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    Considerazioni sparse, ma non troppo, sulla scuola oltre la pandemia

    Lorenzo Pellegrino *

    (NPG 2022-03-77)


     

    Cara signora,
    lei di me non ricorderà nemmeno il nome, ma sicuramente ricorderà il mio indirizzo e-mail.
    Un Don Lorenzo Milani post pandemico avrebbe certamente letto questa frase tra i bigliettini degli studenti di Barbiana ben distanziati e muniti di mascherine. Gli otto ragazzi della Scuola di Barbiana lamentavano, oltre 60 anni fa, una scuola che curava i sani e respingeva i malati. Queste parole, con il paragone sanitario annesso, si potrebbero ripetere per la scuola di oggi. Tuttavia, come nella Lettera le lamentele costituivano esclusivamente un pretesto per raccontare la scuola di quegli anni, anche noi proveremo a raccontare che cos’è la scuola oggi e perché, nonostante tutto, continua ad essere il motore del nostro Paese.
    Il segnale più evidente delle prime restrizioni è stato la chiusura delle scuole e delle università; allo stesso modo il segnale più forte della “luce in fondo al tunnel” è stato il reale rientro in presenza nelle classi del settembre scorso. In questo senso, abbiamo fornito una dimostrazione, quasi matematica, di come affermare che “se riparte la scuola riparte anche il Paese” non sia solo retorica, bensì una intramontabile verità.
    Volendo sempre riprendere le parole della Lettera, la scuola è indispensabile nel cercare “un fine grande”. La scuola è un rifugio che permette la ricerca di senso in un mondo che non lascia il tempo di ritrovare un significato nella realtà in rapido cambiamento. La scuola è una scommessa vinta in partenza, dal momento che unisce l’amicizia e le relazioni sincere insieme al fornire uno scopo, al tracciare una strada. Infatti, è solo studiando che possiamo conoscere il nostro futuro, solo investendo sul sapere possiamo guardare avanti senza limiti. Quello che impariamo ci forma, nel vero senso della parola: dà forma alla nostra vita, ne segna il perimetro allargando i confini, ne traccia il percorso aprendo nuove strade. Il sapere che gustiamo nelle nostre classi dà sapore alla nostra vita; ma non un unico sapore, al contrario, un po’ come le “gelatine tutti i gusti +1”, tocca a noi scoprire quale.
    La scuola dei nostri sogni è devota alla promozione integrale di tutta la persona, non guarda allo studente come un contenitore da riempire, al contrario desidera che siano gli studenti e le studentesse a riempire la scuola di novità, di freschezza e di voglia di fare. Nella scuola dei nostri sogni “lo studio serve a porsi domande, a non farsi anestetizzare dalla banalità, a cercare senso nella vita” (Papa Francesco, Discorso nell’incontro con gli studenti e il mondo accademico, Bologna, 1 ottobre 2017). Nella scuola dei nostri sogni studiare vuol dire acquisire consapevolezze, vale a dire guardare con nitidezza noi stessi e il mondo.
    A questo punto, è evidente che una scuola così è il miglior antidoto alla dispersione, è la migliore medicina per la crescente piaga della depressione e dell’ansia scolastica. Finché la scuola resterà uno o forse dieci passi indietro rispetto al mondo fuori, non potrà mai essere una risposta alla solitudine e allo sconforto. Una scuola che non si apre al cambiamento non può intercettare i bisogni di tutti, non serve a nulla se non a curare i sani. Una scuola che crea una competizione sterile contribuisce alla creazione di disuguaglianze, di divari insormontabili sui quali si sta fondando una società sempre più ingiusta che guarda al profitto e non al benessere. La scuola di oggi non può ignorare l’appello delle studentesse della Scuola Normale Superiore di Pisa che lamentano un sistema che, attraverso la retorica del metodo, genera una concorrenza malsana e che favorisce il divario di genere. Non possiamo ignorare la necessità che, per imparare bene, bisogna stare bene. In questo senso, l’introduzione delle figure di sostegno psicologico negli istituti rappresenta un immenso passo avanti per la scuola italiana; tuttavia, essendo nel mezzo di un cambiamento d’epoca, occorre farne molti altri.
    Da credenti occorre riconoscere nell’apprendimento una qualche forma di evangelizzazione; d’altronde, Papa Francesco ci insegna quotidianamente che la nostra missione non può e non deve considerarsi null'altro rispetto alla nostra vita. D’altro canto, se Dio è Verità, a scuola non andiamo certo a sentire menzogne. Pertanto, seguendo questo parallelismo, se Paolo VI, riferendosi all’opera di catechesi, ci ricordava che “l’importanza evidente del contenuto [...] non deve nasconderne l’importanza delle vie e dei mezzi”, anche noi, riconoscendo estrema importanza nei contenuti formativi scolastici, non possiamo trascurare che molto dipende anche dalle metodologie didattiche. Sulla falsa riga di EG 159, allora: che buona cosa che gli studenti e gli insegnanti si riuniscano periodicamente per trovare insieme gli strumenti che rendono più attraente la proposta formativa. La didattica efficace si può costruire solo in maniera orizzontale, non esiste nessuna teoria che possa reggere al confronto con noi studenti. La corresponsabilità educativa è il mattone più solido sul quale possiamo e dobbiamo costruire le pareti della nostra formazione. Solo in questo modo possiamo contribuire ad appianare le disuguaglianze offrendo una scuola per tutti, che non faccia differenze e che generi passioni più che fornire contenuti.
    In questa visione il contributo delle associazioni studentesche e ancora di più il contributo delle associazioni studentesche ecclesiali può essere determinante, se non indispensabile. L’atteggiamento sinodale è una risorsa che possiamo esportare sul piano studentesco. La possibilità di porsi domande e la libertà di confronto aperto e generativo fanno parte del DNA di gruppi ecclesiali come il Msac e per questo motivo costituiscono da un lato la carta d’identità dell'impegno dei cristiani nel mondo della scuola e dall’altro un prezioso dono da offrire a tutta la comunità scolastica. La Chiesa, infatti, attraverso il Msac, nel nostro caso specifico, può portare avanti un compito missionario tra i banchi. Tuttavia, bisogna fare attenzione al linguaggio. Non siamo portatori di alcunché e non siamo responsabili dell’arrivo della Buona Novella nel mondo della scuola. Il Signore già abita le nostre classi, noi ne possiamo essere solo testimoni credibili e autentici. In fondo è solo facendo bene il bene che possiamo essere discepoli missionari. In questo senso è quanto mai attuale il pensiero del Beato Rosario Livatino: “Nessuno verrà a chiederci quanto siamo stati credenti, ma credibili”.
    La credibilità non è fatta di gesti ispirati dal buonismo o dal filantropismo; il cristiano, infatti, non è un filantropo. Il cristiano è in grado di ascoltare, eventualmente accogliere le sofferenze, ma soprattutto è in grado di riconoscere l’annuncio del “mattino della Risurrezione: che in tutte le situazioni buie e dolorose di cui parliamo c’è una via d’uscita” (CV 104).
    Qualora vogliamo indagare un metodo di promozione della cultura dell’incontro e dell’amicizia sociale nelle nostre scuole, bisogna affermare che non è sufficiente la vicinanza, non è sufficiente essere buoni compagni di banco, occorre invece farsi prossimi e ambire al bene comune. Nelle nostre scuole tale sforzo può concretizzarsi nell’impegno politico serio di noi studenti e quindi nell’assunzione di responsabilità negli organi collegiali. La rappresentanza è il servizio più autentico che possiamo offrire alle nostre scuole, costituisce un’esperienza sincera di protagonismo e cittadinanza attiva dalla quale nessuno può sentirsi esente. Infatti, la rappresentanza non è un bene di pochi o di quei pochi che si offrono per essere dapprima candidati e poi eletti; al contrario, possiamo esercitare il nostro diritto alla rappresentanza nel momento in cui esprimiamo la nostra preferenza per il Consiglio di Classe o di Istituto, viviamo la rappresentanza quando partecipiamo consapevolmente alla vita della nostra scuola. La partecipazione, allora, è lo stile di chi si interessa, di chi si prende cura del prossimo, di chi “guarda oltre la punta del proprio naso”. Secondo questa analisi, pertanto, il “motto dei giovani americani migliori” appeso nell’auletta di Barbiana rappresenta una carta d’intenti per il nostro impegno nelle scuole. Quell’ “I care” si allarga dal campo dei contenuti, per cui desideriamo interessarci a tutto per poi “essere specialisti solo nell’arte del parlare”, al campo della nostra responsabilità nei confronti degli altri, per cui ci appassioniamo al bene comune attraverso l’attenzione alla vita della nostra comunità (scolastica e non) e di chi ne fa parte.
    Sentiamo forte la responsabilità di generare alleanze per contribuire alla creazione di una scuola migliore; infatti, sebbene una scuola senza studenti non abbia il minimo senso, possiamo dire che vale lo stesso anche per i docenti e per quanti si spendono in maniera significativa tra i nostri banchi. Crediamo fermamente che non si possa costruire nulla sulla lotta tra insegnanti e studenti oppure sull’esaltazione delle differenze, tantomeno sulla retorica che è sempre qualcun altro ad avere il coltello dalla parte del manico. Come associazione studentesca e come “cittadini” di questa Chiesa abbiamo la responsabilità di stabilire alleanze educative. Gli studenti e i docenti devono mettersi in dialogo: soltanto in questo modo le nostre proposte potranno prendere forma, soltanto in questo modo saremo in grado di “organizzare la speranza”.
    Per concludere, tanti sono i passi fatti, tante sono le strade che ci vengono indicate anche e soprattutto a seguito dell’emergenza sanitaria; occorre, tuttavia, percorrerle insieme e ci piacerebbe che a questa “lettera” non seguisse solo una risposta, ma tante “appendici”. Infatti, il sogno di una scuola migliore deve essere di tutti, in continua evoluzione e deve vivere nella “passione per le altezze”.

    * Segretario nazionale Msac


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