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    Viaggio nelle grotte

    dove è nato Gesù

    Gianfranco Ravasi


    Betlemme. Nelle cavità sotto la Basilica della Natività non si trova solo la stella che indica il punto dove venne alla luce il Bambino. C’è anche la grotta assegnata ai Re Magi e quella in cui pregava e digiunava San Gerolamo


    Da ragazzetto sognavo due cose. Una grotta e una penna stilografica con tanti fogli bianchi. Ma la grotta che chiedevo per Natale (il casalingo presepio non mi soddisfaceva più) non era una qualsiasi caverna in qualche luogo delle mie contrade. La vagheggiavo proprio a Betlemme, giacché m’era stato detto che lì ce n’erano molte. Sognavo, dunque, questa doppia sorte: di abitare dov’era nato Gesù, dove il Natale era perpetuo… Un anno mi fu regalata, precocemente, la stilografica. Ma non la grotta, al viaggio dovetti rinunciare. Un prete che veniva per casa, saputo di quel mio progetto, disse ridendo che volevo proprio imitare san Girolamo…».
    Era il giugno 1986 e, accanto a me, nella grotta detta «di san Girolamo» a Betlemme, lo scrittore Luigi Santucci annotava queste righe autobiografiche che sarebbero poi entrate, l’anno dopo, nel volume Pellegrini in Terrasanta (ed. Paoline) che abbiamo composto a quattro mani. Era una sorta di doppia guida nelle cui pagine, a specchio, correvano il suo racconto e la mia descrizione storicoarcheologica di quei luoghi biblici. Ho, così, pensato di condurre idealmente, come avevo fatto allora con l’autore dell’Orfeo in paradiso, i lettori per questo Natale in quel reticolo di grotte che si ramificano sotto la grandiosa basilica bizantina della Natività a Betlemme. Ma prima risaliamo lungo il fiume della storia, ricreando un’antica vicenda.
    Stava per dar ordine ai suoi soldati di mettere mano alle torce incendiarie e alle balestre quando l’occhio gli cadde sulla facciata di quel tempio cristiano che voleva distruggere. Lassù erano raffigurati a mosaico tre personaggi che indossavano i suoi stessi abiti di gala. Bloccò, allora, l’attacco lasciando in piedi proprio quella basilica a cui sopra accennavamo. Era il 614 quando accadde questa sorta di miracolo, e quei tre personaggi erano i Magi che recavano i loro doni al neonato Gesù, mentre l’aspirante distruttore era il re persiano Cosroe. All’interno di quella chiesa, eretta nel 330 da Elena, la madre di Costantino, radicalmente ristrutturata nel 531 da Giustiniano e recentemente restaurata nella sua struttura, nei mosaici e negli affreschi delle navate, si aprono due scalinate parallele che conducono appunto alla Grotta della Natività di Cristo.
    Essa è ora gestita dagli ortodossi greci: sotto l’altare una stella d’argento - che subì avventure tormentate a causa dello scarso ecumenismo esistente in passato tra le varie confessioni cristiane col relativo corteo di aspre contese - reca questa iscrizione latina: Hic de Virgine Maria Jesus Christus.
    È, dunque, l’indicazione tradizionale del luogo della nascita di Gesù. A lato di questa grotta se ne apre un’altra affidata ai Francescani, ed è quella simbolicamente assegnata ai Magi venuti da Oriente (Matteo 2,1-12) e variamente identificati dagli studiosi: carovanieri commerciali di spezie, aromi e metalli preziosi, fedeli zoroastriani persiani, astronomi o astrologi babilonesi… Essi, come si è visto, secoli dopo salvarono quella basilica e la memoria betlemita del Natale.
    Ma sorge spontanea una domanda: Gesù è nato veramente in quella o in un’altra grotta? Non possiamo addentrarci nella questione complicatissima del «primo censimento» ordinato dal governatore romano di Siria Quirinio che l’evangelista Luca adotta come coordinata storica per la data di quella nascita. Che fosse, comunque, un censimento “etnico” per cui i vari soggetti della provincia imperiale di Giudea dovevano registrarsi nella sede d’origine del loro clan, è possibile. Fu per questo che da Nazaret in Galilea la coppia di Maria e Giuseppe (costui era di discendenza davidica) dovette trasferirsi a Betlemme, la città natale del re Davide.
    Ecco la scarna annotazione topografica di Luca: «Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nel katályma» (2,6-7). Abbiamo lasciato il vocabolo greco usato dall’evangelista: esso indica una «stanza o sala» da usare come alloggio. È interessante notare che Luca con lo stesso termine definisce il Cenacolo ove Gesù compirà la sua ultima cena pasquale (22,11). Per comprenderne bene la tipologia, è necessario risalire alla planimetria degli edifici residenziali popolari di allora, così da giustificare la sorprendente presenza di una «mangiatoia» (phátne).
    Le case modeste erano sostanzialmente costituite da un bilocale: da un lato, il katályma, la vasta stanza suddivisa in sala da pranzo e settore «notte»; d’altro lato, si apriva uno spazio costruito oppure scavato nella roccia, se si era in collina (Betlemme è a 777 metri), che fungeva da stalla per gli animali e anche come riparo in cui sostare e dormire durante il gelo dell’inverno. Si spiega, così, la presenza non solo della mangiatoia, ma anche del bue e dell’asino, aggiunti dalla tradizione popolare ma ignoti al Vangelo. A Giuseppe e alla sua sposa incinta i parenti poterono assegnare solo quel luogo secondario, non avendo spazio per loro nel katályma, l’alloggio principale, considerato forse anche l’affollamento di quei giorni di censimento.
    L’affascinante tradizione del presepio creato da san Francesco a Greccio nel 1223 ha reso più realistica e pittoresca la grotta che, come si è visto, poteva avere un suo fondamento reale. A questo punto, però, vorremmo riservare un cenno anche all’ironia bonaria di quel sacerdote che al piccolo Luigi Santucci ricordava la figura di san Girolamo. Come è noto, il famoso santo dalmata, traduttore della Bibbia in latino (la Vulgata) visse per 36 anni, dal 386 alla morte, a Betlemme, costituendo due monasteri, l’uno maschile e l’altro femminile (con Paola ed Eustochio, madre e figlia, nobildonne romane discendenti dei Gracchi).
    La tradizione ha attribuito anche a lui nella stessa area una grotta ove si ritirava a pregare, a digiunare e a studiare e che oggi è adattata a cappella. Viene spontaneo evocare l’iconografia del santo ambientata in quella cornice aspra. Lo facciamo con un celebre dipinto a olio di Leonardo da Vinci, collocato nella IX sala della Pinacoteca Vaticana, una tavola alta poco più di un metro e larga 74 cm, lasciata dall’artista in stato di abbozzo eseguito attorno al 1482. Rocambolesca è stata la sua scoperta ad opera di uno zio di Napoleone, il cardinale Joseph Fesch (1763-1839).
    Egli aveva identificato la parte inferiore adattata a coperchio di una cassa nella bottega di un rigattiere romano, mentre la superiore l’aveva ritrovata come piano di uno sgabello dal suo calzolaio. Forse la vicenda narrata dal cardinale ha un profilo leggendario; sta di fatto che gli studiosi sono convinti che la tavola fu sezionata in ben cinque pezzi! Girolamo vi appare col corpo scavato, genuflesso, emaciato per il digiuno, mentre impugna un sasso per percuotersi il petto. Nel volto si intravede già il teschio con occhi ardenti e imploranti infossati nelle loro cavità, mentre ai piedi è accovacciato con le fauci spalancate quasi in ammirazione, il leone, simbolo tradizionale di questo santo rude e veemente.

    (Il Sole 24 Ore - 18 dicembre 2022)


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