L’uomo e la sua origine
Tra creazione ed evoluzione
Intervista a Francesco Brancato
Prof. Brancato, Lei è autore del libro L’uomo e la sua origine. Tra creazione ed evoluzione edito da Mimesis: come si è sviluppato il dibattito circa il rapporto tra teologia della creazione e teoria dell’evoluzione?
Nel 2021 abbiamo celebrato il 150° anniversario della pubblicazione de L’origine dell’uomo e la selezione sessuale di Charles Darwin, opera che, unitamente a L’origine delle specie dello stesso autore, ha dato una svolta decisiva non solo alla scienza moderna, ma anche alla visione del mondo, della vita, dell’uomo, della storia, nonché al rapporto tra scienza e fede e, più specificamente, tra sapere scientifico e antropologia cristiana.
Siamo giunti a questo anniversario dopo un lungo e contorto cammino che ha conosciuto diverse tappe in cui si sono alternati – a volte hanno convissuto – forme più o meno esasperate di conciliarismo forzato o di ideologico discordismo. Ma abbiamo anche assistito a tentativi più o meno riusciti di un confronto critico tra le diverse istanze delle scienze, della filosofia e della stessa teologia, con grandi vantaggi per la comprensione dell’uomo e del mondo.
Se infatti ripercorriamo, anche sommariamente, gli ultimi centocinquant’anni della nostra storia, ci accorgiamo che i rapporti tra scienza e fede, tra pensiero scientifico e teologia, hanno attraversato fasi alterne fatte di alte e basse maree. A periodi di forte criticità sono succeduti periodi di tranquillità o, addirittura, di sana a produttiva collaborazione. C’è anche da dire che alcune tra le difficoltà maggiori che non molti anni fa sembravano essere state superate, sono invece riemerse con una certa recrudescenza e trovano in ambienti restii al dialogo e al confronto. Mi riferisco ad autori, scienziati o pseudo tali, che anacronisticamente si collocano tra i più accaniti scientisti di un passato ormai davvero superato, ma anche ad autori, teologi o pseudo tali, che con un atteggiamento altrettanto anacronistico si collocano tra i più miopi fondamentalisti.
Grazie al cielo il “gruppo” degli irriducibili sembra assottigliarsi sempre di più e sembra prevalere invece il buon senso fatto di stima vicendevole e di apprezzamento per il lavoro interdisciplinare. Ad ogni modo, per essere più precisi e schematici, si potrebbero elencare quattro momenti cruciali nella storia del confronto tra teologia della creazione e teoria dell’evoluzione, alcuni dei quali molto critici in ragione dell’identificazione – superficiale ed errata – di quest’ultima con le diverse forme assunte dal darwinismo. Comunque sia: un primo periodo caratterizzato da una “guerra aperta”; un secondo da una “tregua in armi”; un terzo da un “armistizio e da ultime difficoltà”; un quarto, infine, in cui si è instaurata finalmente la pace. Quest’ultimo, apertosi negli anni ‘70 del secolo scorso, per alcuni versi è ancora in atto e secondo il parere di alcuni ha condotto di fatto alla dissoluzione dei problemi che segnavano il rapporto tra scienza e fede nelle loro stesse componenti.
Al di là del giudizio che si può dare su questo punto, ciò che è certo è che nel suo raffronto con la teoria darwinista, infatti, la teologia ha dovuto modificare alcuni modelli acquisiti ed ha anche dovuto accoglierne degli altri che hanno determinato un evidente sconvolgimento in alcuni ambiti fondamentali della dottrina della creazione.
Quale importanza riveste, su questo tema, il pensiero teologico di Joseph Ratzinger?
Ritengo il contributo di J. Ratzinger, sia come teologo che come papa, di fondamentale importanza per la comprensione di questo argomento. Alcuni studiosi hanno la preoccupazione di distinguere adeguatamente il lavoro teologico di Ratzinger dal suo magistero pontificio, mentre in realtà non è poi così difficile cogliere la sostanziale unità e continuità – lo sviluppo, sarebbe più corretto dire – del suo pensiero, dagli anni giovanili fino alla sua maturità teologica e ai suoi interventi da papa in occasioni particolarmente importanti e significative.
Nel suo magistero, infatti, Benedetto XVI, intervenendo in diverse occasioni su questa delicata questione, ha riproposto nella sostanza quanto era stato oggetto di studio e di indagine teologica nel corso della sua lunga esperienza di docenza e nelle sue numerosissime pubblicazioni.
Ciò che è importante riferire, ad ogni modo, è il fatto, non trascurabile, che è stato costante in lui il tentativo di presentare all’uomo contemporaneo in modo semplice, chiaro e intelligibile i contenuti della fede cristiana. Con questo pensiero fisso ha sottolineato la fondamentale funzione catechetica della teologia e – elemento altrettanto considerevole – il suo essere a servizio delle domande più profonde del mondo moderno, nonché l’inalienabile relazione esistente tra la fede e il sapere, tra la fede e la ragione. In questa luce si colloca ovviamente quanto ha scritto e detto circa il nostro tema, quanto mai attuale e nevralgico anche per impostare una corretta antropologia cristiana in dialogo con il mondo contemporaneo. Proprio per questo già da teologo Ratzinger ha letto nella questione della creazione e dell’evoluzione un passaggio fondamentale del confronto tra teologia e scienza e, più in generale, del confronto della chiesa con il mondo contemporaneo, sulla scia di quanto espresso, ad esempio, nella Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, la Gaudium et spes, in alcuni passaggi centrali dedicati all’uomo e al suo posto nella storia e nel mondo.
Ebbene, in alcune lezioni radiofoniche su Credere nella creazione e teoria dell’evoluzione, un Ratzinger ancora piuttosto giovane sosteneva che Darwin scatenò una rivoluzione dell’immagine del mondo non inferiore a quella prodotta dalle teorie di Copernico. Le conseguenze di questa svolta, anzi, si sono rivelate ancora più drammatiche di quelle prodotte dalla rivoluzione copernicana in quanto – precisava –la dimensione del tempo tocca l’uomo molto più di quanto lo tocchi quella dello spazio. Cosa è accaduto? La comprensione di fondo del reale cambia, dal momento che il divenire ha preso il posto dell’essere, lo sviluppo il posto della creazione, l’ascesa il posto del declino. Questo modo di ragionare e argomentare, come è evidente, ha aperto a una visione altra del mondo, della storia della natura e dell’identità dell’uomo, in quanto ha messo in forse le stesse basi della classica teologia della creazione e quindi l’idea dell’uomo e del mondo ad essa inerente.
La teologia, forte di questo dato, ha chiarito che se la fede nella creazione indaga sul “perché” dell’essere in sé – dal momento che il suo problema è perché ci sia qualcosa e non il niente – l’idea dello sviluppo e dell’evoluzione si chiede invece perché ci siano proprio “queste” cose e non altre, e di conseguenza da dove esse abbiano tratto la loro determinatezza. In questo caso siamo a livello fenomenologico, poiché ci si confronta con le singole creature del mondo che esistono effettivamente. Diverso è quanto viene affermato dalla fede nella creazione, che si muove a livello ontologico poiché indaga ciò che sta a fondamento delle singole cose, tentando di rendere ragione di quel misterioso “è” che costituisce ciò che esiste. Di conseguenza, secondo Ratzinger mentre la fede nella creazione riguarda la differenza tra “niente” e “qualcosa”, quella dello sviluppo è interessata alla differenza tra “qualcosa” e “qualcos’altro”. In definitiva, il vero problema per la teologia starebbe, perciò, nell’intelligenza della questione riguardante il passaggio dal nulla all’essere, mentre per la scienza consisterebbe nel tentativo di comprendere come qualcosa nel corso del tempo muti e dia origine a qualcos’altro e come le cose siano in relazione tra di esse.
Tutto questo è contenuto come in nuce in una delle omelie forse più ricche teologicamente che papa Benedetto abbia pronunciato. Mi riferisco all’omelia del suo insediamento in cui affermò che l’uomo non è il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione, ma ogni singolo essere umano è invece il frutto di un pensiero di Dio. Ciascun uomo è infatti voluto, amato, necessario. L’uomo, cioè, è parte di un progetto, di un piano divino di salvezza che si realizza nella storia, nel mondo, nell’intero universo. E per quanto l’uomo rappresenti il massimo di complessità sinora raggiunto, tuttavia la monade-uomo non rappresenta ancora la fine dell’evoluzione, ma il suo stato esige un ulteriore movimento di complessificazione che lo conduca a un livello di unificazione in cui possa apparire finalmente la forma dell’uomo futuro. E qui secondo Ratzinger il discorso può chiarirsi se non si mantiene entro lo spazio esclusivo dell’antropologia, ma si apre a quello più propriamente teologico e, in fondo cristologico. A partire da qui si può dire qualcosa di teologicamente interessante sull’antropogenesi. Cito testualmente un passaggio cardine di quello stesso intervento: «Il fango è divenuto uomo nel momento in cui un ente per la prima volta, anche se ancora in forma alquanto oscura, è stato in grado di formare l’idea di Dio. Il primo Tu che – per quanto balbettando – venne rivolto da bocca d’uomo a Dio, designa il momento in cui lo spirito è comparso nel mondo. Qui si è varcato il Rubicone dell’antropogenesi». Soltanto in Cristo – secondo l’insegnamento di Gaudium et spes 22 che fa da filo rosso, implicito, alla riflessione di Ratzinger, come dicevo – trova luce il mistero dell’uomo e soltanto in Cristo risorto si è avuto il salto evolutivo definitivo: l’uomo che giunge alla verità di sé stesso perché si realizza compiutamente come fatto a immagine e somiglianza di Dio, relazione, apertura, dialogo, trascendenza.
Credo che siano questi alcuni, solo alcuni, degli elementi che possiamo trarre dalla ricca riflessione di Ratzinger sul nostro tema, con un occhio rivolto alla testimonianza scritturistica e alla storia della teologia e l’altro, vigile e attento, alle istanze della scienza e delle sue acquisizioni.
Qual è lo status quaestionis della discussione?
Oggi, alla luce del riaccendersi del dibattito che ha impegnato la teologia della creazione da un lato e le scienze della natura – specialmente la biologia evoluzionista – dall’altro, appare indiscutibile l’opinabilità di un giudizio come quello espresso da chi vorrebbe ormai concluso il tempo di un confronto tra le due istanze. Sono molti, infatti, gli autori che continuano a parlare anche oggi, a 150 anni dalla pubblicazione de L’origine dell’uomo di Charles Darwin, di tutto ciò che comporta il dialogo tra scienza e teologia circa l’origine e lo sviluppo della vita sul nostro pianeta e quindi circa il rapporto tra creazione ed evoluzione. Oggi, infatti, più che mai, questo confronto è utile e necessario, specialmente in un momento in cui un’attenzione particolare viene riservata al posto che occupa l’essere umano nella storia evolutiva del nostro pianeta; in un tempo, cioè, in cui sembra farsi sempre più strada la convinzione che sia finita l’era della “eccezione umana”, per dirla con J.-M. Schaeffer, e sia stata inaugurata l’era dell’intelligenza artificiale e delle più complesse forme di post-umanesimo, di trans-umanesimo, di metamorfosi dell’umano in campo filosofico, scientifico e tecnico; un tempo in cui la teologia deve tentare di riscrivere, dove è necessario, alcune pagine della sua antropologia.
Tutta una serie di fattori sembrano infatti dirci che il posto dell’uomo nella storia evolutiva dell’universo e perfino in quella del nostro pianeta sembra essere periferico. Certamente il suo posto è ridimensionato rispetto a quanto per secoli, forse per millenni, è stato detto e pensato. Non è un mistero che al pari delle altre forme di vita che abitano la terra, l’uomo ha avuto un’origine e rischia di avere una fine, come la pandemia da Covid-19 – da cui, ahimè, abbiamo imparato ben poco – ci ha tra l’altro tristemente ricordato. Eppure è stata questa terribile esperienza che ha mostrato nello stesso tempo – per dirla con Pascal – la miseria e la grandezza dell’uomo: la sua estrema fragilità e il suo ingegno, la sua debolezza e la sua forza.
In un modo o nell’altro, comunque, è emersa con chiarezza la vulnerabilità dell’uomo, il bisogno che riconsiderare la sua presenza nel mondo e la sua responsabilità non solo per la salvaguardia del creato ma anche, per usare la felice espressione di papa Francesco, per la promozione di un’ecologia dell’uomo in un tempo in cui la sua identità, il suo posto nel mondo, la sua unicità, sono messi seriamente in discussione. Come già dicevo, viviamo, infatti, l’era che potrebbe essere diversamente definita del transumanesimo, del postumanesimo, del mutamento dell’umano, dell’affermazione dell’intelligenza artificiale, della robotica, della cibernetica; un’epoca in cui il confine tra ciò che è propriamente umano e ciò che non lo è (o non lo è ancora) si è fatta sempre più sottile e impercettibile. Ebbene, in un tempo come questo, dunque, è più che mai necessario fare luce sull’enigma della condizione umana. Il lavoro e gli impegni richiesti non possono essere derogati ora alla teologia, ora alla filosofia e alle altre scienze umane, ora alle sole scienze della natura, ma chiamano in causa i diversi ambiti del sapere umano.
Detto questo, una delle sfide che il confronto attuale impone dalle scienze da un lato e alla teologia dall’altro – ne indico soltanto una tra le molte messe in campo, e di cui provo a dare ragione nel mio libro –, è perciò quello di tentare l’approfondimento critico di concetti e termini che per la loro ricchezza e natura polisemica si pongono in una zona liminale tra diverse discipline: filosofia, teologia e scienza. In questo senso la mediazione della filosofia appare quanto mai necessaria e urgente. In particolare, la presa in carico della riflessione critica di scienziati e filosofi di diversa estrazione fa sì che concetti che potremmo definire “polari”, posti, cioè, in tensione tra l’approccio scientifico al reale e la riflessione più propriamente filosofica (ad esempio: caso/necessità, determinismo/indeterminismo, finalismo/meccanicismo, probabilità/indeterminazione; principio antropico forte/debole; uno/molti; ordine/disordine; coerenza/eccezione; informazione/contenuto; irreversibilità/memoria; emergenza/autopoiesi, ecc.), siano posti nel dominio della filosofia e della scienza, e siano spiegabili soltanto nella misura in cui le diverse discipline – nel rispetto dell’autonomia del loro rispettivo statuto epistemologico – stabiliscano un mutuo dialogo e confronto. Si tratta di un campo di indagine molto affascinante e impegnativo, ma ricco, a mio parere, di sorprese e di interessi.
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Francesco Brancato, 1971, è ordinario di Teologia dogmatica (Antropologia) presso lo Studio Teologico S. Paolo (Catania) della Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e docente invitato presso altre istituzioni accademiche. Ha conseguito il Dottorato di Teologia presso l’Università Gregoriana di Roma e la laurea magistrale in Filosofia all’Università di Messina. È autore di circa 20 libri su questioni di filosofia, scienza, teologia, arte, letteratura e ha firmato alcuni dei suoi libri con diversi filosofi, tra i quali Natoli, Galimberti, Rella, e con scienziati come Battiston, Benvenuti e altri.