Sulla lentezza,
sulle frontiere
Estratti da "Il pensiero meridiano"
Franco Cassano
2. Lentezza
La rivendicazione del valore della lentezza, che nel libro ricorre soprattutto nel primo capitolo e nella seconda parte (Homo currens), è uno dei punti che più ha colpito i lettori, dividendoli in una larga maggioranza di consenzienti e una minoranza che in quell’elogio ha visto l’eco di una nostalgia reazionaria di un sud idealizzato, che non è mai esistito e dal cui fascino è bene liberarsi al più presto.
Non staremo qui a ricordare che l’elogio di un tempo lento non è un monopolio del pensiero meridiano e che esso ricorre nell’opera di molti scrittori ed artisti, spesso molto lontani dal sud, almeno da quello geografico [1]. Più modestamente quell’elogio si proponeva di estendere la coscienza che l’identificazione del progresso con l’accelerazione distrugge forme di esperienza preziose e indispensabili per l’uomo. L’idea che le tradizioni siano riducibili ad una miscela di superstizioni e repressioni è una banalità imperdonabile, la logica conseguenza di uno sguardo affrettato ed arrogante, sicuro di avere solo da insegnare agli altri e mai nulla da imparare da essi. Tra gli altri meriti, Gregory Bateson ha avuto quello di insegnarci a leggere nelle tradizioni un deposito di sapienza ecologica, di coscienza del limite, che è stato poi dissolto dal trionfalismo espansivo della modernità [2]. Uno sguardo equo e scevro da pregiudizi scoprirebbe che ci sono esperienze che con l’aumento della velocità si deteriorano profondamente o addirittura scompaiono, dall’amore e la cura per l’altro alla riflessione, dall’educazione alla convivialità, a tutte quelle attività e qualità che, per esistere, hanno bisogno di respirare un tempo largo, di disporre dell’ossigeno della durata. L’assolutizzazione della velocità produce una grave deformazione o mutilazione dell’esperienza, e ciò che va perduto viene spesso sostituito da qualcosa che porta ancora lo stesso nome, ma ne costituisce solo una terribile caricatura. L’amore più rapido è quello a pagamento, l’educazione velocizzata presuppone che si possa comprimere nel tempo a piacimento la digestione del sapere. Il fast food mette allo stesso tavolo, gli uni accanto agli altri, gli sguardi di individui estranei ed assorti nei loro bilanci solitari. Anche il luogo del cum-vivere perde il cum e diventa un non-luogo attraversato da atomi solitari.
Certo, la velocità (se ne può dubitare?) aumenta alcune facoltà e ne crea di nuove, ma al contempo ne riduce altre, mette a disposizione il mondo, ma ne getta via con sprezzo una parte. Non si tratta di edificare reattivamente un fondamentalismo della lentezza, ma, anche qui, di esplorare l’ambivalenza della velocità, per scoprire che un reale progresso nasce solo dalla possibilità di disporre di una molteplicità di tempi. I pericoli che l’homo currens produce non nascono dalla velocità, ma dalla sua assolutizzazione, dall’identificazione di essa con il progresso.
L’arroganza e l’ottusità del cosiddetto «pensiero unico» vengono allo scoperto proprio su questo punto: tutto ciò che non rientra nei canoni predeterminati viene assegnato ad una sorta di resistenza temporale, ad un passato che rifiuta di passare, viene etichettato come nostalgia. A chi fa osservare che l’espressione «pensiero unico» è rozzamente polemica e riduttiva, perché fa scomparire le differenze che lo attraversano, si può serenamente rispondere che la chiusura di quel pensiero la si può vedere all’opera proprio qui, in una concezione del tempo storico che, ponendo l’Occidente come meta necessaria di ogni progresso, classifica come regressiva ogni alternativa alla forma di vita dominante. Chi scambia la difesa della lentezza per una forma di nostalgia, lo fa perché ha già ridotto l’ambito del possibile ad una pura prosecuzione del presente, ai rapporti di forza e ai meccanismi in esso consegnati. E proprio per questo chiude il mondo.
Certamente l’inizio della velocizzazione del mondo non è di oggi, ma coincide con l’origine stessa della modernità, che lega finanche la sua etimologia (modo = ora, in questo momento) alla produzione incessante del nuovo, a «ciò che vale adesso», alla coscienza della novità del presente. Koselleck vede il tratto specifico della modernità proprio in questa distanza crescente tra esperienza e aspettative: il passato non serve più ad orientare l’azione, che si sintonizza sul futuro [3]. Ed è Luhmann a ricordarci a chiare lettere che la temporalizzazione della complessità è il tratto distintivo della modernità [4]. Tale accelerazione però procede in progressione geometrica e cresce fino a diventare una valanga.
La stessa modernità capitalistica conosce del resto più stadi, caratterizzati da una crescente accelerazione, che spinge ad uno sbriciolamento di tutti gli ostacoli: è quello che Zygmunt Bauman chiama passaggio dalla modernità solida a quella liquida, dalla modernità pesante a quella leggera [5]. Le metafore parlano chiaramente: la pervasività spaziale dell’acqua e la volatilità che accompagna la leggerezza esibiscono in modo netto che sotto attacco è qualsiasi forma di durata. Entra in crisi anche la permanenza delle rovine, che ci ricordano, nel loro durare ed arrivare fino a noi, la nostra caducità. Come dice Marc Augé, «La storia futura non produrrà più rovine. Non ne ha il tempo» [6]. Essa produrrà solo rifiuti, assediata dal passato prossimo del suo metabolismo. Tutti i contrappesi all’accelerazione, anche quelli moderni, vengono gettati via come zavorre e la stessa storia della modernità viene disegnata da una filosofia della storia dura e prescrittiva: tutto ciò che frena l’accelerazione del profitto, lo scioglimento delle molecole sociali nella dispersione competitiva del mercato, in un individualismo senza rimedio, va assecondato come una legge di natura.
Richard Sennett [7] ha messo in rilievo come questa accelerazione crescente produca una corrispondente difficoltà a definire la calcolabilità del futuro, accorciando sempre più l’arco di tempo su cui l’azione può fare affidamento. Siamo in altri termini di fronte ad una modificazione radicale dei parametri classici della stessa modernità, fondati su una spazializzazione del tempo e quindi sulla sua calcolabilità (si pensi non solo ai modelli della razionalità weberiana, ma anche alla riflessione di Norbert Elias [8]. Se nella modernità classica il futuro orientava l’azione, nella modernità liquida il respiro si accorcia e il presente conquista il centro della scena.
La deriva liberistica del capitalismo globale e la centralità della sua forma finanziaria producono una restrizione dell’orizzonte temporale, l’assolutizzazione e la sacralizzazione del presente, unico orizzonte sicuro ed empiricamente controllabile dell’esperienza, una vera e propria «tirannia dell’urgenza» [9], che sbriciola la stabilità di qualsiasi aspettativa. La progressione geometrica decostruisce le forme fondamentali della modernità classica, troppo rigide e «terrestri» per potersi muovere nello spazio oceanico della modernità liquida. È quella che molti hanno definito crisi dello stato-nazione di fronte alle dinamiche avvolgenti e deterritorializzanti della globalizzazione. Le strutture che nella modernità classica avevano offerto, sia pure con alcune controindicazioni, protezione, durata e affidabilità delle aspettative, utilità di medio e lungo periodo e nozioni di interesse collettivo, entrano in crisi. Ecco perché la liquefazione della modernità coincide con un’individualizzazione crescente dell’esperienza [10], con la liberazione dell’individuo da tutti gli oneri sociali, percepiti come inaccettabili limitazioni di una libertà sempre più radicale e insofferente.
La distruzione crescente delle strutture che producono sicurezza e affidabilità non si riferisce solo al crescente deperimento delle istituzioni pubbliche: la tirannia dell’urgenza influisce anche sui comportamenti economici. Gli stessi manager, per poter conseguire risultati brillanti, capaci di promuoverli sul mercato del lavoro, spremono non solo la manodopera, ma tutti gli impianti, mettendone a rischio la durata e l’efficienza. Come dimostra Robert Jackall [11], chi succede nella direzione di un’azienda ad un manager di successo si troverà di fronte a grandi problemi, perché sicuramente il suo predecessore ha costruito la sua fortuna «drogando» l’impianto e forzando al massimo tutte le attività. D’altra parte non può sorprendere che, di fronte alla prestidigitazione finanziaria e ai giochi di specchi che la caratterizzano, i controlli divengano molto più difficili ed opinabili. Essi, venendo affidati al mercato e ad agenzie in concorrenza tra loro, perdono sempre più rigore, favorendo la proliferazione di comportamenti che aggirano le regole e «drogano» le rappresentazioni contabili [12].
Chi parla oggi di lentezza non guarda indietro, ma si occupa dei problemi del presente, che diventeranno ancora più acuti nei prossimi anni [13]. Né si possono dimenticare le osservazioni di Agnes Heller sui danni che l’accelerazione produce sulla memoria sociale, la perdita di sapere intergenerazionale e di apertura alla complessità del mondo che da questa menomazione deriva. La centralità dell’utile erode la memoria, perché «l’interesse ha bisogno solo di una memoria a breve termine, non di una a lungo termine, e tanto meno di una memoria culturale» [14]; esso «non crede nella ripetizione, è anticerimoniale». Laddove tutto può essere continuamente rinegoziato non c’è più spazio per la memoria, che diventa un impedimento, un ingombro, un limite alla libertà di movimento, che ha bisogno, se vuole essere assoluta, di dissolvere come un vincolo arcaico tutti i «cum», sia nel tempo che nello spazio.
Le conseguenze sulle persone di questo processo di accelerazione del nuovo capitalismo sono state studiate magistralmente da Sennett in The Corrosion of Character. La qualità della vita, la sua sicurezza e la sua stessa riconoscibilità nel tempo vanno progressivamente perdendosi, e si avvia una frammentazione senza rimedio dell’identità. Certo, ci sono coloro che riescono a vivere bene in questo moto perpetuo, che chiede di diventare a tutti dei provetti surfisti. Bill Gates per esempio – nota Sennett – «non sembra affatto ossessionato dalla durata delle cose. I suoi prodotti appaiono e scompaiono con la stessa rapidità» [15]. Egli infatti è un signore dell’innovazione, un perfetto surfista, ma gli individui «mobili» sono solo una parte della società: sugli altri grava l’incubo e molto spesso la realtà del fallimento.
Questo «regime temporale», che dice «basta con il lungo termine» ed accorcia sempre di più la fiducia, produce anche una precisa gerarchia: «I cambiamenti irreversibili, e le attività molteplici e frammentate possono essere l’habitat naturale per i signori del nuovo regime, ma disorientano i servi» [16]. Ancor più drammaticamente Bauman dice: «Oggi accade [...] che alcuni possano uscire dalla località – da qualsiasi località – mentre altri guardano invece disperati al fatto che l’unica località che gli appartiene e abitano gli sta sparendo da sotto i piedi» [17]. Ci sarebbe da aggiungere che oggi il processo è così avanzato che ad «uscire dalla località» non sono soltanto i forti, ma anche i deboli, gli uomini in fuga dalle repressioni e dalle depressioni, i migranti di tutto il mondo.
Insomma il turbocapitalismo getta via tutte le zavorre per correre sempre di più, ma i pesi di cui si libera sono le strutture elementari delle relazioni sociali, quella affidabilità che rende attendibili (letteralmente: che possono essere attesi) gli individui e le istituzioni, gli antidoti preventivi contro ogni deriva anomica. Probabilmente tra queste zavorre ci sono molte risorse sociali preziose, che solo una critica del dispotismo della velocità permetterebbe di ricominciare a enumerare e a recuperare. Ancora una volta non si tratta di ritornare al passato. Non siamo di fronte ad un banale rimpianto di una modernità passata di moda, ma alla necessità di scegliere tra l’accodarsi ad una deriva distruttiva e un’altra possibilità. Si tratta di arricchire il futuro, di non rassegnarsi all’idea che esso debba essere dominato da cattedrali di rifiuti (il rovescio rimosso della retorica dell’innovazione). In queste «discariche» si aggirano non solo miliardi di esseri umani, ma anche forme di relazione ed esperienza preziose per un mondo più giusto e più saggio, libero dal delirio di Faust e capace, come Peter Handke, di cantare la durata [18].
Sia permesso infine un inciso: nella società dominata dal fondamentalismo della velocità la democrazia costituisce un’insopportabile perdita di tempo, un’altra delle forme di esperienza che, timbrandole con l’autorità di un post, sembra di dover consegnare al passato. Eppure ciò che di più prezioso c’è nella nostra tradizione è proprio l’abitudine alla discussione, questo perdere tempo che si può sorprendere in azione anche solo sfogliando i Dialoghi di Platone. In essi i diversi protagonisti si rincorrono di giorno in giorno, dando vita ad una discussione su tutti gli argomenti, dall’amore alla virtù, dal governo alla giustizia. Socrate può concludere questa discussione solo provvisoriamente, perché essa è virtualmente infinita. Quella discussione illimitata, in cui Habermas vede i fondamenti di legittimità delle istituzioni della democrazia moderna, è una terribile perdita di tempo rispetto ai parametri dell’homo currens, ma assolutamente indispensabile per riequilibrare le nostre società, nelle quali l’agire comunicativo sembra essere diventato il semplice supporto del dominio illimitato dell’agire strumentale, e ogni forma di comunicazione appare colonizzata dal profitto. È difficile pensare ad una discussione illimitata senza presupporre una larga disponibilità di tempo, senza prendere sul serio quella che Hirschman chiama commensality [19], senza l’incontrarsi di coloro che discutono in qualche luogo comune, in qualche piazza, fisica o elettronica. Probabilmente la democrazia presuppone un a priori temporale, e non è possibile a qualsiasi velocità. Quando il tachimetro va troppo oltre, essa non è più sovrana, ma l’ancella del nuovo padrone, un simulacro di se stessa, parte di una macchina che non solo lascia gli ultimi a piedi, ma ne allarga ad ogni secondo il numero e il risentimento.
Rivendicare l’autonomia culturale del sud non è quindi l’inizio di una battaglia separata, ma l’articolazione di un bisogno cruciale, che non è una prerogativa esclusiva degli uomini e delle donne del sud. Significa interrogarsi sulla nostra forma di modernità, pensare la differenza tra essa ed altri percorsi non consegnati al primato dell’ossessione competitiva e al dominio dell’illusione economica. Significa anche pensare un’idea di Europa autonoma da quella lettura che la riduce ad uno stadio arretrato ed evolutivamente inferiore degli Stati Uniti. Arrivando in Europa poco più di un secolo fa lo scrittore afro-americano W.E.B. Du Bois scriveva: «L’Europa ha modificato profondamente la mia visione della vita [...]. Prima andavo, soprattutto, di fretta. Volevo un mondo duro, liscio e veloce, e non avevo tempo per smussare gli angoli e gli ornamenti, per il pensiero meditato e per la calma contemplazione» [20]. L’Europa, se non vuole perdersi e aspira seriamente a costruire una figura autonoma di sé, ha molto da imparare dal suo sud e dal sud in generale.
Capitolo primo. Andare lenti
1. Pensare a piedi
Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada.
Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto esser felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo.
Andare lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall’estate, andare col vento di una barca e zigzagare per andar dritti. Andare lenti è conoscere le mille differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all’ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. Andare lenti è ruminare, imitare lo sguardo infinito dei buoi, l’attesa paziente dei cani, sapersi riempire la giornata con un tramonto, pane e olio. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti.
Andare lenti è il filosofare di tutti, vivere ad un’altra velocità, più vicini agli inizi e alle fini, laddove si fa l’esperienza grande del mondo, appena entrati in esso o vicini al congedo. Andare lenti significa poter scendere senza farsi male, non annegarsi nelle emozioni industriali, ma essere fedeli a tutti i sensi, assaggiare con il corpo la terra che attraversiamo. Andare lenti vuol dire ringraziare il mondo, farsene riempire. C’è più vita in dieci chilometri lenti e a piedi che in una rotta transoceanica che ti affoga nella tua solitudine progettante, un’ingordigia che non sa digerire. Si ospitano più altri quando si guarda un cane, un’uscita da scuola, un affacciarsi al balcone, quando in una sosta buia si osserva un giocare a carte, che in un volare, in un faxare, in un internettare. Questo pensiero lento è l’unico pensiero, l’altro è il pensiero che serve a far funzionare la macchina, che ne aumenta la velocità, che si illude di poterlo fare all’infinito. Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica.
Bisogna sin da adesso camminare, pensare a piedi, guardare lentamente le case, scoprire quando il loro ammucchiarsi diventa volgare, desiderare che dietro di esse torni a vedersi il mare. Bisogna pensare la Misura che non è pensabile senza l’andare a piedi, senza fermarsi a guardare gli escrementi degli altri uomini in fuga su macchine veloci. Nessuna saggezza può venire dalla rimozione dei rifiuti. È da questi, dal loro accumulo, dalla merda industriale del mondo che bisogna ripartire se si vuole pensare al futuro. I veloci, i progettanti, i convegnisti, i giornalisti consumano voracemente il mondo e pensano di migliorarlo. La lentezza sa amare la velocità, sa apprezzarne la trasgressione, desidera anche se teme (quanta complessità apre questa contraddizione!) la profanazione contenuta nella velocità, ma la profanazione di massa non ha nulla della sacertà che pure si annida nel sacrilegio, è l’empietà senza valore, un diritto universale all’oltraggio. Nessuna esperienza è più stolida della velocità di massa, della profanazione che non si sa.
Capitolo terzo. Pensare la frontiera
1. L’inquietudine della frontiera
«Un piccolo paese è un paese che è stato grande e se ne ricorda»: così Georges Simenon (1994) in un breve e splendido racconto dal titolo Frontiere. È sulle frontiere che si misura tutta la terribile inquietudine che attraversa la storia degli uomini.
La parola frontiera viene dal latino frons, frontis, «fronte». Le frontiere sono i luoghi in cui i paesi e gli uomini che li abitano si incontrano e stanno di fronte. Questo essere di fronte può significare molte cose: in primo luogo guardare l’altro, acquisirne conoscenza, confrontarsi, capire che cosa ci si può attendere da lui. Ma l’esistenza dell’altro può essere un’insidia. Come nella dialettica delle «autocoscienze opposte» di Hegel (1967), in questo star di fronte è in palio il riconoscimento. Le frontiere più inquiete sono quelle che non vengono riconosciute.
Non per caso la parola fronte viene usata anche per rappresentare il massimo dell’ostilità, il fronte, la prima linea della guerra; è anche all’origine di fronteggiare (che è un verbo che si usa per le battaglie), di affrontare, affronto e di frontale, un aggettivo che si usa quasi soltanto per parlare degli scontri automobilistici. Ci si può guardare e stare di fronte come i giovani americani che facevano il chicken game (letteralmente, «gioco del pollo», nel senso di «codardo»): una macchina contro l’altra lanciate a folle velocità, vince chi non scarta e non si sposta rispetto all’altro. Una fronte esclude l’altra.
Le frontiere sono state e sono in primo luogo questo: luoghi della divisione e della contrapposizione, luoghi di uomini che stanno di fronte, ognuno dei quali vigila l’altro. Stare di fronte vuol dire guardare, sorvegliare, non dare le spalle. Le spalle si danno soltanto a coloro di cui ci si fida e che non hanno bisogno di essere seguiti con lo sguardo. L’insicurezza delle frontiere non riguarda solo le zone di confine, ma arriva fino alla capitale. Le porte del tempio di Giano (da ianua, porta, la frontiera tra l’interno e l’esterno della casa) venivano aperte in tempo di guerra, quando occorreva vigilare su tutti i confini e solo un dio bi-fronte può guardare in tutte le direzioni senza correre il rischio di essere aggredito alle spalle. Il vero e proprio dio dei confini era però il dio Termine, l’unico che rifiutò di cedere il proprio posto a Giove allorché venne edificato il tempio a quest’ultimo. La statua di Termine fu l’unica che rimase nel tempio di Giove: nessuna maestà senza la sicurezza dei confini.
Giano da parte sua vigilava sull’inizio e sulla fine di tutte le cose. Sul confine, sul limite ognuno di noi termina e viene determinato, acquista la sua forma, accetta il suo essere limitato da qualcosa d’altro che ovviamente è anch’esso limitato da noi. Il termine de-termina e il con-fine de-finisce. Questa reciprocità del finire, questo terminarsi addosso è inevitabile e incurabile. Il sospetto che il limite sia ingiusto o che tale venga ritenuto dall’altro è inseparabile da questo delimitarsi a vicenda, da questo nostro finire dove l’altro comincia. La sua forma più alta e organizzata è la paranoia di ogni confine leggibile sulla faccia delle guardie di frontiera, nella loro paura armata di mitra. Da ogni fortino si spia un deserto dei tartari e l’angoscia diventa ordinaria. È come se l’ipocondria fosse l’unica forma in cui si dà la salute. Quando ispezioniamo continuamente i confini (anche quelli nostri, quelli interni) siamo come le talpe di Kafka, non riusciamo più a distinguere i sibili esterni da quelli prodotti dal nostro cervello e dalla nostra tensione. È per questo che sui confini circolano molti fantasmi e le manovre del nemico si confondono nella nebbia con le manovre della mente e della paura.
È ritornata recentemente in auge una disciplina, la geopolitica, che si occupa proprio degli interessi di politica estera degli stati, delle loro rivalità territoriali, del contrasto tra i confini esistenti e quelli cui si aspira. Essa pretende di sorvegliare questa perenne e terribile inquietudine degli uomini circa il limes, si offre come un rimedio razionale per la loro insanabile insicurezza ma forse non fa che aumentarla. Ci sono discipline inevitabili come gli incubi.
2. L’ambivalenza della frontiera
Ma la frontiera unifica nel momento stesso in cui separa. In primo luogo unifica tutti coloro che da essa vengono messi insieme, in una sola figura. Ogni perimetro ha un enorme potere: dividendo in due lo spazio esso fissa la regola fondamentale, mette insieme i punti dello spazio proprio dividendoli. Ogni atto di fondazione è all’origine un atto di divisione: una città che nasce si divide da tutte le altre, alle sue origini ci sono un atto e un patto omicida, un sacrificio (Girard, 1989). Romolo uccide Remo perché ha confuso-offeso il solco del confine. Il confine è sacro perché custodisce il rapporto tra identità e differenza, in quanto costruisce-identifica una comunità proprio attraverso la sua contrapposizione alle altre, a tutte le altre. Ogni comunità, anche la più pacifica, se è vera comunità, è anche vera ostilità. Nulla unisce un gruppo più della celebrazione dei propri caduti, a nessun dolore ogni comunità è più attaccata che a quello procurato dal comune nemico. Noi veniamo unificati dai martiri noti e dai militi ignoti.
La frontiera quindi non unisce e separa, ma unisce in quanto separa. Anche laddove le comunità sembrano scavalcare incuranti i confini questi ultimi sono all’opera: l’identità nomade proprio perché possiede una precarietà spaziale viene custodita con un legame molto più forte, con un’austerità e un controllo reciproco che allargano il confine con i sedentari. Non si appartiene alle patrie che vengono attraversate, ma a quell’unica che le attraversa mantenendo forti i propri legami (Simmel, 1989). La linea di confine non ha bisogno del filo spinato per legare gli uomini. Anche le comunità di fraternità ed universalistiche si separano ed entrano in guerra: si tratti di evangelizzare il mondo o di battersi per il comunismo, tutto passa attraverso la costruzione di soggettività nuove e quindi di nuove frontiere. Dalle frontiere è difficile liberarsi. Ma di questo più tardi.
C’è un altro lato dal quale la frontiera unisce. Come già s’è detto frontiera, confine, limite, bordo, margine sono anche l’insieme dei punti che si hanno in comune. Con un altro paese si ha la stessa frontiera perché la linea di divisione è anche il tratto in comune che si ha con esso, il luogo dei punti in cui ci si tocca. L’ostilità assoluta non permette questo contatto e tra gli eserciti c’è una terra di nessuno, una separazione e un intervallo perché il contatto coinciderebbe con la lotta e l’aggressione. Non a caso coloro che separano i contendenti li lasciano andare solo quando sono sicuri che non approfitteranno della loro libertà per tornare a colpirsi: la mediazione è un porsi in mezzo, inserire dei corpi nella terra di nessuno dimostrando che l’ostilità può essere ridotta e controllata. La pace inizia allorché ci si può tornare a toccare ai propri confini, quando sono possibili con-tiguità e con-tatto.
Con-fine vuol dire infatti anche contatto, punto in comune e le guardie di frontiera condividono il paesaggio anche se lo tengono diviso. Insomma ci può essere un lato debole del confine, un confine che unifica e non contrappone, un confine in cui la prima parte della parola (con) vince sulla seconda (fine), una separazione che si contraddice perché per gestire la separazione si ricorre ad uomini, e questi, si sa, possono anche tradire, parlare con il nemico. In tutte le zone di frontiera quando la tensione non è esplosiva possono nascere complicità e connivenze, indebolimenti consensuali del confine. C’è un’economia illecita che spesso collega le popolazioni di frontiera e indebolisce la sacralità dei confini rendendoli permeabili.
È inevitabile che laddove c’è separazione si affollino anche tutti i verbi e i sostantivi che iniziano con trans: si transita, si attraversa, si trasporta, si trasferisce, si trasmette, si trapianta e si trasloca, si transige; si possono incontrare trafficanti, traduttori e traditori, traghettatori di transfughi e trasgressori travestiti.
Insomma la tendenza alla separazione si fa valere, ma la forza contraria, quella che associa, non rimane a guardare e si vale anche di mezzi illeciti: è la stessa debolezza degli uomini che li salva dall’integralismo degli stati. Di notte, quando lo sguardo degli stati è più debole, si può passare il confine ed esistono esperti passeurs che conoscono valichi e passaggi. Ogni frontiera porta con sé come un’ombra la sua violazione, qualcosa che è contro il bando degli stati.
3. La frontiera come ferita
Quando in un paese c’è sofferenza e guerra ai suoi confini si affollano come in uno splendido film di Anghelopoulos profughi che dormono nei vagoni e vivono di espedienti, esseri definitivamente provvisori che possono essere rispediti indietro oppure sognano di andare altrove anche se il loro destino è quello di rimanere profughi di confine per tutta la vita. Gli stati costruiscono e custodiscono tralicci, sbarrano le vie di comunicazione con l’altra parte mentre moltiplicano quelle con gli stati maggiori. Guarnigioni di soldati gridano le loro fedeltà ad ogni alzabandiera mentre il fiume-confine divide gli sposi: è presso i confini che come una vegetazione spontanea cresce il proletariato della storia e della politica, un’umanità umiliata e offesa, vittima delle polizie e delle pulizie, divisa dalla lingua, dalla religione, dalla politica e unificata solo dal suo essere scarto e residuo del potere, qualcosa che rimane fuori dei discorsi trionfanti e non ha trovato le parole capaci di ricomporre i suoi mille sogni contraddittori.
Anghelopoulos sembra dirci che non è andando verso il centro dell’identità e verso le capitali degli stati che si trova il futuro. Nelle capitali dove sembra che esista il cuore della comunità degli uomini esiste invece soltanto la sua separazione dalle altre comunità, da quelle che sono al di là della frontiera. Questa unità che talvolta i popoli cantano in coro e con orgoglio è la contemporanea disunità dell’umanità, è un’unità che per custodirsi sicura ha bisogno di frontiere e di esclusioni. Questa solidarietà troppo corta, fondata e insieme strozzata dal limes (via traversa) è il segno dell’indigenza nella quale viviamo. Gli archi di trionfo e i viali della vittoria, la celebrazione solo in apparenza innocente del proprio «sacro» scavano silenziosamente baratri invalicabili. I barbari, ricorda Costantino Kavafis (1968, 39), erano una soluzione.
La direzione opposta è quella che va verso la frontiera, un percorso lungo il quale tutto diventa meno fermo e sicuro e l’univocità delle parole e dei segni si indebolisce. Laddove già nella segnaletica stradale iniziano a raddoppiarsi i nomi, tutto diventa dubbio in quanto diventa doppio. Ma vicino alla frontiera si cumulano macerie: nella diaspora feroce di tutti i profughi si ritrova un’umanità unificata dalla sofferenza e dal naufragio dei propri sogni. Lungo le frontiere la comune umanità viene divisa e lacerata. Anghelopoulos (1991) contempla queste piaghe e sembra indicarci il bisogno di un tempo promettente. Non un bolso estetismo dell’altro, ma un radicarsi laddove la fraternità conosce le sue quotidiane disfatte, un’attesa che potrebbe durare in eterno oppure finire già domani quando nascerà una parola oggi inimmaginabile. L’attesa ha senso dove più forte è la lacerazione. Il titolo del film, Il passo sospeso della cicogna, ci ricorda che le cicogne non conoscono le frontiere. Un’indicazione metapolitica che ci viene dagli uccelli.
NOTE (al paragrafo sulla "lentezza")
[1] Lo si ritrova, infatti, anche in scrittori come Milan Kundera, Sten Nadolny e Robert Pirsig, ma anche in Peter Handke e nei reportages di Paolo Rumiz, nel cinema di Wim Wenders e Werner Herzog, di Theodoros Anghelopoulos e Abbas Kiarostami, e anche, imprevedibilmente, in quello di David Lynch. Non solo: la rivendicazione di un tempo dell’esperienza lento accomuna tutti coloro che s’interrogano sui temi della qualità della vita, da Ivan Illich a Carlo Petrini, ispiratore delle catene dello Slow Food, da Pierre Sansot a David Le Breton e tanti altri. O ancora interseca la scrittura di Erri De Luca, attraversa molti musicisti non solo del sud, si affaccia in alcune pagine limpide e toccanti di Alex Langer, che al motto dei giochi olimpici, «citius, altius, fortius», fondato sul modello della competizione, contrappone la riscoperta del valore del «limite» e quindi un altro motto: «lentius, profundius, soavius» (A. Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 1996, pp. 328-332. Ma si veda anche il testo dell’intervento al Convegno giovanile di Assisi del 1994, comparso su «Rocca» e leggibile oggi sul web, al sito www.peacelink.it).
[2] G. Bateson-M.C. Bateson, Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano 1989.
[3] R. Koselleck, Futuro passato, Marietti, Genova 1986, ma anche R. Koselleck-Ch. Meier, Progresso, Marsilio, Venezia 1991.
[4] N. Luhmann, The Future cannot begin. Temporal Structures, in The Differentiation of Society, Columbia University Press, New York 1982, pp. 271-288.
[5] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.
[6] M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 137.
[7] R. Sennett, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, Norton & Company, New York-London 1999 (trad. it.: L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 103-107).
[8] Sulla «razionalizzazione della condotta» di Max Weber sono da vedere almeno il classico L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991 ed Economia e Società, Comunità, Milano 1961. Di Norbert Elias si veda il Saggio sul tempo, Il Mulino, Bologna 1986.
[9] Z. Laîdi, La tyrannie de l’urgence, Editions Fides, Montreal 1999. Ma di Laîdi si veda anche Le sacre du présent, Flammarion, Paris 2000.
[10] Bauman, Modernità liquida, cit., ma anche La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna 2002, e Società, etica, politica, Conversazioni con K. Ester, Cortina, Milano 2002, pp. 105-134. Di Ulrich Beck, che legge il fenomeno in un’altra prospettiva, sono da vedere La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000 e I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2000.
[11] R. Jackall, Labirinti morali. Il mondo ambiguo dei manager, Comunità, Milano 2001.
[12] Si veda di M. Rossi, Il conflitto endemico, Adelphi, Milano 2003. Ma si vedano anche le osservazioni di A. Pizzorno in L’ordine giuridico e statale nella globalizzazione, in D. Della Porta e L. Mosca (a cura di), Globalizzazione e movimenti sociali, Manifestolibri, Roma 2003, pp. 221-237.
[13] Sulla Acceleration Society esiste una riflessione di cui nel nostro paese solo adesso s’inizia a vedere qualche profilo, da Paul Virilio a David Harvey, da Zaki Laîdi a James Gleick, da Lothar Baier a Thomas H. Eriksen, Michel Blayr, Carl Honoré, alla recente discussione tenutasi su «Constellations» (vol. 10, 1, 2003, pp. 3-52) sulle tesi di Hartmuth Rosa. In particolare si veda l’intervento di C. Leccardi, Resisting «Acceleration Society», in ivi, pp. 34-41.
[14] A. Heller, Cultural Memory, Identity and Civil Society, in «Politik und Gesellschaft Online, International Poltics and Society», 2, 2001, https://library.fes.de/pdf-files/ipg/ipg-2001-2/artheller.pdf.
[15] Sennett, L’uomo flessibile, cit., p. 61.
[16] Ivi, p. 188.
[17] Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 22.
[18] P. Handke, Canto alla durata, Braitan, Brezzano (Gorizia) 1988.
[19] A.O. Hirschman, Melding the Public and Private Spheres: Taking Commensality Seriously, in Crossing Boundaries. Selected Writings, Zone Books, New York 2001, pp. 11-32.
[20] W.E.B. Du Bois, Dusk of Dawn, in Du Bois Writings, Library of America, New York 1986, citato in P. Gilroy, The Black Atlantic. Identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma 2003, p. 17.
(Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza 2005, passim)