integrazione di nuovi soggetti e di nuove modalità (i diritti del malato, del bambino, del carcerato) nella sfera del diritto. Ma questo sta creando un incremento demografico dei diritti per cui siamo sollecitati a valutarli. Esistono dei contenuti diversi che vengono inclusi nella definizione del diritto. L’"esplosione" quantitativa dei diritti si accompagna ad una progressiva perdita del sentimento di universalità e cioè che il fondamento dei diritti è l’Io, ed è l’io universale. Non più mediata dall’idea dell’io universale, si assiste ad una identificazione spontanea tra l’essere se stesso (come soggetto empirico) e l’essere soggetto di diritto. I diritti dell’Io diventano "i miei sacrosanti diritti". Questo è un fatto nuovo che connota il postmoderno. Ognuno è a se stesso mondo e valore. Con l’espressione "i miei diritti" stiamo arretrando a quello che Hobbes definiva come stato di natura, dove ognuno è lupo per gli altri. Ma con una differenza: in questo secondo stato di natura del postmoderno, a differenza dello stato di Hobbes in cui tutto questo era considerato un meccanismo assolutamente naturale, il lupo mangia l’agnello e giustifica quello che fa rivendicando "i suoi sacrosanti diritti".
Questo è uno dei problemi più profondi dell’Occidente. La coesione sociale richiede un residuo di visione arcaica della società, oppure necessita dell’idea dell’io che rispetta l’altro. Il progetto della modernità e dell’io è rimasto incompiuto. Pensiamo a coloro che mettono al centro l’io, cioè l’individualismo, e per esso arrivano a configurare anche il rispetto degli altri e la pienezza della democrazia. La solidarietà potrebbe allora essere rappresentata come la mitigazione dell’individualismo.
La rivoluzione biblica all’interno del contesto delle religioni del tempo:
dalla schiavitù in Egitto alla Terra Promessa all’interno dell’Esodo
Qui c’è una nuova manifestazione del divino: il Dio dello straniero fa il suo ingresso nella storia. Il punto di partenza è la presenza degli ebrei in Egitto. La cultura egiziana è l’esempio di una cultura chiusa, fondata su un pezzo di terra fecondata dal Nilo: la terra, il popolo che la abita, i costumi, la politica e la religione sono in funzione gli uni degli altri. La religione era intrinsecamente egiziana perché gli dei erano intrinsecamente egiziani. In questa unità gli ebrei si definiscono come una minoranza consistente di stranieri (senza nessuna cittadinanza) e di schiavi. Visto che l’individuo si definisce dal tutto sociale, chi non ha un tutto sociale a cui appartenere, non è nessuno, è "non popolo". Gli ebrei esistono, ma non sono nessuno, possono solo eseguire degli ordini.
Questi ebrei gridano, gemono e piangono e il loro grido giunge a Dio, ma non al Dio a cui loro si rivolgono. Chi è questo Dio? È un Dio che rompe con i principi dell’organicismo. È un Dio che non appartiene a nessun popolo, è un Dio in sé, trascendente, che non si definisce in relazione a qualcuno rispetto a ciò di cui è parte, ma che si definisce per se stesso. Questo Dio che non è di nessuno decide di diventare Dio degli Ebrei che non sono di nessuno. Bisogna slegarsi da qualunque legame umano per potersi legare attraverso a un altro al legame organico (la libertà) e quindi formare un popolo.
Gli ebrei sono stranieri non soltanto rispetto agli egiziani, ma anche rispetto all’identità di questo Dio. L’atto con cui il divino si definisce per la prima volta in questo racconto è l’atto della libera adesione a un gruppo di individui che esistono , ma che non sono nessuno, perché non sono integrati nell’identità collettiva. Dio si definisce nel suo manifestarsi storicamente, nel suo farsi conoscere dagli umani, nell’atto in cui si china e prende con sé questa minoranza.
Da questa nuova immagine del divino si ricava anche una nuova identità dell’umano. Il racconto non finisce con la liberazione e l’attraversamento del Mar Rosso, ma con il lungo cammino nel deserto. Dio porta questo gruppo di individui umani attraverso il deserto in una lunga situazione (quarant’anni) in cui devono imparare a fidarsi di Lui. Questo gruppo non è soltanto oggetto di una attenzione da parte di Dio, ma deve soggettivizzare questa iniziativa credendo che essa sia rivolta ad un punto finale positivo ("vi darò una terra e là sarete un popolo"). Un popolo lo si fa dando loro una legge, cioè una costituzione per vivere insieme in modo positivo. Dio dà loro la Torah che comprende una serie di piccole prescrizioni collegate da un filo rosso che è quello formulato in diversi versetti dell’Esodo, del Levitico e del Deuteronomio (Cfr. Dt 24, 17ss. Lv 19, 33ss). Lo straniero non è soltanto definito come una categoria di individui insieme a tante altre. Il levita ha piuttosto un comportamento esemplare rispetto ad altri. Il comandamento fondamentale dell’essere a immagine e somiglianza di Dio significa essere come Lui, come Colui che ama lo straniero. Quella che in Dio è stata libera spontaneità della sua decisione, qui è mediata dalla legge e dal comandamento. È il comandamento dell’amare lo straniero: questo consiste non solamente nell’amare una particolare categoria (spesso accomunata all’orfano e alla vedova), ma significa amare di quella qualità d’amore con cui siamo stati amati da Dio. Significa amare lo straniero che è in ognuno degli altri. Invece l’amore verso il prossimo è l’amore per l’altro in quanto coappartente: questo è l’amore con cui gli egiziani si stimavano tra di loro escludendo gli ebrei. L’amore verso il prossimo si limita alle persone con cui si è legati. In forza del comandamento di Dio l’amore è invece indirizzato verso l’altro da me con quell’amore che sa vedere in ognuno lo straniero. Questo non è un fatto che lega gli uni agli altri, ma costruisce una rete di relazioni e che è detta benissimo con una parabola rabbinica che racconta di come uno abbia chiesto ad un altro: quante alleanze ha fatto Dio? Una? No, seicentocinquemila (una per ogni uomo maschio). Dio stringe un alleanza con ognuno. Non fa un’alleanza solo con il collettivo di Israele. Non basta: ne fa seicentocinquemila al quadrato perché l’alleanza raggiunta con Dio diventa esigenza impellente di alleanza da parte di ciascuno con tutti gli altri. Qui si profila una figura di individuo che non è organica, ma che nasce proprio dalla rottura dei legami organici. Ognuno è definito dall’alleanza che Dio fa con lui e al tempo stesso non è definito dalla soggettività, dell’io che si racchiude su se stesso. È uno che come Dio ama lo straniero. È un individuo che si definisce dall’attenzione (relazione è forse un termine troppo abusato).
Siamo dunque approdati alla scoperta di una figura di uomo che da un lato trascende l’insieme dei legami sociali, ma dall’altra è definito dall’apertura necessaria per la relazione con gli altri, dalla scoperta dello straniero che è in ognuno degli altri. L’altro è ad una distanza infinita da me: non posso ricavare da me ciò che mi porta all’altro nella sua alterità. L’altro mi viene donato e affidato tramite il comandamento (legge esterna) e tramite lo Spirito (che scrive la legge nei cuori). È una "promozione antropologica" che fa di ogni individuo il destinatario dell’alleanza e allo stesso tempo il principio di altre alleanze.
L’esperienza etica
Questo è un patrimonio che vale non solo per la tradizione ebraico-cristiana. Il racconto dell’Esodo fa emergere una esperienza reale dell’alterità che ci porta al di fuori del racconto biblico in sé. È l’esperienza etica.
In uno degli ultimi numeri di Micromega dedicato alla morale Kolakowsky, un filosofo polacco, affronta il tema dell’esperienza etica ed osserva una cosa molto semplice. Quando ciascuno di noi osserva che torturare, uccidere, stuprare è un male, non fa altro che affermare una realtà. Oppure quando affermiamo che aiutare chi si trova nel bisogno è un bene, affermiamo una realtà. Non si tratta affatto di affermare un desiderio oppure una prescrizione ("non si deve fare"). La prescrizione è possibile soltanto sulla base di una percezione di realtà: diversamente la prescrizione non funzionerebbe.
Vi sono tre livelli di realtà: la realtà fattuale (quello che sta accadendo), la realtà del possibile (è la capacità di far diventare reale quello che ancora non è dato che azione e risultato preesistono nella mia mente), e vi è infine la realtà etica (che fa dire: questo è bene e questo è male). La realtà fattuale ha a che fare prevalentemente con le relazioni di tipo organico. La realtà del possibile caratterizza il mondo dell’individuo (è nel soggetto che si annida il possibile). Il mondo del giusto e dell’ingiusto ha a che fare con il soggetto etico in quanto definito dal rapporto con l’altro. I comandamenti definiscono il rapporto con gli altri "in nome di Dio".
La percezione della realtà non passa solo attraverso una constatazione o una realtà semplicemente ritenuta possibile (i due che passano vicino al Samaritano e lo stesso Samaritano rappresentano due possibilità), ma richiede la constatazione di un debito antecedente ad ogni relazione, cioè una responsabilità antecedente. Una cosa non è giusta tanto perché ritengo che sia giusta o perché vi colga una bellezza particolare, ma perché si manifesta la verità della soggettività che non risiede nel rapporto tra me e me, ma nel rapporto tra me e l’altro, al punto tale che anche il rapporto tra me e me sarà mediato dal rapporto tra me e l’altro. Lo straniero che è in me non è il punto di partenza per riconoscere lo straniero che è nell’altro. È piuttosto lo straniero che riconosco nell’altro che mi porta a riconoscere lo straniero che è in me, anche in forza dell’esperienza etica che dice: "No, non puoi toccarlo". La sua inviolabilità mi fa sperimentare ciò che posso applicare anche a me stesso e che poi mi fa capire che anche la mia vita è inviolabile. In questo senso riconosco che il suicidio è proibito perché sarebbe l’omicidio dello straniero che è in me. Il rispetto di se stessi è il rispetto dell’"altro da me" che è in me. La verità sta nella liberazione dello straniero. Ereditare la vita eterna è la formula del tempo per essere ciò che sono chiamato ad essere. Per essere non quel me stesso che vorrei essere in base ai miei desideri o ai miei progetti, ma quel me stesso in base a quello che la Parola di Dio mi chiama ad essere, in base allo sguardo di Dio che vigila su di me.
La fenomenologia dell’esperienza morale ci porta a dire che l’esperienza morale è quella del valore infinito dell’alterità di ogni altro. Questo vale a partire da chi è più debole, che io posso accogliere o negare: ma proprio perché posso scegliere, non devo negarlo.
I contenuti della morale rappresentano una varietà straordinaria. Ad esempio, secondo Claude Lévi-Strauss esisterebbe un unico valore comune a tutte le tradizioni, cioè la proibizione dell’incesto.
In ogni cultura è presente una specie di contenuto centrale: l’etica, cioè la verità di ogni soggetto, si costruisce nel rapporto con altri soggetti situati in determinate condizioni ambientali (quindi di clima, di terreno) e in determinate condizioni storiche. Il rapporto con il divino ha sempre come riferimento il rapporto con gli altri esseri umani. La discriminante sta nella formulazione del rapporto con l’altro come "ama il prossimo" oppure come "ama lo straniero".
Nella Bibbia l’espressione "ama il prossimo" viene fuori tardi. In qualche modo questo reintroduce la logica egiziana: "Signore, noi siamo il tuo popolo: allora l’amore è quello che è dovuto a coloro che appartengono al popolo". Questa non era la logica dell’elezione come libera scelta da parte di Dio che doveva poi diventare amore dato allo straniero. La morale dell’amare il prossimo reintroduce la logica "etnica" e localistica.
Dall’altra parte invece vi è "ama lo straniero". "Ama il prossimo tuo come te stesso" contiene in qualche modo una contraddizione, perché l’amore al prossimo in quanto amore a colui/colei che è mio è un fatto spontaneo e naturale. La relazione è un dato di fatto, appartiene alla fattualità. Allora perché c’è bisogno di metterci dentro l’ordine etico: "Ama"!? Perché ad un certo punto non ci si ama più. Nessun prossimo è così prossimo da non contenere lo straniero. Per "ama il tuo figlio" non c’è bisogno di nessun comandamento. Ma se il rapporto spontaneo e naturale, organico e ombelicale con tuo figlio/figlia diventa tale che l’altro/altra che dice "io sono me stesso/a" piglia la sua strada, in quel momento la prossimità è attraversata dal comandamento. Anche su questo la Bibbia è una grande maestra. Nei due racconti fondamentali sul genere umano ci dà questi due esempi: la prossimità dell’uomo e della donna diventa inimicizia dopo la colpa, ma più ancora fuori dell’Eden quando fra i primi due fratelli (il massimo della prossimità) viene commesso un fratricidio. Il comandamento dell’amore al prossimo porta dentro di sé una tensione per cui, in quanto comandamento, riconosce nel prossimo una alterità irraggiungibile per via del legame naturale e tuttavia, in fase di esecuzione, la circoscrive al prossimo. È come se ci fosse una tensione tra la qualità universale del comandamento "ama il prossimo" e la sua estensione empirica che viene rinchiusa di nuovo sul prossimo.
L’amore allo straniero è la forma compiuta e coerente dell’amore al prossimo. È il dispiegamento in universalità estensiva di quell’universalità qualitativa che è già dentro nell’amore al prossimo. E tutto questo è dentro ogni esperienza etica, prende voce in forma di amore al prossimo nelle varie culture, ma la verità o il compimento di questo nella forma dell’amore allo straniero prende voce nel racconto biblico. Il racconto biblico non è più una specie di rivelazione di Dio che "casca dall’alto". L’esperienza del divino del popolo di Israele emerge e prende forma linguistica nel racconto e diventa, insieme a quella concettuale greca, una delle due matrici dell’Occidente. Questa esperienza sarà poi portata avanti soprattutto dal Cristianesimo.
Il Cristianesimo ha veicolato l’amore verso l’altro. Nonostante sia forte la tentazione di credere di lasciarsi alle spalle il Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento per poi far emergere solo il valore dell’individuo, non va dimenticato che la fonte sta nel Dio che ama lo straniero e nella presenza dello straniero.
È importantissimo imparare a fare una lettura laica della Bibbia, cioè una lettura che colga gli elementi di esplicitazione e di chiarificazione dell’esperienza etica che invece al di fuori della Bibbia sono affogati come figure improprie: dall’amore organico al prossimo all’autodefinizione del soggetto come Io.
Ricordo un bellissimo testo di Umberto Eco indirizzato al card. Martini: "Non ho bisogno di credere nella divinità di Gesù, e di per sé non avrei neanche bisogno di credere nella sua umanità (cioè che Gesù sia veramente esistito), per cogliere l’inaudita grandezza del racconto su Gesù. Se anche fosse stato inventato, se anche fossi un marziano che arriva sulla terra e che trova questo racconto, mi inchinerei di fronte all’inaudita grandezza di questo racconto di riconciliazione, di perdono, di amore fino a dare la vita e direi che valeva la pena che la specie umana vivesse sulla terra per produrre questo racconto".
L’interpretazione del testo biblico che con Gesù fa rinascere tutto quello che nell’Esodo era apparso è da collegare con quello che è stato rimosso dalle culture.
Lo straniero in ogni altro
Propongo di chiamare "persona" l’individuo etico definito dalla relazione con lo straniero che è in ogni altro ed è "persona" anche l’altro che è "sotto lo sguardo" dell’individuo etico. La carne nuda dell’altro è inviolabile, ed è sacra. La persona è quindi soggetto e destinatario della soggettività etica.
La circolarità è un altro aspetto importante. Io darò a uno, ma io non faccio altro che sdebitarmi di qualcosa che ho già ricevuto o che riceverò (magari anche da qualcun altro, non è detto che sia quella stessa persona).
C’è una parabola cinese in cui uno chiede a un altro: "Cos’è l’inferno?" e si sente rispondere: "L’inferno è questo: metti due a tavola con una ciotola di riso e un bastoncino, senonché il bastoncino è lungo due metri e la mano è legata alla parte alta del bastoncino. Non arriva al piatto e questi muoiono di fame". "E il paradiso?" chiede ancora. "Il paradiso è la stessa situazione: solo che ognuno prende dal piatto dell’altro e mette il riso in bocca all’altro e l’altro fa lo stesso con lui". Posso perfezionare la parabola dicendo che io nutro l’altro, l’altro nutrirà un terzo, e via dicendo fino a che il circolo non si chiuderà ancora con me. Quello che conta è che ognuno abbia qualcuno che si fa prossimo a lui, qualcuno che colga lo straniero che è in lui.
Marx diceva la stessa cosa: ognuno darà agli altri secondo la propria capacità e riceverà secondo i propri bisogni. Ma non è proprio della natura umana essere soggetti etici come descritto. L’errore di Marx è stato quello di ritenere che il soggetto etico potesse essere trasformato in qualcosa che ad un certo punto diventi naturale e acquisito una volta per tutte. La solidarietà etica sarà sempre di fronte a un sì o a un no.
Se tutti vivessimo secondo la dimensione dell’uomo e della donna dell’Esodo, non ci sarebbe più bisogno di politica (intendendo per politica la dimensione Stato). Marx aveva ragione: se c’è un uomo così non ci sarà lo Stato. Ma questo uomo non sarà mai un dato di fatto.
Il terzo uomo non può fare a meno dello Stato, perché non può garantire se stesso dagli eventuali altri che "passano via", ma non può neanche garantire gli altri da se stesso. Allora ci vogliono leggi e sanzioni che sono una specie di integrazione di una società che è tutta intera chiamata ad essere società del terzo uomo, dell’uomo etico, ma che non può mai garantire di esserlo fino in fondo. Secondo questa visione non si è per definizione soggetti di diritti, ma soggetti di doveri. L’Io è soggetto di doveri verso l’altro, il quale è originariamente soggetto di diritto. Non io, ma l’altro. Non in quanto li rivendica, ma lo sarà tanto più quanto più sarà incapace di rivendicare i propri diritti. Di fronte a lui io sono il luogo originario dei doveri.
La comunità dei credenti dovrebbe essere quella che realizza attivamente l’ideale del popolo di Dio, cioè quello delle 600.000 alleanze al quadrato. Non ha più bisogno dello Stato come comunità. Da questo punto di vista è comunità alternativa. È quella società in cui il centro non è l’interesse che si vuole affermare, ma il bisogno dell’altro. Diventa alternativa anche rispetto ad una società retta da uno Stato, perché di suo non avrebbe bisogno della dimensione della forza e della sanzione. È importante però capire che non ci si deve credere una comunità alternativa in assoluto, ma dentro l’altra, perché anche noi non siamo perfettamente credenti.
"Credo, Signore, aiuta la mia incredulità. Amo, Signore, aiuta il mio egoismo". A volte ho bisogno anch’io dello Stato. Siamo insieme alternativi, ma con tutta l’umiltà di riconoscerci. In quanto cittadini di questo mondo siamo ancora uomini vecchi che devono ancora accettare la mediazione dello Stato. In quanto comunità "casta" non abbiamo bisogno dello Stato e non abbiamo più al limite bisogno di avere degli interessi egocentrici: è un movente sufficiente il bisogno dell’altro. In quanto "meretrix" abbiamo bisogno dello Stato e anche di altro.