Nessuno-ognuno-ciascuno-tutti

Inserito in NPG annata 2022.

GRAMMATICA CIVICA
Educare alla cittadinanza /8

Raffaele Mantegazza

(NPG 2022-01-78)

 


La massa non è un fatto numerico
Si può essere milioni e milioni, anche simili,
e non essere massa, rimanere persone
Io credo che questo sia possibile
E si può essere invece una persona sola
che è già massa
Non è il numero, è la testa.
(Giorgio Gaber, “La vestizione”)

Esiste una morale universale? Esistono leggi etiche che possono pretendere di valere per tutti, al di qua delle differenze individuali o culturali? O siamo in balia dell’assoluta relatività delle leggi, per cui anche l’incesto, l’omicidio di massa e il cannibalismo possono trovare una loro legittimazione morale? L’assolutismo e il relativismo sono le uniche due possibilità per il discorso etico e civico, oppure si tratta - parafrasando Kant - di posizioni dogmatiche che in quanto tali si alimentano a vicenda, ed è invece possibile una terza via?
La domanda da porsi in modo preliminare è se esista qualcosa che accomuna uomini e donne a prescindere dal tempo e dallo spazio nel quale vivono (e forse il tempo e lo spazio sono già un elemento comune, come aveva intuito Kant). Ci viene in mente una famosa frase di Walter Benjamin a proposito della prima Guerra mondiale: “una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”. Forse è proprio questo corpo così fragile a costituire l’elemento comune a sette miliardi di esseri umani. Ma questa consapevolezza, come ci aiuta a risolvere la questione etica?
Anzitutto occorre osservare questo corpo umano, e coglierlo nella sua specificità. Quando narra il mito di Prometeo che affida al fratello Epimeteo il compito di distribuire ad ogni essere vivente le armi offensive o difensive per poter sopravvivere, Platone scrive:

“Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. (…) Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi”.

Questa definizione di essere umano ci sembra essenziale: l’uomo è un animale definito per privazione, la nudità del suo corpo, il carattere inerme che manifesta davanti alla natura sono le sue caratteristiche specifiche. L’uomo nasce nudo e porta sempre con sé la sua nudità come segno di esposizione al mondo.
Il corpo umano è dunque aperto al mondo, ma questa apertura gli causa paura e spavento; è ovviamente anche una possibilità evolutiva, perché è solo attraverso l’apertura che possiamo incontrare l’altro. Ma per fare ciò occorre superare la paura, e lo si può fare attraverso la conoscenza: Prometeo cerca di ovviare all’errore del fratello:

“Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo”.

È la conoscenza, ottenuta non nonostante la nudità, ma a causa di essa e attraverso essa, a costituire il velo fragile del quale il fragile uomo si ammanta per sopravvivere. Fragile come i brandelli di stoffa che coprono le sue nudità.
Dunque l’essere umano si rende conto di essere qualcuno quando coglie il tratto di apertura e di rischio che lo accomuna a tutta la specie; gli altri sono come me perché come me sono esposti al rischio e al pericolo, e mi mostrano il loro lato inerme: quel lato che il pudore ci spinge giustamente e sanamente a nascondere, creando un filtro tra sé e gli altri finché non siamo certi che non vi sia intenzione aggressiva. Ma è anche un filtro che noi stessi lasciamo cadere, quando apriamo le braccia nel gesto dell’abbraccio, che è un denudamento volontario, universalmente inteso come disponibilità all’incontro. Basta osservare lo schema corporeo di chi si lancia ad aggredire un’altra persona e confrontarlo con il linguaggio somatico di chi vuole abbracciare, per constatare come la dialettica apertura/chiusura sia davvero un tratto universale.
In questo senso la quantità degli individui che si ritrovano in questa apertura originaria non li trasforma in massa, non li anomizza. La differenza tra la massa, così profondamente studiata da Elias Canetti, e l’universale umano, l’Umanità (che si rifrange anche nel piccolo gruppo) sta nel fatto che la massa cancella e annienta quelle differenze che invece l’etica e la cultura civica esaltano; la massa invece, paradossalmente, creando una specie di super-uomo, finge di non vedere la costitutiva fragilità dell’essere umano. La massa è una marea nera (Canetti usa l’efficacissima espressione “tutto nereggia di folla”) nella quale affondano le individualità; il soggetto perde la sua specificità e in cambio acquista una parvenza di potere, se non addirittura di invulnerabilità. È ozioso affermare che nella massa esistono legami di tipo sessuale, perché la sessualità è sempre un rapporto tra un “io” e un “tu”; proprio gli elementi che la massa nega. La massa è paradossalmente ascetica e asessuata, perché l’unico piacere che essa dona è quello dell’appartenenza al potere (letteralmente, della sudditanza a quel dominio che ci si illude di padroneggiare). Anzi semmai l’innamoramento tra due membri della massa costituisce un antidoto all’annientamento dell’individualità e al conformismo.

Nell’universale umano ognuno mantiene la sua identità e individualità, non si fonde e non si con-fonde con l’altro, ma è in grado di percepire l’umanità dell’altro attraverso il contatto con il suo corpo. Un universale singolare, come direbbe Sartre, un universale non già dato ma da riscoprire e ricostruire nell’incontro con l’altro; quando Sartre afferma “l’altro è il mio inferno” non compie un’affermazione nichilista come spesso si crede, ma mette in luce che la reazione di paura nei confronti dell’altro, per il corpo inerme di chi fa questa esperienza, è la prima tappa necessaria per poi capire che il corpo dell’altro non è qualcosa da cui difendermi, ma è inerme quanto me. Il corpo nudo e disarmato richiede cura, e anche esposizione al rischio: il Covid ce lo ha mostrato, ma ogni approccio di cura all’altro ci espone e ci mette in condizione di bilanciare la paura con l’altruismo.
Dunque esiste una legge civica universale? Esistono i corpi: piagati, sofferenti, gioiosi, mutilati, atletici, dormienti; i corpi con il loro desiderio e la loro sofferenza, che chiedono di essere accolti, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Non sostituirsi all’altro nell’esperienza del mondo mantenendo la distanza che separa le nostre esperienze dalle altrui (“so bene come ti senti”, “capisco perfettamente cosa provi”: frasi inutili e perfino offensive per chi sta provando un dolore che non possiamo nemmeno immaginare): ma non fare di questa distanza un alibi per non avvicinarci, questo è il difficile equilibrismo che oggi ci è richiesto. Quando Kant presenta la terza formula dell’imperativo categorico “agisci in modo da considerare l’altro sempre come fine e mai come mezzo”) sta proponendo un approccio concreto e fisico al corpo dell’altro; la fisicità del corpo altrui ci permetterebbe di utilizzarlo come strumento per massimizzare il nostro piacere, ma pensare all’altro come fine significa anche pensarlo come soggetto, pensare al suo corpo come incarnazione del suo irripetibile “io” e agire di conseguenza.
Finché gli esseri umani saranno corpo (perché noi siamo corpo, e non “abbiamo” un corpo come se si trattasse di una nostra proprietà che possiamo alienare, nemmeno il suicida lo fa fino in fondo), allora un’etica universale sarà possibile: non come precetto, legge immutabile o norma, ma come domanda aperta. Aperta come “il minuto e fragile corpo dell’uomo”