Nel male del mondo

Puntare in alto: disarmare la violenza

Laura Boella



"Nata per l'amore, divorata dalla pietà": questo verso dell'Antigone di Sofocle sembra raffigurare la spaccatura di ogni essere femminile. In Antigone ogni donna si riconosce, nelle leggi non scritte della pietà e dell'amore (seppellire il fratello che la città ha messo al bando perché nemico) che Antigone contrappone alla guerra civile, sacrificando la propria vita, immolandosi come vittima innocente. La spaccatura che attraversa ogni essere femminile non è tuttavia esattamente quella tra pace e guerra, tra amore e morte, tra sacrificio e brutalità. Lo prova la rilettura della figura di Antigone da parte della pensatrice spagnola Maria Zambrano che fa iniziare quello che è probabilmente il suo scritto più bello, La tomba di Antigone, nel punto in cui finisce il dramma di Sofocle, nel momento in cui Antigone, murata viva in seguito al decreto di Creonte, non muore, ma rivive con i principali protagonisti la sua storia. Si aprono altri possibili esiti del suo destino. Un fratello le propone il potere politico, l'altro l'utopia della repubblica dei fratelli, in cui non ci sarà più né divisione né guerra. Antigone si sottrae a questi sia pur opposti modi di riscattare il suo sacrificio. Sceglie di essere voce che continua a narrare quanto nella storia scorre ignoto e incompiuto.
"Nata per l'amore, divorata dalla pietà": letto oggi questo verso parla di una lacerazione incarnata nelle diverse forme di esistenza femminile: l'invisibilità di molte vittime della violenza e dell'autorità esercitata sul corpo femminile, l'estraneità di molte altre, che non si riconoscono nei linguaggi e nelle azioni di chi vuole vendicare e forse liberare le vittime. Ma cosa significa realmente parlare una lingua, avere un modo di essere che non è quello delle armi, della rappresaglia e della violenza? È questa la domanda che si ripropone costantemente alle donne nel mondo contemporaneo, non solo quando incombe la guerra, ma nella quotidianità della politica e delle relazioni che spesso non le contiene affatto.
L'amore, come insegnano molte pensatrici del '900, da Simone Weil a Hannah Arendt, è la figura della mediazione tra umano e divino, il ponte gettato tra le diverse forme della realtà, l'elemento che media le distanze dell'universo, è gratitudine per il solo fatto che le cose esistano. Il destino dell'amore nel nostro mondo è necessariamente quello del sacrificio, di una testimonianza al di là della vittoria e della sconfitta, di un'utopia di armonia e di pacificazione, inghiottita, però, e condannata al silenzio dal vincitore di turno oppure un destino che si gioca volutamente fuori dai conflitti? Le donne vivono forse in un altro mondo, che tocca solo tangenzialmente quello brutale e inquietante dell'oggi?
"Nata per l'amore, divorata dalla pietà" descrive un altro movimento. Nascere per l'amore vuol dire l'ingresso dell'assoluto nel mondo umano che ogni donna porta con sé, il varco aperto per la perfezione e la bellezza, lo stare al confine con ciò che non è ancora umano e forse non lo sarà mai. La pietà che divora le creature nate per l'amore non è però la compassione, la solidarietà di presunte figlie dell'amore. È, come suggerisce Maria Zambrano, "saper trattare con ciò che è radicalmente altro da noi", con l'ignoto e il diverso. È fare i conti con il fatto che il divino ha abbandonato il mondo e la realtà umana, soprattutto quella moderna e contemporanea, è impigliata nella discontinuità, nella discordanza, nell'impossibile ricomposizione di un'unità. La pietà che divora non è dunque elemento di un dualismo, di una contrapposizione, ma elemento di relazione, di apertura al mistero, a ciò che noi non siamo.
È un dato di fatto che l'incommensurabilità tra mondo delle donne e mondo degli uomini si è manifestata e ha operato concretamente spesso all'interno dei conflitti più sanguinosi. In Algeria le donne hanno preservato la vita civile: hanno mandato avanti le scuole, le relazioni familiari, la vita quotidiana… nel mezzo di una guerra contro i civili, sottraendosi alla logica dell'annientamento tra fazioni, della vendetta e dell'intolleranza. Forse anche nelle tenebre dei burqa e delle case prive di suoni e di luci di Kabul sta avvenendo qualcosa del genere. Ed è una fortuna che il gusto per il burlesco e per la vita femminile dei registi iraniani ci faccia vedere il chador che viene messo e tolto freneticamente, a seconda della distanza dei tutori della morale coranica, le sigarette che voluttuosamente vengono accese, lo smalto, il rossetto e i bracciali colorati avidamente manipolati sotto il burqa.
La domanda rimane in ogni caso inquietante: l'altro mondo, di cui le donne sono le creatrici, aiuta a capire, a sentirsi responsabili e magari anche a trasformare il mondo dei potenti e delle guerre, delle infinite retoriche sulla storia e sulla civiltà, oppure rimane una strategia di sopravvivenza o a volte un inutile gesto di orgoglio?
Propongo una possibile - la mia - formulazione della domanda: parlare, agire nella speranza stando fermamente dentro una concezione tragica e negativa della storia. Questa è, deve essere, la posizione delle donne oggi. Che la storia sia violenza, distruzione, tragedia non vuol dire semplicemente che la sua realtà sia il potere e la forza. Le vittime, i calpestati, i divorati dalla storia la abitano come forze di contrasto, come uno dei suoi movimenti vitali, per quanto particolarmente rischioso. Ne rappresentano infatti il margine di incompiuto e di irrealizzato, forse anche di impossibile, ma che esplica un'energia specifica; è una presenza, per quanto elusa o scongiurata, come quella di un ospite, di cui si parla persino dove è passato in tutta fretta solo una volta, e anche dove non è mai stato invitato.
Maria Zambrano scrive che la speranza "non spera nulla,... si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice, quella che estrae la sua stessa forza dal vuoto, dall'avversità, dall'opposizione, senza per questo opporsi a nulla, senza lanciarsi in alcun tipo di guerra. È la speranza che crea restando sospesa, senza ignorarla, al di sopra della realtà, quella che fa emergere la realtà ancora inedita, la parola non detta: la speranza rivelatrice... che nasce dal sacrificio" (I beati, Feltrinelli 1991, p. 118). La speranza affonda le sue radici nella dimensione originaria di fede/fedeltà/affidamento che è la capacità della vita di aprirsi ad altro, di accettare con abbandono la propria incompiutezza e le proprie impossibilità. La speranza, fuori da ogni discorso consolatorio, è il modo per reintegrare nelle nostre vite le cose che accadono, per quanto mostruose esse siano. È un modo di rendere creative le emozioni, riconducendo al nostro mondo ciò che le scatena, ma in modo che quanto opprime, atterrisce o è estraneo si mostri come ciò che costituisce la realtà, mostro o demone che sia.