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    Ridare peso e valore alla parola nel tempo della sua riduzione a chiacchiera


    Ridare peso e valore alla parola

    nel tempo della sua riduzione

    a chiacchiera

    Massimo Recalcati



    Con il suo ultimo libro, “Benedetta parola. La rivincita del tempo“, Il Mulino, 2022) prosegue il lavoro di Ivano Dionigi, iniziato da tempo, sullo statuto della parola e sulla sua esperienza. Si tratta di un programma teorico: è possibile opporre resistenza alla tendenza egemone nel nostro tempo che vorrebbe fare evaporare il peso della parola, disossarne l’esistenza, ridurla a mero strumento pubblicitario di comunicazione o di propaganda, alla superficie senza rilievi della chiacchiera? È possibile tornare ad avere cura delle parole?
    La diagnosi di Dionigi è una diagnosi estremamente critica: il nostro tempo ha svuotato di senso l’esperienza della parola disgiungendola da quella della verità. È quello che Platone racconta nel Sofista: la parola di un retore può valere più di quella di un saggio come la parola accattivante e permissiva di un pasticciere, di fronte ad un pubblico di bambini malati, può ottenere più credito di quella severa di un medico che prescrive una necessaria e restrittiva cura alimentare.
    Ma come ridare peso e valore alla parola nel tempo della sua consumazione pubblicitaria, della sua riduzione a chiacchiera? È la parte più costruttiva di questo libro. Nel baccano dell’uso inflazionato di una parola vuota, dissociata dalla verità, il primo passo da compiere che Dionigi ci indica in totale controtendenza rispetto alla vulgata del nostro tempo che propone un uso inflattivo della parola, consiste nel sapere custodire il silenzio. È l’ammonimento formulato da Beckett in Murphy che non a caso troviamo nelle prime pagine di questo libro come una sorta di incipit: preservare il «silenzio del lutto». Questo silenzio è un provvedimento necessario per contrastare l’incuria delle parole, il «parlare male», per non aderire al populismo dilagante che sospinge a preferire la consolazione alla verità.
    Il secondo passo consiste nel ricordare, con toni che non possono non evocare il logos biblico, che la parola non è un elemento tra gli altri nella pragmatica della comunicazione, ma è il fondamento non solo della comunicazione, ma della dimensione umana della vita. Questo primato della parola rimarca la sua assoluta irriducibilità ad un semplice strumento al servizio della comunicazione. Dionigi lo ricorda insistentemente: «la parola è prima, la comunicazione seconda». Questo significa che la parola rivela un potere di costituzione e di rivelazione dell’essere. Non a caso egli cita la nozione di «parlessere» di Jacques Lacan che intende mostrare il nesso imprescindibile tra l’essere e le parole; noi non ci limitiamo ad usare le parole, ma siamo fatti nel nostro stesso essere di parole, sicché il primato della parola rivela che la parola non serve solo a nominare le cose, ma – come insegna il logos biblico – le fa esistere. Questo, a sua volta, significa che il linguaggio non è solo ciò che trasmette l’esercizio del pensiero, ma è fatto esso stesso di pensiero: il pensare non è un’attività che si realizza grazie al mezzo esteriore del linguaggio, ma impregna il linguaggio stesso. È questo, come sapevano bene gli umanisti, il significato più alto che dovrebbe ispirare il lavoro del filologo.
    Il terzo passo consiste nel non oscurare la memoria delle parole. La cultura etimologico-linguistica, lo studio della lingua dalla quale l’Occidente proviene e alla quale Dionigi ha dedicato una intera vita di studi – il greco e, innanzitutto, il latino – ci aiuta a mantenere la parola nella sua sintonia essenziale con l’esperienza della verità, a «ricongiungersi con la cosa». Non a caso una parte significativa di Benedetta parola è dedicata al libro non come ad un oggetto tra gli altri, ma come a quell’oggetto speciale che proprio perché è fatto di parole, sa custodire il tempo mantenendosi inesauribile di fronte al suo divenire. La biblioteca non è allora il luogo polveroso di un deposito senza vita, ma ospita corpi vivi, pulsanti, eternamente presenti. È il destino che investe i cosiddetti classici che sono libri che non cessano mai di compiersi, sempre uguali a se stessi e sempre diversi. Mentre la ricerca scientifica implica il necessario superamento irreversibile delle verità acquisite in precedenza, la cultura umanistica si struttura secondo tutt’altra logica: quello che viene prima – per esempio proprio i classici – non viene superato e dunque dimenticato da quello che viene dopo perché quello che viene prima continua ad accadere, non è mai esaurito una volta per tutte. Quello che viene prima non è il vecchio superato dal nuovo – come accade nella storia della scienza – ma preserva la sorpresa, il non ancora accaduto, l’inaudito. Per questa ragione la memoria di ciò che è stato non implica affatto la frequentazione triste del cimitero dei ricordi, ma è una forma essenziale e propulsiva della vita. «La memoria – scrive Dionigi – non è solo un forziere e un inventario, ma è anche un filtro e una difesa», una «forma di resistenza inalienabile e insopprimibile». È la funzione straordinaria di ogni biblioteca. Non si tratta semplicemente di conservare ciò che è stato scritto nel passato, ma di saperlo usare adesso per la nostra vita. La tradizione che si sedimenta in ogni biblioteca «ci consente di capire l’orizzonte storico, culturale, linguistico; ci mette in dialogo con i grandi di tutti i tempi, come facevano Dante, Petrarca, gli umanisti, Macchiavelli, Foscolo, Leopardi con i loro predecessori; ci libera dalla morsa del presente». In questo senso siamo un dialogo ininterrotto con la nostra stessa provenienza. Allora fondare biblioteche, lungi dall’essere un’operazione di mera accumulazione cimiteriale di libri morti, assomiglia, come scrive Marguerite Yourcenar, citata da Dionigi, «costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spirito».

    (La Stampa, 02 luglio 2022)


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