Cantare inni con arte
Gianfranco Ravasi
Vorrei proporre una riflessione legata proprio al concetto simbolico e quindi globale che la sapienza biblica ha della realtà. Come si legge nel primo racconto «sacerdotale» della creazione, ogni creatura è tôb, cioè «buona/bella». Etica ed estetica s'intrecciano, bontà e bellezza sono sorelle. È spontaneo, allora, comprendere perché il Salterio ci inviti a «cantare inni con arte» (Sal 47,8) e in ebraico abbiamo un termine squisitamente sapienziale, maskîl, che fra l'altro ricorre in ben tredici titoli dei Salmi e che la Vulgata rende appunto con un psallite sapienter. Bisogna, dunque, pregare in modo sapiente nel contenuto e bello nella forma. Nella lettera, destinata al clero, che accompagnava la sua Dissertatio de Psalmis il famoso vescovo di Meaux, Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), ammoniva che «per cantare sapientemente a Dio bisogna sempre più imparare con erudizione e con intelligenza».
Si apre, così, davanti a noi un capitolo tematico molto complesso e delicato, quello della musica sacra che proprio i titoli apposti ai Salmi evocano con l'indicazione di arie, di strumenti, di termini tecnici musicali, di modalità esecutive. Lasciamo risuonare dentro di noi, allora, il Salmo 150, la dossologia finale del Salterio, il canto dell'alleluia finale, scandito a cascata, quasi come negli alleluia del Messia di Händel.
Il filo orante dei centocinquanta Salmi, intrisi di molti lamenti e di scarse gioie, percorsi dal respiro della vita, dal brusio del mondo e persino dalle urla delle battaglie, raggiunge la liturgia e si fa lode libera e serena a Dio. A questa celebrazione nel tempio è convocata anche l'orchestra fatta di sette strumenti: il corno, l'arpa, la cetra o lira verticale, il tamburello, gli strumenti vari a corda, il flauto e i cimbali.
A essi si aggiungono sia la danza rituale (anche nel Salmo 118,27 si invitava a «formare il corteo danzante con rami frondosi») sia uno strumento vivo: il respiro di ogni essere vivente, che è non solo il suono dei fiati dell'orchestra e neppure la voce del coro ma anche il respiro di vita di ogni creatura, come suggeriva il libro giudaico dell'haggadah, con un suo racconto omiletico esemplare. In esso a Davide, orgoglioso per la sua lira, i suoi testi salmici e il suo canto, replicava una rana col suo gracidio: «Davide non inorgoglirti! Io canto più di te, con tutta me stessa, in onore di Dio!». Sempre nel giudaismo, Elie Wiesel, premio Nobel per la pace nel 1986, affermava che gli angeli, dopo essere apparsi a Giacobbe scendendo da una scala che univa cielo e terra (Gen 28,10-22), si dimenticarono di ritirarla. Essa è la scala musicale che ci può condurre dalla terra al cielo.
I Salmi sono poesia, canto e musica e perciò seguono la via pulchritudinis per pregare e per parlare del Dio «splendido e magnifico» (Sai 76,5). Nel Primo Libro delle Cronache i cantori e i musicisti ricevono anch'essi – come Bezalel, l'artefice dell'arca dell'alleanza e della tenda santa col suo arredo (Es 31,3-5) – un'«ispirazione» dello Spirito di Dio, tant'è vero che il termine ebraico per indicare l'esecuzione musicale è lo stesso dell'attività profetica, nb' (1Cr 25,1). Bellezza e fede sono sorelle perché entrambe cercano l'infinito e l'eterno, dato che l'arte – come osservava il pittore Paul Klee – non rappresenta il visibile ma l'Invisibile che è nel visibile. E, come scriveva nel 2002 l'allora cardinale Ratzinger, «la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l'uomo al suo destino ultimo». Ora, ricorrendo a un'assonanza etimologica, potremmo dire che la ferita inferta dall'arte all'umanità è una «feritola» aperta sull'assoluto, sul trascendente, sul divino. Il poeta francese Paul Valéry (1871-1945) ricordava che «il pittore non deve dipingere quello che vede ma quello che vedrà». Come la fede, l'arte deve condurci all'escatologia, cioè alla pienezza di senso.
Ma l'arte è anche ferita nel corpo vivo, crea tensione, persino sofferenza come quando una piaga è aperta nella nostra carne. Un altro grande pittore come Georges Braque (1882-1963) riconosceva che «l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza ci rassicura». Dalla contemplazione di un quadro di Caravaggio o del Giudizio michelangiolesco della Sistina non si può uscire indenni. Lo sconcerto del Pietro crocifisso o l'irruzione dall'alto del braccio e della mano divina che vuole «afferrare», «impugnare» (cfr. Fil 3,12) il Paolo accecato sulla vía di Damasco che Michelangelo ha dipinto nella Cappella Paolina sono una raffigurazione provocatoria della vocazione divina che travolge la vita. L'inquietudine che la ferita genera nel corpo è il simbolo dell'inquietudine dell'arte e della fede sulla scia del celebre motto agostiniano Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. La meta comune della bellezza e della fede è, infatti, l'infinito divino che per l'arte è un gorgo di luce e per la fede è una persona che ti attende. E per raggiungere quella meta, che è oltre i sensi e la stessa razionalità, è necessaria l'«ispirazione», cioè la grazia.
La liturgia deve ritornare – sia pure nelle nuove grammatiche che l'arte, la musica e l'architettura contemporanea hanno adottato (si pensi solo a quanto già era accaduto quando alla purezza monodica del gregoriano si era sostituito l'intreccio molteplice delle voci polifoniche) – a essere la sede della bellezza che comunica con la fede, riverberando insieme la presenza di Dio, bellezza suprema. Si dovrebbe poter ripetere il suggerimento di san Giovanni Damasceno che invitava il pagano desideroso di conoscere la fede cristiana a entrare nella chiesa e a contemplare le icone, le immagini e le scene sacre.
La liturgia, un po' come l'arte, è mistero e svelamento, è trascendenza e illuminazione. L'azione liturgica genuina non è solo «misterica» col rischio del sacralismo esoterico, ma non è neppure solo intelligibilità assembleare, col rischio della banalizzazione in adunanza congressuale. Con le parole di Benedetto XVI davanti agli artisti giunti da tutto il mondo nel 2009 nella Cappella Sistina concludiamo ricordando che arte e fede rivelano il senso della storia e della vita: l'arte «è movimento e ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente, mentre lo attraversa».
(L'incontro. Ritrovarsi nella preghiera, Mondadori 2013, pp. 109-112)