Padre mio e vostro,

Padre nostro

Gabriella Caramore


«Se si osserva in altro modo il cristianesimo, in una maniera più semplice ed elementare e non religiosa né solenne, finisce per suggerirci l'innocente rapporto fra un padre e un figlio»[1]. Ovviamente non si può ridurre a questo la complicata e lunghissima storia del cristianesimo, né la vita di Gesù come viene raccontata nei vangeli. Il cristianesimo è certamente ben più intricato di questa sintesi sbrigativa. E vero però che la parola a cui Gesù ricorre, nei racconti dei vangeli, per parlare di Dio è prevalentemente quella di «Padre»: mostrando nei confronti di quel Padre «celeste» una relazione di vicinanza, di affettività, quasi di confidenza che va ben al di là della relazione di filialità espressa non solo in altre tradizioni religiose, ma nei testi stessi del giudaismo antico. «Egli mi invocherà dicendo: Tu sei mio Padre» (Sal 89, 26). Oppure: «Egli sarà chiamato Dio potente, Padre eterno» (Is 9, 5). O ancora: «Sono diventato un Padre per Israele» (Gr 31, 9).
Ma, appunto, qui come altrove la paternità di Dio sembra essere relativa alla filialità del popolo di Israele, e solo per estensione dell'umanità intera.
Nelle parole che vengono attribuite a Gesù ci sono invece infinite sfumature dentro le quali la parola «Padre» – talvolta accompagnata da Kyrios o Theós – viene espressa, ma sempre con una coloritura di prossimità. Sottolineata dal fatto che quando questo termine non è usato in greco, ma per rafforzarne il senso viene impiegato in ebraico, esso si esprime non con Av (Padre) o con Avinu (nostro Padre), ma con Abbà, che indica una dimensione più familiare, quasi domestica.
Lo stesso Paolo dice: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo spirito del suo figlio il quale grida: Abbà, Padre!» (Gal 4, 6).
Ora, noi non potremo mai sapere che cosa veramente Gesù abbia pensato né che cosa realmente abbia detto. I quattro vangeli canonici, tutti diversi tra loro (nonostante la similarità dei sinottici) per struttura, linguaggio, intenzione personale degli autori, rispecchiano inevitabilmente le sensibilità, le esigenze, le aspettative delle diverse comunità a cui erano diretti [2]. Inoltre è quasi impossibile per noi immaginare che cosa significasse vivere nella Palestina del tempo di Gesú, in una congerie di tensioni politiche, sociali, spirituali, tra giudaismo rabbinico, escatologie (alcune di origine straniera), attese messianiche e apocalittiche, tra influssi di culti provenienti da ogni dove. C'era chi accettava di buon grado il dominio romano, che tutto sommato permetteva una vita abbastanza pacifica lasciando la libertà di rispettare la Legge dei padri, e chi non tollerava la subalternità ai pagani, stranieri nelle leggi e nella sensibilità religiosa, e incitava alla ribellione. Profeti, maestri, rabbi, sapienti, presunti messia: tutti facevano udire la loro voce. Chi era Gesù in tutto questo? La sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» – riportata in Marco, in Matteo, in Luca – è risuonata nei secoli suscitando risposte su cui gli interpreti, i teologi, le chiese, i fedeli si sono arrovellati.
Mi sembra opportuno lasciare Gesti in questa indeterminatezza piuttosto che avvolgerlo nei lacci delle dottrine che piú tardi sono state edificate intorno alla sua figura. E limitarci, per ora, a osservare in che modo ha nominato Dio, e quali suggerimenti ne possono venire anche a noi. Anche per capire se nel mondo «dopo Dio» [3] ha ancora un qualche senso parlare di Dio come materia viva, o se dobbiamo custodirlo nel prezioso scrigno dove riposano i «classici».
Da quanto ricaviamo dai testi, presupponendo che si possa ricostruire immaginariamente una sorta di «biografia» di Gesú, la prima volta in cui Gesú nomina il Padre è quando, fanciullo ma già in età di consapevolezza, a dodici anni, sfuggito alla sorveglianza dei genitori, viene poi ritrovato nel tempio di Gerusalemme, seduto in mezzo ai maestri, mentre discute con loro di questioni teologiche. Alla madre che gli chiede ragione del suo comportamento risponde: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2, 49). Ecco che il Padre è già l'orizzonte in cui si inscrive il destino consapevolmente vissuto di un ragazzo che sta per diventare uomo, e che individua con chiarezza il suo compito nella vita che gli si schiude. Le «cose» del Padre mio: sono chiamato a «qualcosa» in questa vita. Ho sentito un «richiamo» che farà della mia vita qualcosa di speciale.
Ora, quel «Padre» sarà di volta in volta «mio» e «di tutti», «mio e vostro», e soprattutto «Padre nostro»: il Padre di una piccola comunità di fedeli, che però poco per volta assume la configurazione di un'intera umanità. Perché se è vero che Gesti parlava all'interno delle comunità giudaiche, e che il suo appello, la sua predicazione, la sua passione erano diretti a quel popolo, a quella Legge che cercava di far comprendere a chi l'aveva smarrita nelle strade della storia, è anche indubitabile che quei discorsi accorati, tenaci, ostinati estraevano il succo della «Legge e i Profeti» non solo per quel piccolo popolo di Palestina, ma per la smarrita umanità nel vasto mondo. Furono gli apostoli – Paolo per primo, poi seguito da altri, e poi i discepoli itineranti, e poi le singole chiese – a estendere al mondo quella idea di «salvezza» per tutti, ottenuta non mediante il rispetto formale della Legge, ma mediante un ascolto che veniva dal cuore. Questa la grande «invenzione» di Paolo. Capire che quell'insegnamento che riformulava in maniera radicale la Legge e i Profeti degli antichi poteva essere esteso anche al di fuori dei confini di Israele. Ma se si scava dentro i racconti dei vangeli, non si può dubitare che dietro ogni volto che gli si parava di fronte Gesù stesso vedeva il volto di ogni essere umano in cerca di pace e di giustizia, di tenerezza e di felicità. Dietro ogni corpo sofferente scorgeva il penare di ogni uomo e di ogni donna, il loro sogno di uscire dalla schiavitù della malattia, della miseria, della colpa, della morte. Ci sono, tra le parole messe in bocca a Gesti, alcune che sembrano escludere la « salvezza» per i non giudei. Ma ce ne sono altre – la maggior parte – che decisamente includono «ogni» essere umano nell'abbraccio del Padre per le sue creature. Ci si potrebbe chiedere: a quali credere di più? Ma non sarebbe la domanda giusta. Secondo i moderni esegeti, le une e le altre appartengono a momenti diversi della stesura dei testi, a obiettivi diversi degli autori. Ma all'ombra di quella parola, «Padre», sembra rifiorire una realtà già contenuta nei testi più antichi: quella di essere tutti figli e figlie, e perciò fratelli e sorelle, appartenenti a una sola umanità. È questo che propone l'insegnamento: di riconoscersi in una sola «filialità», in un'uguaglianza di dignità, di rispetto, di reciproca cura. Di qui nasce il pensiero della «fraternità». Qualcuno ha davvero potuto pensare che il grande proclama della Rivoluzione francese, Liberté, Egalité, Fraternité fosse semplicemente il figlio tardivo dell'Illuminismo, nato per partenogenesi, e non discendente da una genealogia molto piú antica?
Proprio per questo è necessario, e piú proficuo, piú esatto forse, pensare Gesú come fratello, che come Signore.
Ma poi Gesú si fa «garante», giocandosi in questo fino in fondo la vita, di quella che lui chiama «la volontà del Padre». Che non consiste certo nella vuota preghiera di chi si mostra nelle sinagoghe e nelle piazze mentre invoca «vanamente» il nome del Signore: «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore" entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21). Non chi usa quel nome in maniera falsa e devota rispetta davvero l'insegnamento della Legge; ma, appunto, chi «fa la volontà del Padre mio»: cioè chi agisce con rettitudine, chi non cova vendetta ma apre le sue viscere al perdono, chi opera concretamente per la giustizia, chi si sporge dalla parte dei miseri, chi riesce a perdonare l'offesa per permettere all'offensore di andare al di là della sua colpa.
A Gesú vengono anche attribuiti appelli accorati al Padre, nelle sue preghiere piú intime, quando si ritira dalla folla e dagli amici, prima di affrontare la prova estrema, e nell'ultima invocazione sulla croce.
Quando si reca nel podere chiamato Getsemani, o monte degli Ulivi [4], la sua supplica è quella di un uomo che trema, che chiede aiuto nell'ora definitiva, consapevole però che quell'aiuto potrebbe non venire. «Abbà, Padre, tutto è possibile a te: allontana da me questo calice. Però non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi!» E visto che anche presso gli amici più vicini, i discepoli che erano sempre con lui, non trova ascolto né attenzione, torna di nuovo a pregare, ancora rivolgendosi al Padre, come chi sa che nel momento prima della fine solo al padre o alla madre ci si può rivolgere, i più solleciti sempre, anche se sono lontani. E forse – lo dico come estremo paradosso – anche se non ci sono più.
Infine, sulla croce, la preghiera di Gesù si fa grido, protesta, ma è comunque sempre al Padre che si rivolge, con l'ultimo rantolo che gli esce dalla gola: «Elì, elì, lemà sabactàni?», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Questo in Marco 15, 34, e in Matteo 27, 46. La formulazione disperata del grido di abbandono è stata ripresa, come è noto, dall'inizio del Salmo 22. In Luca (23, 46) non c'è grido. Ma un lamento composto, piú consapevole. Non protesta l'abbandono da parte del Padre. Piuttosto, si distende nel senso di resa di chi sta per morire: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
Nel Vangelo di Giovanni, che della storia di Gesú fa un racconto a parte, le ultime parole, definitive, sono: «E compiuto». Tutto è stato fatto. Non rimane che il silenzio e il lascito della sua vita.
Può sembrare singolare che proprio nel vangelo in cui il riferimento al Padre è piú presente, con una densità di ricorrenze massicciamente superiore rispetto agli altri testi, con un insistito discorrere quasi tra padre e figlio, manchi, proprio nel momento culminante, in quel punto estremo che è la morte sulla croce, un pensiero rivolto alla «paternità» di Dio. Invece, l'ultima preoccupazione per Gesù prima di spirare va al prossimo futuro, alla fondazione di quello che sarà un nucleo di comunità, costituito dalla madre e dal discepolo amato, dalla donna anziana che affida al discepolo giovane, e viceversa, uniti nell'amore per lui, e uniti nella ricezione e nella trasmissione di quel comando dell'amore che tante volte è stato riportato in tutti e quattro i vangeli. La comunità è in una vita di fraternità. Nessuna istituzione la potrà mai sostituire. «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lí io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).
Seguiranno poi, come per gli altri vangeli, i racconti di resurrezione, ma è così che si chiude la vita terrena del maestro, del rabbi, del profeta, del Signore, del figlio dell'uomo, o del figlio di Dio, del messia che Israele attendeva, tutti attributi che gli sono stati assegnati, alla ricerca di una definizione per quel singolare evento che è stato il percorrere le strade di Palestina di un uomo che annunciava, nel nome di Dio, una vita buona.

 

NOTE

1 Un autore contemporaneo, Manuel Vilas, quanto mai distante da un interesse religioso, legge tutta la vicenda cristiana nella figura di un rapporto paterno-filiale. Questo peraltro è il Leitmotiv dell'intero libro In tutto c'è stata bellezza (Guanda, Milano 2019), un romanzo autobiografico dedicato a fare memoria dei genitori ormai morti, trasfigurandoli in un'aura di bellezza, di perfezione, di nostalgia.
2 La ricerca intorno alla datazione dei vangeli canonici è tuttora in corso. Anche se gli studiosi tendono sempre più a spostare la stesura definitiva intorno ai primi decenni del II secolo, per convenzione si colloca il Vangelo di Marco intorno all'anno 70 (l'anno della distruzione del tempio di Gerusalemme per opera dei Romani); Matteo e Luca si collocano un po' più tardi, negli anni Ottanta e Novanta del I secolo; mentre il Vangelo di Giovanni si situa intorno alla fine del i secolo.
3 Questo il titolo dell'ultimo libro di Peter Sloterdijk, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
4 Mc 14, 32-39; Mt 26, 36-42; Lc 22, 32-38.

(La parola Dio, Einaudi 2019, pp. 33-40)