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Il caso Ucraina. Riflessioni per il discernimento

Mario Toso *

toso


Premessa

La pace è aspirazione profonda del genere umano.[1] È vocazione di tutti. Essa, però, è gravemente minacciata e quotidianamente insidiata dalla violenza, individuale o collettiva, che la coarta e la distrugge, fino ad annientare l’uomo nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali alla vita, alla libertà e allo sviluppo integrale. La violenza si annida nelle strutture sociali, economiche, finanziarie, poli­tiche, culturali, massmediatiche. Genera conflitti, ingiustizie e guerre. Come combattere la violenza senza lasciarsi avviluppare in una spirale senza fine? È questo un problema che si è riproposto in questi mesi in occasione dell’invasione della Russia nei confronti dell’Ucraina.
Nella Gaudium et spes (=GS), che elabora una nuova etica della pa­ce e condanna con fermezza e chiarezza la guerra totale,[2] i padri conciliari indicano, come degna di attenzione, la possibile via dell'azione non violenta: «Mossi dal medesimo Spi­rito, noi non possiamo non lodare coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata dei più deboli, purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei do­veri degli altri o della comunità».[3] Nel 1971, il Sinodo dei vescovi ha esortato a promuovere la «strategia della nonviolen­za».[4] Negli anni seguenti, varie Conferenze episcopali si sono espresse in modo analogo.
La globalità di questa nuova etica della pace, quale emerge dalla GS e dagli altri documenti episcopali, consiste nel riconoscere come accettabili sia il ricorso alla forza per la legittima difesa individuale e collettiva sia l’azione non violenta attiva e creatrice. Ciascuna di queste opzioni è peraltro sottoposta a condizioni molto strette che ne definiscono la legittimità morale. In breve, la legittima difesa dev’essere al servizio della giustizia, nella coerenza dell’uso di mezzi omogenei col fine, fintantoché l’azione non violenta non potrà abolire il diritto di ogni cittadino, specialmente dei deboli e degli innocenti, d’essere protetti dallo Stato a mezzo della forza se necessario.[5] Il che appare, per ora, non facilmente praticabile.

1. Verso il tramonto della guerra «giusta» e la pace

In passato, nel quadro delle strategie classiche, la guerra era crudele, ma generalmente non sterminava le popolazioni coinvolte. Le Nazioni potevano allora sperare che la guerra desse l’avvio ad una soluzione politica, salvaguardando i loro interessi vitali. Oggi, la rivoluzione tec­nologica ha conferito alle armi una capacità distruttiva tale da poter annientare le stesse società che vi ricorrono per difendersi da ingiuste aggressioni. La guerra moderna, diventa guerra totale, ossia violenza massima e criminale, che porta all’annientamento dei contendenti e della stessa umanità. L'accresciuta potenza distruttiva delle armi moderne può provocare il suicidio collettivo.
Proprio per questo, a livello di prospettiva etica, nella Dottrina sociale della Chiesa, si è dovuta ripensare la teoria della guer­ra «giusta»,[6] in quanto sempre più difficilmente giustificabile, anche quando si pensasse all’impiego delle cosiddette armi «intelligenti» o «pulite». Questo ha sollecitato a valutare quali siano le condizioni per un disarmo nucleare generale. Una guerra, infatti, apparirebbe «giusta», più razionale e giustificabile, entro i limiti di un disarmo nucleare generale accettato da tutti, sulla base del cosiddetto principio di sufficienza. Secondo tale principio, lo Stato possiederebbe solo le armi necessarie per la legittima difesa dei popoli. Il che ha fatto riflettere anche su quale tipo di armi gli Stati possano possedere in vista di una legittima difesa,[7] ossia su un tipo di armi che consenta di difendere i popoli ma non di eliminarli. E, inoltre, su cosa fare affinché tutti gli Stati accettino di convenire sul principio di sufficienza, ossia sull’idea di possedere solo le armi necessarie per la legittima difesa, ma che non siano nucleari.[8]
A questo proposito, non va ignorato che oggigiorno la prospettiva di una legittima difesa secondo il principio di sufficienza, principio fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa in tema di disarmo,[9] sembra essere di fatto vanificata. Infatti, specie dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 e di questi ultimi anni, gli Stati, anziché impegnarsi in un serio e sistematico disarmo nucleare, hanno incrementato la corsa verso armamenti sempre più sofisticati e micidiali, prospettando addirittura la soluzione di una difesa preventiva (rispetto ad un attacco non imminente, ma possibile),[10] che porta inevitabilmente ad un’escalation delle ostilità, verso una guerra totale.  
Il quadro odierno non sembra, dunque, per nulla rassicurante. E non bisogna dimenticare che, nel caso sopra configurato di una guerra di legittima difesa, guerra «giusta» perché avverrebbe nel contesto di un disarmo nucleare generale e userebbe un tipo di armi «convenzionali», essa rimane comunque una soluzione estrema e che, purtroppo, come ogni guerra, produce distruzioni e morti. Cose tutte che fanno capire come non bisogna cessare dal ricercare vie più degne dell’uomo per la prevenzione e la composizione di eventuali conflitti, per la realizzazione della pace. Le attuali politiche e strategie di guerra, la possibilità non platonica dell’olocausto nucleare mondiale, la stessa necessità di difendere efficacemente i popoli, i cittadini e i loro beni con mezzi che non comportino la minaccia dell’annientamento, stanno accreditando sempre più l’azione non violenta come vera alternativa realistica alla violenza e alla guerra. Tale azione non violenta, al pari della guerra, delle tirannie e delle ingiustizie, può avere diverse forme, in rapporto ai problemi in una data situazione. Si possono elencare, ad esempio, la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza,[11] il boicottaggio sociale, lo sciopero anche generale, il picchettaggio, il digiuno, l’obiezione fiscale, la non collaborazione (resistenza non violenta), la difesa popolare orga­nizzata o difesa civile non violenta, istituita da un Governo co­me parte del suo piano di difesa, il «Governo parallelo», le sanzioni internazionali (come nel caso della guerra tra Russia ed Ucraina). Tenendo conto, però, dell'am­piezza dei cambiamenti culturali e politici che quest’ultima scelta comporta, una tale via, nonostante sia fortemente au­spicabile e vada perseguita con tutte le forze, oggi appare una pro­spettiva non realizzabile, né a corto né a medio termine. Se non cambiano le cose anche a livello internazionale, sembra che la via della difesa civile non violenta sia destinata a coesistere per molto tempo ancora con le forme di difesa militare.

2. No all’uso e al possesso delle armi nucleari

Specie dopo la Pacem in terris di Giovanni XXIII (cf n. 60) e la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, per la Chiesa è comunque certo che rispetto alle armi nucleari «come tali», che si distinguono dalle altre per la capacità di produrre effetti indiscriminati – meccanici, termici o radioattivi –, fatali per l’uomo e per l’ambiente, nel breve e nel lungo periodo, non vi può essere nessuna tolleranza. Va ribadita, senza mezze misure, la loro condanna morale, perché ogni azione bellica indiscriminata «è delitto contro Dio e contro la stessa umanità».[12] Proprio per questo, sulle orme di Giovanni XXIII,[13] più volte Giovanni Paolo II ha ribadito che la «guerra è in sé irrazionale e il principio e­tico del regolamento pacifico dei conflitti è la sola via degna dell'uomo».[14]
Non va, poi, dimenticata l’attenzione di Giovanni Paolo II di reperire e ricercare le ragioni della pace comuni ad ogni religione, il cosiddetto spirito di Assisi. Per il pontefice è irrazionale ed inconcepibile ogni giustificazione religiosa della violenza. Precisa e chiara ne è la condanna: «Ogni uso della religione per giustificare la violenza è un suo abuso. La religione non è, e non deve diventare, un pretesto per i conflitti, soprattutto quando l'identità religiosa, culturale ed etnica coincidono. La religione e la pace vanno di pari passo: dichiarare guerra in nome della religione è un'evidente contraddizione».[15]
Nei primi anni novanta del secolo scorso, a seguito del crollo politico del blocco comunista dei Paesi dell’Est europeo, Giovanni Paolo II con coraggio e con una netta presa di posizione sorpassa il diritto alla non-ingerenza negli affari interni di uno Stato con il prevalente dovere dell’ingerenza umanitaria, con queste argomentazioni: «Esistono degli interessi che trascendono gli Stati: sono gli interessi della persona umana, i suoi diritti. Oggi come ieri, l’uomo e le sue necessità sono, ahimè, tuttora minacciati, a dispetto dei testi più o meno vincolanti del diritto internazionale, a tal punto che un nuovo concetto si è imposto in questi mesi, quello di “ingerenza umanitaria”… Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli Stati non hanno più il diritto all’indifferenza. Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono rivelati inefficaci».[16]
Più recente è l’ulteriore evoluzione magisteriale del principio dell’ingerenza umanitaria nel principio della responsabilità di proteggere ad opera di Benedetto XVI nel discorso tenuto all’Assemblea delle Nazioni Unite, il 18 aprile 2008: «Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per l’innata dignità di ogni uomo e donna trovano oggi – così si è espresso il pontefice - una rinnovata accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere. Solo di recente questo principio è stato definito, ma era già implicitamente presente alle origini delle Nazioni Unite ed è ora divenuto sempre più caratteristica dell’attività dell’Organizzazione. Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’impostazione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale. Ciò di cui vi è bisogno è una ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti, esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione ed incoraggiamento anche ai più flebili segni di dialogo o di desiderio di riconciliazione».[17] La guerra non è mai inevitabile. La pace è sempre possibile. Anzi doverosa.[18]

3. Papa Francesco contro la guerra

Papa Francesco si pone nella stessa scia dei suoi immediati predecessori sia quanto al rapporto religione e guerra sia quanto alla condanna della guerra nucleare.
Per quanto concerne il primo rapporto basta leggere quanto ha sottoscritto il 4 febbraio 2019, assieme al Grande Iman di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, nel Documento sulla Fratellanza Umana per la pace e la convivenza comune. Affermazioni analoghe le ha pronunciate durante il suo viaggio apostolico in Iraq (5-8 marzo 2021). Ecco in sintesi il pensiero di papa Francesco: la religione, per sua natura, dev’essere al servizio della pace e della fratellanza. Il nome di Dio non può essere usato per «giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione».[19] Dio è misericordioso. L’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione.[20]
Per quanto concerne invece il pensiero di papa Francesco sulle armi nucleari e la legittima difesa basta riferirsi a quanto egli ha detto in occasione del suo viaggio apostolico in Giappone (23-26 novembre 2019) e a quanto ha ribadito attraverso l’enciclica Fratelli tutti (=FT). A Hiroshima, presso il Memoriale della pace, il pontefice ha affermato in modo lapidario: «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa» (24 novembre 2019). Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra?  La nostra risposta alla minaccia delle armi nucleari dev’essere collettiva e concertata, basata sull’ardua, ma costante costruzione di una fiducia reciproca che spezzi la dinamica di diffidenza attualmente prevalente. «È necessario rompere la dinamica della diffidenza che attualmente prevale e che fa correre il rischio di arrivare allo smantellamento dell’architettura internazionale di controllo degli armamenti. Stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader».[21] A proposito del diritto di legittima difesa a cui, nella situazione della guerra tra Russia ed Ucraina, ci si è appellati per giustificare la reazione  ucraina di fronte all’invasione russa, ecco come argomenta il pontefice nella sua ultima enciclica FT: «Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di legittimità morale». Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano “mali e disordini più gravi del male da eliminare”. La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, “mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene”. Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (FT n. 258).
In breve, secondo papa Francesco - data la potenza distruttiva e non facilmente controllabile anche delle armi non nucleari -, una guerra di legittima difesa diventa difficilmente giustificabile dal punto di vista morale. La risposta alle ingiuste aggressioni e alle controversie internazionali non può essere la guerra moderna. Perché? Perché non esistono «guerre giuste»: non esistono.[22] Ecco quanto afferma. La guerra è una pazzia, è un mostro, è un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto. Di più, la guerra è un sacrilegio, che fa scempio di ciò che è più prezioso sulla nostra terra, la vita umana, l’innocenza dei più piccoli, la bellezza del creato. La guerra è un sacrilegio![23] È un crimine.
La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione del pensiero, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Occorre abbracciare una cultura della cura dell’altro. Con la guerra nessuno vince. Con la guerra tutto si perde, tutto. Occorre sconfiggere la guerra. La soluzione è lavorare insieme per la pace, fare delle armi, come dice la Bibbia, strumenti per la pace. Oggi più che mai urge rivedere lo stile e l’efficacia dell’ars politica. La guerra lascia il mondo peggiore.[24]
In ultima analisi, in vista della pace ci si dovrebbe muovere almeno su tre piani. Andrebbe eliminato, anzitutto, il diritto di guerra degli Stati. Va affermato il diritto alla pace.[25] Ma, come insegna la GS, la guerra non è purtroppo estirpata dalla condizione umana. Fintantoché esisterà il pericolo della guerra non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa.[26] In sostanza, si è presi entro una morsa che non lascia scampo, a meno che non sia debellato definitivamente il male ed attuata ovunque la giustizia. In secondo luogo, bisognerebbe perseguire, senza indugio, la precondizione di un disarmo nucleare generale. E, questo, come già accennato, nel quadro di un disarmo integrale. Come si legge, infatti, nella Pacem in terris, la riduzione e la eliminazione degli armamenti «sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, con essi, la psicosi bellica».[27] All’equilibrio degli armamenti si deve sostituire la vera pace alimentata dalla fiducia reciproca.[28] In terzo luogo, andrebbe perseguito «un grado superiore di ordinamento internazionale» per realizzare il bene comune dell’umanità.[29] Il diritto all’ordine internazionale è un diritto umano riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (articolo 28). Giova precisare che questo diritto non è riducibile al semplice ordine giuridico. Esso va inscritto in un più ampio ordine morale e sociale, che abbraccia sia le relazioni fra singole persone, sia quelle fra comunità di persone, sino a formare l’ordine della famiglia umana, comprensivo delle comunità politiche.
Ma vi sono altri piani su cui muoversi per prevenire le guerre e costruire la pace. Papa Francesco nel suo Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale per la Pace del 1° gennaio 2017 offre svariati orientamenti pratici:[30]
- l’annuncio e la testimonianza di Gesù Cristo, causa esemplare della non violenza attiva e creativa;
- la proposta ai leader politici e religiosi, ai responsabili delle istituzioni internazionali, ai dirigenti delle imprese e dei media del «manuale» della strategia della costruzione della pace, ossia le otto Beatitudini (cf Mt 5, 3-10);
- l’umanizzazione della politica, la sua risemantizzazione in senso samaritano, a partire da tutto ciò che può insegnare la non violenza attiva e creativa, come il principio architettonico della fraternità (si confronti anche la successiva enciclica Fratelli tutti);
- la rivitalizzazione della democrazia, oggi colpita da gravi forme di degenerazione e di involuzione, quali la pazzo-democrazia, la democrazia senza democratici, la democrazia insoddisfatta, la democrazia populista od oligarchica;[31]
- l’educazione alla pace;
- i percorsi di quei movimenti sociali, che il pontefice argentino viene da tempo sollecitando ed «educando», affinché abbandonino la violenza, marciando per la giustizia e non «contro» qualcuno, come i movimenti popolari.[32] Non vanno dimenticati il movimento ecologico mondiale;[33] i movimenti della cooperazione;[34] i movimenti per la vita; i movimenti a difesa e promozione della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna; i movimenti a difesa della libertà religiosa e della libertà di insegnamento; i movimenti per la riforma del sistema finanziario internazionale, anche mediante la tassazione delle transazioni istantanee applicando la Tobin Tax; e i movimenti per l’abolizione della pena di morte;
- non dev’essere, poi, esclusa la preparazione di nuove generazioni di cattolici e di uomini di buona volontà per l’impegno competente nell’area della politica, una politica alta, all’insegna della carità cristiana, capace di affrontare con visione e decisione la rimozione delle cause di povertà e di sperequazione. Senza la preparazione di nuove generazioni dal punto di vista politico non si possono sperare nuove Istituzioni di pace, né sul piano politico regionale (come gli Stati Uniti d’Europa, d’Africa, ecc.) né sul piano mondiale (ad es., come si dirà meglio nella Conclusione: una nuova ONU, un’Agenzia Internazionale per la Gestione degli Aiuti [AIGA], un FMI, una Banca Mondiale revisionati; un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente, ecc.);
- oggi, nell’ambito dell’azione nonviolenta, occorre coltivare legami internazionali, in vista di una maggiore incisività su quei processi e su quelle istituzioni che operano a livello sovranazionale e multilaterale. Solo agendo su questo piano, si può influire nella necessaria riforma dei mercati, delle istituzioni di pace e delle politiche mondiali; si possono altresì instaurare quelle collaborazioni, quel lavoro di intelligence, quella vigilanza sulla rete web e sugli ingenti flussi di denaro, che sono determinanti nel prevenire e combattere la violenza del fanatismo e del terrorismo, che si avvale dei nuovi e sofisticati mezzi, per destabilizzare e seminare l’odio.

4. Dottrina sociale e legittima difesa in guerra

Una riflessione immediata, sull’attuale situazione della guerra ucraina non può non muovere dal testo conciliare di Guadium et spes n. 79, un testo ancora attuale:
«E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto».[35]
Con quella russo-ucraina siamo di fronte ad una guerra continuativa di aggressione con una distruttività disumana, barbara e crudele, che ha largamente interessato la popolazione civile e ogni tipo di costruzioni urbane e rurali, provocando molti morti e feriti, sfollati e senzatetto. Ed altro ancora. I basilari criteri del diritto internazionale sono stati violati non solo per i molti cadaveri ritrovati nelle «fosse comuni» (e il modo con cui sono stati rinvenuti), ma anche per i corridoi umanitari non garantiti - o lasciati credere garantiti e poi intenzionalmente violati - oppure non concessi, come pure per il bombardamento di edifici ospedalieri e scolastici. La gente vive in strettezze di tutti i tipi, in primis l’assenza di cibo e di acqua. La configurazione di un delitto di genocidio, prende sempre più piede, con la progressiva scoperta delle atrocità commesse sulla popolazione debole e inerme. I soggetti agenti e agiti di questa tragedia, l’aggressore russo e l’aggredito ucraino, sono ben chiaramente identificati ed anche eticamente valutati. Dal punto di vista morale, un giudizio oggettivo è molto chiaro e grave, anche considerando l’ingiustificato motivo imperialistico e pseudo-difensivo che si dice abbia mosso all’invasione armata di uno Stato libero e sovrano. È ovvio che la cosiddetta «difesa» dello Stato russo non può essere configurata come «preventiva», perché avviene in assenza di precise aggressioni e soprattutto non può giustificare in nessun modo invasioni violente come quella che purtroppo è in atto da più di quattro mesi.
Appare, invece, assodato il diritto a difendersi di una nazione stremata come l’Ucraina, ossia il suo diritto naturale a cercare di bloccare con la forza la violenza bellica, ampiamente letale, dell’aggressore. E questo, se necessario, sino alla sua soppressione fisica. È questo un precipuo dovere della pubblica autorità, a cui non può eticamente sfuggire. Come nel caso dei governanti ucraini, se si può rinunciare alla propria legittima difesa, non si può rinunciare alla legittima difesa dovuta a terzi, al popolo intero. Nel caso in questione, si configura, inoltre, il diritto a essere sussidiati nell’opera difensiva, che diviene cogente perché le risorse proprie sono insufficienti, mentre quelle degli Stati vicini abbondano.
Come è avvenuto in altri casi, in quello ucraino è configurabile, in modo preciso, l’evenienza di un’ingerenza umanitaria. Alla sua concreta gestione poteva o doveva presiedere l’autorità mondiale, l’ONU. Purtroppo ciò non è avvenuto perché tale autorità al momento difetta di quella trasparenza decisionale e di quella efficacia operativa che sarebbero richieste. Basti pensare che la Confederazione russa siede nel Consiglio di sicurezza, che delibera all’unanimità dei suoi membri e a cui attualmente spetta assumere decisioni a proposito dell’invasione russa in Ucraina. Il semplice veto russo è in grado di bloccarle. Siamo di fronte ad un’impasse molto importante che segnala deplorevolmente la debolezza dell’istituzione mondiale, che da molte parti, anche dalla Chiesa Cattolica, si è richiesto di riformare.
Questo diritto scatta quando la situazione aggressiva è estrema e ogni altra iniziativa di pacifica trattativa negoziale è fallita, ivi incluso l’effetto deterrente delle sanzioni economiche, mentre persone deboli e totalmente esposte continuano a cadere uccise o colpite sotto i colpi balistici o missilistici inferti con inaudita ferocia da impianti molto sofisticati. Siamo di fronte ad una extrema ratio, la cui urgenza per la tempistica e la cui emergenza per i beni personali coinvolti richiede una risposta hic et nunc puntuale e precisa, incompatibile con i tempi diplomatici troppo lunghi e incerti. Del resto, da un punto di vista etico, è ulteriormente in gioco la questione di una specifica connivenza, quella di chi lascia che sia aggredita a morte la popolazione che può in qualche modo aiutare a sfuggire ad un destino così disumano.
La legittima difesa non alimenta il conflitto, innescando una escalation militare, come alcuni pensano. Al contrario, invece, lo contiene (come può) nel suo tragico dilagare. Pertanto, non si può essere contrari all’invio di aiuti militari, con la motivazione che così si alimenterebbe la guerra, che certo diversamente si indebolirebbe o finirebbe, ma semplicemente per il dilagare di una situazione vicina al genocidio, lasciando morire o ferire chi forse si poteva salvare.
Si potrebbe prospettare qui anche la questione della scelta di resa, quando cioè le effettive capacità di difesa sono di fatto esaurite o non siano più presenti. Ci si domanda, cioè, se sia giusto continuare nella lotta di contrasto, quando questa è diventata solo simbolica e per malinteso amor di patria o di nazione si estremizzano le vicende fino a condurle alla morte certa, in una resistenza che non ha più alcun senso. La resa potrebbe essere auspicabilmente anche patteggiata e non semplicemente senza condizioni e senza garanzie. Si prospetta pure la domanda sulla sua effettiva praticabilità, e sulla sua efficace capacità di garantire situazioni più positive delle attuali. In altre parole, è difficile chiedere di rinunciare alla lotta per la propria libertà e per quella dei propri cari e del proprio popolo: è istintivo andare fino in fondo: è comprensibile, ma è altresì ragionevole scegliere di lottare, forse per un onore non sempre beninteso, quando la lotta non ha più alcun senso, se non un destino di morte?
L’uso della forza, che se immorale è violenza, anche se non sempre è il caso, è strettamente vincolato, a sua volta, non a distruggere l’aggressore, ma solo a porlo in una situazione di non nuocere, a disarmarlo, a disinnescare il potenziale bellico con cui offende indiscriminatamente. La logica ad esso soggiacente non è vendicativa, perché non dimentica la dignità della persona umana dell’aggressore, ma punta a renderlo appunto innocuo. Non è quindi da pensare una guerra totale, anche se solo convenzionale, cioè senza l’uso di ordigni nucleari, che giunga per esempio a coinvolgere interi paesi in una ritorsione infinita, ma solo puntuali azioni belliche atte allo scopo di cui sopra si diceva. Non sempre è semplice operare questa distinzione in actu, quando per esempio le conoscenze disponibili sono poche e insicure, oppure quando gli stessi interventi militari sfuggono ad una misurazione precisa. Tuttavia il criterio rimane, per lo meno a livello orientativo, valido.
Certo la diplomazia deve continuare ad operare, anche perché dovrà riprendere al momento della fine delle ostilità belliche, a meno che non si presenti lo scenario imperialistico che muove la guerra russo-ucraina. Tuttavia, ciò che può essere utile per la soluzione del problema-guerra non è la considerazione unilaterale o della via diplomatica o della via umanitaria o della via economico-finanziaria o della via difensivo-militare, ma la sinergia delle quattro. Occorre agire in modo convergente su più fronti per ottenere il risultato di una cessazione delle ostilità o per lo meno di un ‘cessate il fuoco’. Le prime tre sono assicurate, nonostante difficoltà realizzative e applicative e fallimenti; la quarta occorre porla in atto, con discrezione e efficacia, quando le vittime - morti e feriti - degli orrori di questa guerra ingiusta crescono e non possono più lasciarci impassibili e rassegnati spettatori alla violenza altrui. È il sacrosanto diritto alla legittima difesa, a disarmare l’aggressore, a impedirgli che continui indiscriminatamente ad uccidere e a ferire.
Ed infine occorre, anche in situazioni tragiche e drammatiche, non smettere di pensare al futuro, migliore del presente, quando cessata l’attuale insensata guerra, si dovrà gestire il dopo-guerra, qualunque esso sarà, perché la distruzione delle persone, delle famiglie e delle città, non inneschi una crisi depressiva che dilapidi ogni seppur piccola risorsa di bene. Occorrerà una leadership forte e coraggiosa e lungimirante, che sappia guidare un popolo colpito, quello ucraino, verso la realizzazione della propria identità morale e religiosa nel concerto degli altri Paesi.

5. Il cuore del discernimento cristiano rispetto alla violenza

In vari momenti del suo magistero, a fronte della violenza e della guerra, papa Francesco propone l’esemplarità dell’azione non violenta di Gesù Cristo. Diventa, allora, importante fermarsi a considerare quanto ha detto e fatto il Signore Gesù. Ciò è fondamentale per il discernimento cristiano, specie sul piano evangelico, che deve trovare adeguata traduzione sul piano politico. Gesù Cristo «predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cf Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cf Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cf Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cf Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cf Ef 2,14-16)».[36]
Poiché Gesù Cristo è indicato come modello e fonte di nonviolenza, in vista di una prassi cristiana, diventa necessario esplicitarne per i credenti le ragioni e le modalità. Egli rivela la nostra vocazione alla pace e, dunque, alla nonviolenza attiva e creativa. La sua morte in croce è denuncia della violenza e sollecitazione all’impegno nell’amore e nella giustizia. È fondazione di un’etica della nonviolenza, di un ethos contrassegnato, come appena accennato, dall’attività e dalla creatività. 

5.1. Gesù Cristo rivela la nostra «vocazione» alla pace, alla nonviolenza

Il Dio rivelato da Gesù Cristo non è un Dio violento, un Dio della guerra santa. Dire che Dio vuole la guerra e la violenza è bestemmiarlo. Ecco quanto papa Francesco scrive nel suo Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace (1 gennaio 2017): «Lo ribadisco con forza: “Nessuna religione è terrorista”. La violenza è una profanazione del nome di Dio. Non stanchiamoci mai di ripeterlo: “Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!”».[37] Il Dio dei cristiani è un Dio pacifico, che si fa vicino come colui che perdona, redime e umanizza divinizzando. Rivelando Dio, la sua misericordia, Gesù Cristo rivela all'uomo il suo destino: l’Amore trinitario, principio e fine dell’esistenza.
Visibilizzazione del Padre, presentandosi con i tratti del «Servo sofferente», il Signore Gesù viene ad assumere e a risignificare la storia dell'uomo. Ne vuole cambiare il corso senza l’appoggio degli eserciti. Mentre viene catturato, ordina a Pietro: «Rimetti la spada nel fode­ro, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Mt 26,52-54). Con queste parole, Egli vuole interrompere la spi­rale di violenza che si sta abbattendo su di lui. Alla violenza risponde con la nonviolenza. È profondamente consapevole dei rapporti aggressivi, che determinano le strutture della realtà esistente: la violenza chiama violenza; chi pratica violenza subisce violenza e, facilmente, mette in atto altra violenza. La catena si interrompe solo rinunciando alla violenza. Ma ciò non implica subirla con passiva rassegnazione. Si ri­nuncia alla violenza non perché si è impotenti ‒ Gesù non è in­difeso. Ha a sua disposizione un enorme potenziale di forza, contro il quale la violenza terrena non potrebbe che in­frangersi ‒, ma vi rinuncia con la forza dell'Amore e del perdono, seppure umanamente “costosi”. Colui che, per amore di Dio e dell’uomo, smaschera le strutture di violenza non può sfuggire alla reazione che la violenza immancabilmente gli scatenerà contro. Preparandosi al terribile sacrificio, prima ancora di essere catturato Egli confida agli apostoli e alla folla: «È giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell'uomo» (Gv 12, 23). «Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, glorifi­ca il tuo nome» (Gv 12, 27-28). Cosciente d'essere l’Uomo Nuovo, nel momento stesso in cui è attivo nel dono supremo di sé, e si prepara ad affrontare la morte, Gesù inaugura per ogni uomo un cammino di nonviolenza e di pace. In Gesù, che riconcilia l’umanità con Dio accettando di compierne la volontà, viene prefigurata un’esisten­za di comunione con il Padre e con i fratelli: l’uomo è essere per la pace e la nonviolenza.
Anche l’uomo, creato ad immagine somigliantissima di Dio e redento da Cristo, è chiamato ad essere profeta della pace e della nonvio­lenza, superando discriminazioni di ogni tipo, fra vicini e lon­tani, fra amici e nemici. La storia umana, in virtù del mistero della creazione e dell’incarnazione, trova inscritta in sé la vocazione all’unità, alla partecipazione della vita di Amore che incessantemente flui­sce all’interno della Trinità, in una parola, alla pace. La nuova immagine di Dio, rivelata dal Signore Gesù, fonda ed esige fra le persone nuovi rapporti, contrasse­gnati dalla fraternità, dalla concordia e dal perdono, dalla verità e dalla giustizia, dalla solidarietà.

5.2.  La croce di Gesù è denuncia della violenza, non accettazione passiva di essa; è sollecitazione ad un impegno d’amore e di giustizia

È proprio in Gesù Cristo, che muore in croce con le braccia a­perte sul mondo e perdonando i propri persecutori (cf Lc 23,24), che il progetto divino di un’umanità pacifica e non violenta si mani­festa e si compie. Attraverso questo gesto sacerdotale, l'uma­nità è riconciliata con Dio, con l'Amore che redime, morendo e perdonando. È mediante il versamento del sangue di Gesù-uomo, nel quale la pienezza d'Amore si è compiaciuta di dimorare, che non solo l’umanità, ma tutte le cose in Lui ‒ come afferma san Paolo ‒, sono riconciliate (cf Col 1,20). Distruggendo in se stesso l’inimicizia, fonte di vio­lenza, Gesù abbatte il muro delle divisioni, unifica i popoli in un destino di pace, affratella in un solo corpo quelli che erano nemici (cf Ef 2,16; Rom 12,5).
Con il suo sacrificio, il Signore «ricrea» l’umanità, trasformandola da nemica, qual era divenuta in Adamo, in amica di Dio; mostra al mondo tutto l'impegno e la totale fedeltà del Padre al grande progetto di pace e di nonviolenza.
Dio vuole il rinnovamento dell’umanità non mediante coercizione o azioni vendicatrici, ma con la forza di un Amore, che si dona fino all'estremo e perdona. In Gesù Cri­sto, che sale spoglio sulla croce, Egli presenta al mondo la nuova u­manità e contrasta la libertà deicida con le armi del perdono che risana e riconcilia. Nel Figlio, che si incarna e si immola, il Padre, ricco di misericordia, si impegna a far uscire ogni uomo dal tunnel dell'odio e della violenza, immettendo la sua stessa vita d’amore.
La croce di Cristo è per il credente denuncia e vittoria sulla violenza, segno della solidarietà di Dio con l’uomo oppresso e sfregiato nella sua dignità. La croce non è propria­mente apologia della sofferenza, del sacrificio e della morte. Abbracciandola, Gesù la trasforma in atto d'accusa della vio­lenza del sistema religioso-politico del suo tempo, da cui è rifiutato e ingiustamente condannato. Per la risurrezione, che non è com­penso e riparazione dell’apparente insuccesso della morte di Gesù, ma l’af­fermazione sfolgorante della potenza della vita divina, la croce indica ad ogni uomo la via che porta al trionfo sulla violenza e sull'odio. Con la crocifissione, Gesù assume su di sé anche la con­dizione di ogni persona ingiustamente condannata. Poiché Dio Padre si curva sul Figlio per accogliere il dono della sua vita e per eternarla nel dinamismo potente della risurrezione, la croce testimonia la so­lidarietà di Dio nei confronti di chiunque sia calpestato nei suoi diritti fondamentali.
Quando il credente si immerge nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, specie con il Battesimo e poi partecipando all'Eucaristia ‒ ove è celebrato il memoriale della passione del Figlio di Dio, che muore per redimere dal peccato e spezzare il circolo vizioso del­la violenza ‒, è reso partecipe della vitalità e della fecondità sanante e liberatrice dell'Amore-non violento. Nello stesso tempo è chiamato ad essere uomo del perdono, ad amare i propri nemici e a pregare per i propri persecutori. Profondamente pacificato, at­tivo nel dono di sé, è invitato a impegnarsi a fianco degli op­pressi e degli ultimi, non per annientare gli oppressori e gli sfruttatori, ma per scuoterne le coscienze e portarli a Cristo, il «Servo sofferente», perché siano guadagnati definitivamente all'amore, alla giustizia, alla pace. Gesù, nel suo incontro con l'umanità, ha guarito gli ammalati e i peccatori, ristabi­lendoli nella loro integrità e nella loro dignità. Non ha condannato il peccatore, ma con i suoi gesti e con le sue parole ha rivelato la violenza latente nei suoi interlocutori (i farisei, i sadducei, gli zelo­ti), riformulando sistematicamente le loro subdole domande e sollevando i veri problemi, per mettere i suoi detrattori di fronte alla loro coscienza. Ai suoi occhi la violenza nasce nel cuore e si esprime già nella parola.

5.3. Gesù fondamento delle istanze etiche e religiose della nonviolenza

Il messaggio della pace e della nonviolenza nel Vangelo è con­nesso con l'annuncio e l'avvento del Regno di Dio. Nella reinter­pretazione della volontà del Padre fatta da Gesù, l'amore del pros­simo non è circoscritto al «prossimo» più vicino, inteso come membro del proprio gruppo etnico, religioso e sociale. Come si è già consi­derato, dal giorno in cui Dio si è rivelato come un Padre, che ama e benefica i suoi figli senza distinzioni, i confini dell'amore si so­no dilatati fino ad abbracciare il nemico. La formula della tradi­zione sacerdotale, «Ama il prossimo tuo come te stesso», viene por­tata a compimento da Gesù: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vo­stri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate fi­gli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,43-45).
Attraverso questa nuova formulazione dell’amore tra gli uomini, che radica l’ethos della nonviolenza nel modo di agire del Pa­dre e del Figlio, viene disinnescata alla base l'ideologia del nemico che, lungo la storia biblica ‒ e quella successiva cristiana ‒, ha giustificato l'eliminazione fisica dell'avversario. Non si tratta di amare il nemico continuando a considerarlo nemico, ma di amarlo, non trattandolo più come tale e cercando di trasformarlo in amico. L’abolizione della categoria di «nemico» non significa accettare l’ingiustizia, ignorare i conflit­ti. Si vuole, invece, attuare la giustizia nel suo significato più pieno, giacché il prossimo, come insegna lo stesso Gesù nella parabola del buon Samaritano, non è un essere astratto, ma reale, concreto, bisognoso di aiuto e di amore. A lui spetta l’amore misericordioso del Padre per rinascere come persona nuova ed essere pienamente se stesso, ossia figlio di Dio.
Mediante il suo insegnamento, Gesù invita a rinunciare alla stra­tegia della violenza per assumere quella dell’amore attivo e creativo. Propone la giustizia dell’amore ‒ una forma più alta della giustizia, che cerca di stabilire una corrispondenza fra delitto e castigo ‒, che libera il malvagio dalla spirale della violenza e dell’iniquità: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un mi­glio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti comanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle» (Mt 5,38-42). Con queste parole, più che un codice di comportamento da seguire alla let­tera, Gesù propone l'istanza dell’amore, che si esprime in forma creativa anche nelle situazioni più difficili di violazione dei diritti persona­li, come nel caso di insulti ingiuriosi, di espropriazioni dei beni personali, di requisizioni per la corvée pubblica o militare, di prestiti esosi e di oppressione dell’insolvente.
Motivi o fini diversi possono indurre a rinunciare alla resisten­za violenta come reazione alla violenza subita. Questa rinuncia può essere espressione di una protesta passiva e sofferta, può voler dimostrare una neutralità disinteressata, può infine essere una strategia di sopravvivenza di chi si sente sopraffatto e senza speran­za. In tutti questi casi, non vengono presi in considerazione né l'atteggiamento né l'azione del violento: il suo predominio viene sopportato, tollerato o addirittura accettato. L’imperativo etico, espresso nei passi evangelici appe­na citati, si differenzia da queste tre forme. Il non violento non è né impotente né neutrale, ma si occupa amorevolmente del suo avversario. Mediante l’interruzione del circolo vizioso della violenza, questi può essere indotto a ve­rificare e, infine, a modificare il proprio agire. Se il comandamento dell'amore per il nemico è cogente, allora la sua aggressività, non può esserci indifferente: l’uomo di pace non può rimanere inattivo in un ambiente violento.

5.4. L’esperienza di Cristo aiuta la comunità cristiana a delineare un’etica della nonviolenza

Per la fede, l’etica dell'azione non violenta si radica nell’esperienza dell’Essere stesso di Dio, rivelato dal Verbo fattosi carne. I testi biblici lo presentano come «il Vivente», il creatore e difensore della vita, il liberatore degli oppressi, come Amore (1 Gv 4,8.16). Gli esseri umani sono chia­mati «figli di Dio». Assumere questa figliolanza è vivere a immagine del Padre, difendendo e promovendo la vita con la forza creativa ed attiva dell’amore, che spezza il determinismo della violenza e dà l’avvio a nuove relazioni umane.
L’etica dell’azione nonviolenta si fonda su ciò che si potrebbe chiamare «l’avventura umana di Dio», cioè il modo che Egli ha scelto per rendersi presente nella nostra storia – l’in­carnazione ‒, al fine di trasformarla e renderla feconda, facendola sbocciare in un compimento armonioso: «il regno di Dio», regno di pace e di giustizia. Inaugurato da Gesù Cristo, morto e risusci­tato, questo «Regno» è germe da accogliere, da far crescere in unione e comunione con Lui, escludendo ogni violenza dalla sua realizzazione. La proclamazione del Regno è proclamazione dell’alleanza di pace stabilita da Cristo fra il Padre e tutti i popo­li, e fra i popoli stessi, vincendo il peccato e l’odio. Questa pace non è semplicemente frutto dell’accordo umano, ma è dono di Dio. La pace di Dio e la pace del mondo non sono i­dentiche: «Vi lascio ‒ dice Gesù ai suoi discepoli ‒ la pace; vi do la mia pace; non come la dà il mondo io ve la do» (Gv 14,27).
Va tuttavia aggiunto subito, a scanso di gravi equivoci, che l’insegnamento di Cristo e la sua stessa azione non escludono af­fatto dalla condotta cristiana un atteggiamento forte, che in caso di necessità può, o anche deve, realizzarsi con giusta energia. Egli insegna, infatti, che «il Regno dei cieli subisce violenza e sono i violenti che lo rapiscono» (Mt 11,12; cf Lc 16,16). E, nel caso dei venditori nel tempio, interviene con estre­ma determinazione (cf soprattutto Gv 2,14-17).
D’altro lato, gli evangelisti non evitano di ricordare l’«ira» di Cristo (Mc 3,5 e probabilmente anche 1,41) e la sua «indigna­zione» (Mc 10,14).
Né, infine, vi è traccia nel Nuovo Testamento (=NT) di una condanna del servizio militare. È anche istruttivo l’insegna­mento di Giovanni il Battista, che troviamo in Luca: ai militari in esercizio attivo (strateuomenoi), che chiedono come convertirsi, egli raccomanda l’onesto svolgimento delle loro mansioni (Lc 3,14), e non di abbandonarle.
La primigenia comunità cristiana è posta di fronte al mondo come comunità modello, proposta vivente e concreta di «società alternativa», non violenta. È chiamata ad essere sale della terra e luce del mondo, vivendo nei fatti la riconciliazione con Dio e con i fratelli, non dominata da strutture violente, quali quelle delle potenze della terra. I discepoli delle comunità neotestamentarie celebrano nell’Eucarestia la morte di Gesù, come il superamento escatologico della violenza, e confessano che Dio, proprio mentre nel Figlio si la­scia colpire dalla violenza universale dell’uma­nità, ne spezza il circolo vizioso. Ma lo stesso Gesù Cristo ave­va messo sull’avviso i suoi discepoli sul permanere di tensioni anche gravi, che implicano delle vere lotte (Mt 10,34-36), non la pace ma la spada (cf Lc 12,51-53). Se in situazioni indi­viduali è sempre possibile subire senza controbattere la violenza al­trui, per cui è da mettere in conto anche la propria morte, come potrebbe essere ritenuto giusto un tale atteggiamento da parte di chi ha la responsabilità di altre persone, specie se indifese? Il pa­store deve dare la vita per le sue pecore, ma certamente non sen­za prima combattere i lupi.

6. Il compito della Chiesa di annunciare il «Vangelo della pace e della nonviolenza»

La Chiesa, come ha suggerito papa Francesco, è chiamata a sostenere la cultura della pace e della nonviolenza in più maniere, ma ciò deve avvenire sulla base di una missione precipua.
La Chiesa, posta al servizio del «regno di Dio»,[38] regno di giustizia e di pace, non può esimersi dall’impegno dell’annuncio e della testimonianza del «Vangelo della pace», che, tra le sue necessarie articolazioni, ha l'annuncio e la testimonianza della nonviolenza-per-la-pace.
La comunità cristiana è cosciente che tale missione, suo diritto e dovere, le deriva dalla co­stitutiva, seppur incompleta su questa terra, unione con Gesù Cristo, Salvatore e Redentore, Principe della pace. Egli ha portato a compimento la legge antica, radicando l'ethos della nonviolenza nel modo di agire del Padre da Lui stesso rivelato (Mt 5, 43-45).
Chiamata a «prolungare» l’opera e l’insegnamento del Signore Gesù, che ha rinunciato alla strategia della violenza, predicando e realizzando la giustizia dell'amore attivo e creativo, per li­berare l'uomo peccatore dalla spirale della violenza e dell'iniquità, la Chiesa è consapevole che la verità e l'efficacia di questo suo compito  dipendono radicalmente dall'annuncio della sal­vezza operata da Gesù Cristo e dall’effettiva partecipazione ad essa, mediante la conversione al suo amore, alla sua giustizia, alla sua misericordia, al suo perdono, alla sua nonviolenza.
Per la Chiesa, l’impegno per la pace e per la nonviolenza è da abbracciarsi in qualità di figli nel Figlio, di discepoli di Gesù, che unifica tutti i popoli in un’unica famiglia, proprio nel momento in cui viene innalzato sulla croce, in atto di opposizione strenua al male e di dono totale al Padre per la redenzione dell'umanità. Tale impegno è da viversi per fede, nella carità, con speranza.
Annunciando Gesù Cristo, l’Uomo Nuovo, l’Uomo non violento per eccellenza, e facendo vivere i credenti in comunione con Lui, in Lui e per Lui, il «ricapitolatore» di tutte le cose, la Chiesa si costituisce, connaturalmente, segno efficace e testimonianza profetica della pace e del­la nonviolenza. E ciò, per un’opera magnifica e grande, mai conclusa, che attraversa tutte le genera­zioni, sino alla fine dei tempi.
Nel campo dei rapporti umani, la missione evangelizzatrice della Chiesa, si articola nell'annuncio del «Vangelo della pace e della nonviolenza», e, contemporaneamente, nella denuncia della pace falsa, della menzogna, dell'ingiustizia, dell'odio fratricida, delle guerre.
L’annuncio ha il suo centro naturale nella proclamazione del «regno di Dio», al­leanza riconciliatrice fra Dio e l’uomo, e di Gesù Cristo, Messia di pace e di nonviolenza. Questo an­nuncio va sempre unito alla proclamazione dell'evento-Cristo, perché il regno di Dio, che trasforma i rapporti umani, tanto più si allarga quanto più il Signore, venuto per instaurarlo, è accolto (cf Rm 16). Gesù Cristo dilata i confini del Regno vincendo il peccato, fonte ultima delle violenze e delle guerre omicide, e riconducendo l’umanità all'obbe­dienza della Legge divina e alla pacificazione.
È, quindi, parte integrante dell'annuncio del «Vangelo della pace e della nonviolenza», l'appello a ritornare a Dio, ad aprire le porte a Cristo, ad accogliere il dono messianico dello sha­lom, inteso come stato di bene-essere totale e pienezza di felicità che proviene da Dio. Come pure, ne è elemento essenziale la «rivelazione» che, nel piano della salvezza per ogni uomo, in Gesù Cristo è prefigurata un’esistenza di armonia con Dio e con i fratelli. Creato ad immagine somigliantissima di Dio Trinità, Amore e Co­munione perfetti; redento da Gesù, l’uomo è vocato alla «profezia» di una storia che supe­ra contrapposizioni radicali, discriminazioni di ogni tipo, odi e guerre fratricide, e viene «costrui­ta» come un susseguirsi di rapporti e realizzazioni contrassegnati dalla verità, dalla giustizia, dalla solidarietà e dall'amore.
La «denuncia» della pace falsa, della menzogna e dell'ingiustizia palese, implica, invece, sia lo smascheramento della violenza, velata dietro le parvenze della legalità o della «ragion di Stato», sia la loro condanna pubblica. Passa attraverso l’individuazione e la segnalazione delle sue cause più profonde, specie quelle etiche. Per non rimanere sterile, a seconda dei casi si traduce in invito alla protesta; all’obiezione di coscienza, che può essere civica o militare, opportunamente ri­conosciute e regolamentate dalla legge; alla disobbedienza civile alle leggi ingiuste; alla non cooperazione con il potere costituito, qualora gravemente offensivo della dignità delle persone; alla «lotta per la giustizia»; alla creazione, se è il caso, di un contropotere e di istituzioni parallele; all’uso della coercizione non violenta, ossia senza impiego di mezzi di distru­zione della vita degli uomini e delle cose; all’«ingerenza umanitaria» o,[39] meglio, alla responsabilità di proteggere[40] gruppi oppressi; alla difesa civile non violenta.

7. Conclusione: una via realistica. Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace

A fronte dei gravi problemi che stanno tragicamente manifestandosi oggi – basti pensare alla guerra in Ucraina – non basta per i credenti sostenere un pacifismo di testimonianza, che da solo non sarebbe in grado di far avanzare la causa della pace. Il pacifismo di semplice testimonianza rischia di coltivare il sogno di eliminare la guerra dal mondo senza distruggere il mondo della guerra. Occorre, invece, decisamente impegnarsi sulla via di una non violenza pacifica, attiva e creatrice. Ossia una via che non solo condanna la guerra, ma che costruisce alacremente la pace. È la via di un nuovo pacifismo, il cui slogan potrebbe essere espresso così: se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Detto in altro modo ancora: si vis pacem, para civitatem. La guerra va sconfitta predisponendo, a livello spirituale, sociale, economico, politico ed istituzionale, tutto ciò che la previene o la rimuove. Cosa più in particolare? La Dottrina sociale della Chiesa, specie con le encicliche dei pontefici, ma anche con i loro Messaggi per la giornata mondiale della Pace, ha indicato da tempo le vie da percorrere, quali: il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti,[41] mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito;[42] la radicale revisione delle regole del mercato globale delle armi (la Russia è il secondo esportatore al mondo di armamenti, dopo gli USA; il trattato sul commercio di armi convenzionali, mentre è stato ratificato dalla UE, non è stato firmato da USA, Russia e Cina); dare vita ad una Agenzia Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), in cui far affluire, ad es., anche solo il 10% della spesa militare globale che in un decennio potrebbe sanare le attuali diseguaglianze strutturali; la revisione del trattato di non proliferazione nucleare; uno sviluppo integrale, sostenibile ed inclusivo; la creazione di istituzioni di pace, implicante la riforma dell’attuale ONU in senso più democratico,[43] la revisione trasformazionale dell’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO) e divenute obsolete; la creazione di nuove istituzioni – dotate di poteri mondiali - relative alle migrazioni (OMM), all’ambiente (OMA), all’acqua; l’universalizzazione di una democrazia partecipativa, rappresentativa, inclusiva, deliberativa. Su questo aveva già scritto lo stesso papa Francesco nel citato Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale per la Pace del 1° gennaio 2017, ove ha iniziato a delineare gli elementi costitutivi di una non violenza attiva e creativa, quale unica via efficace di costruzione della pace.[44]
Come ha scritto Norberto Bobbio, le radici più profonde del pacifismo etico, che si incarna nell’impegno di tutti gli uomini a costruire istituzioni di pace, mediante una collaborazione universale, «debbono essere cercate nell’ideale dell’“uomo nuovo”, un ideale che è entrato imperiosamente nella storia dell’Occidente col cristianesimo».[45] Fondamentale, in vista della costruzione di istituzioni di pace, è peraltro il dialogo interreligioso ed ecumenico, come anche l’impegno sinergico delle molteplici associazioni e dei movimenti pacifisti sorti un po’ ovunque, quali espressione della società civile mondiale, prima responsabile della pace. Non si dimentichi che, a livello internazionale e sovranazionale, l'instaurazione e il mantenimento della pace esige, sempre più, la partecipazione di tutti alla costruzione di una vera e propria società politica mondiale, caratterizzata da una corrispondente autorità, costituita mediante un processo democratico universale, dal basso. A livello internazionale e sovranazionale, quali espressioni di una comunità e di istituzioni sovranazionali che sempre più si rendono concretamente responsabili della realizzazione della pace mondiale, vanno segnalate, come modalità e vie non violente, le operazioni, compiute da vari eserciti attrezzati ad hoc, normalmente sotto l’egida dell’ONU, di peacekeeping, peace building,[46] peace enforcing.
L’amore per la pace, per ogni uomo e popolo, si fa concreto quando, a fronte di fenomeni transnazionali, ossia richiedenti risposte non semplicemente nazionali, si rafforzano e si riformano urgentemente le attuali istituzioni in modo che in esse siano equamente rappresentati gli interessi della grande famiglia umana. Occorre che esse sappiano contrastare i nuovi totalitarismi, compresi quelli finanziari, che mettono a repentaglio il destino dei popoli, la loro libertà, escludendoli o emarginandoli dal mercato internazionale, da uno sviluppo integrale ed inclusivo. Ai popoli più deboli, non si tratta di dare il superfluo, ma di aiutarli ad entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano, di un’ecologia integrale. Se non si combatteranno le attuali povertà e diseguaglianze, rimuovendo le cause profonde di una crescente dominazione da parte di una ricchezza egoista e amata per se stessa, non è da escludere che, come prevedeva la Populorum progressio, i popoli poveri si ribellino nei confronti dei popoli dell’opulenza. L’ingiustizia che si aggrava, non solo aumenta gli squilibri tra i popoli, e grida verso il cielo, ma partorisce tensioni e conflitti. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune mondiale e alla pace, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana.[47] «Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana».[48]

NOTE 

[1] Sul tema della pace si legga la voce ad essa dedicata e scritta da Norberto Bobbio per il I Supplemento dell’Enciclopedia del Novecento del 1989, ripubblicata da Treccani, Arti Grafiche La Moderna, Guidonia Montecchio (Roma) 2022.
[2] Cf Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes (07.12.1965), in AAS 58 (1966) 1025-1115 (=GS), n. 80.
[3] GS, n. 78.
[4] Cf III Sinodo dei Vescovi, La giustizia nel mondo, in AAS 63 (1971), 923-982.
[5] Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana 2003, nn. 2306.2308-2311.
[6] Sul tema della «guerra giusta», sulla sua crisi e sulla discussione intorno ad essa si veda almeno: P. Carlotti, La pace, la difesa militare e le sue legittime forme, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Il concetto di pace. Attualità della «Pacem in terris» nel 50° anniversario (1963-2013), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 351-384.
[7] In questi ultimi anni è progredita, ad esempio, la riflessione sull’uso dei droni, sulla liceità di sistemi di armi autonome, che escludono l’attore umano dalla presa di decisioni letali. A questo proposito, per comprendere la posizione della Santa Sede si legga l’intervento dell’arcivescovo Silvano M. Tomasi, già Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e delle Istituzioni Internazionali a Ginevra: cf Intervento della Santa Sede a Ginevra: Per la proibizione di armi letali, in «L’Osservatore romano» (sabato 17 maggio 2014), p. 2.
[8] Cf su questo Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Il commercio internazionale delle armi, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1994, p. 13. Sono almeno tre gli argomenti contrari alla difesa nucleare. Anzitutto, essa è ostacolata dal principio di separazione tra ius ad bellum e ius in bello. Secondo il diritto internazionale dei conflitti armati (ius in bello), l’aggredito deve reagire con una difesa legittima, anche in caso di aggressione illegittima per il diritto internazionale sull’uso della forza armata (ius ad bellum). In altri termini, una violazione dello ius ad bellum non autorizza la violazione dello ius in bello. Per quanto la conclusione sia difficile, in base ai principi generali, un attacco nucleare che minacci la sopravvivenza di uno Stato (contrario allo ius ad bellum) non legittima la difesa nucleare (contraria allo ius in bello). In secondo luogo, la difesa nucleare non sembra rispettare una delle condizioni per la legittimità della difesa, cioè il bilancio delle conseguenze. Nel solco di una lunga tradizione morale e giuridica, l’insegnamento sociale della Chiesa ritiene che non è legittima la difesa – anche se proporzionata all’offesa – qualora provochi mali maggiori del male da eliminare (cf Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 500). In terzo luogo, la difesa nucleare appare in sé inopportuna, considerata la natura delle armi nucleari.
[9] Sul tema del disarmo integrale si veda almeno: Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Prospettive per un disarmo integrale, Atti del Seminario Internazionale su disarmo, sviluppo e pace (Roma, 11-12 aprile 2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.
[10] La guerra preventiva si distingue dalla difesa attuale (da un attacco in corso) e dalla difesa anticipata (da un attacco imminente), che la maggioranza degli Stati considerano lecite secondo l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite sulla legittima difesa.
[11] Con le Sentenze della Corte costituzionale n. 164 del 1985 e n. 228 del 2004 si è sancito che il dovere costituzionale dei cittadini di difesa della Patria può venire svolto in maniera equivalente con modalità diverse e/o estranee alla Difesa militare. Con DPCM del 18 febbraio 2004 è stato istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, un Comitato di consulenza per la difesa civile non armata e nonviolenta (DCNAN).
[12] GS, n. 80. Sul piano giuridico, tale giudizio, si è tradotto nel sostegno al diritto umanitario e nell’adesione della Santa Sede al Trattato sul divieto generale dei test nucleari e al Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari (TNT), considerati un mezzo per promuovere la pace e scongiurare il rischio di devastazione che minaccia l’umanità (cf Holy See, Declaration of adhesion to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons (25 February 1971), reperibile nel sito delle Nazioni Unite disarmament.un.org.
[13] Cf Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris (11.04.1963), in AAS 55 (1963) 254-304, n. 67 (= PT)
[14] Cf Giovanni Paolo II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio1984), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1983, n. 4.
[15] Giovanni Paolo II, Ai partecipanti alla Cerimonia conclusiva dell’Assemblea Interreligiosa (28 ottobre 1999).
[16] Giovanni Paolo II, Discorso al Corpo Diplomatico (16 gennaio 1993).
[17] Benedetto XVI, Ad Delegatos Nationum Unitarum, Acta Apostolicae Sedis, 100 (2008) 333. L’originale è in francese.
[18] Cf Benedetto XVI, Lettera al Cardinale Raffaele Martino, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Prospettive per un disarmo integrale, Atti del Seminario internazionale su Disarmo, sviluppo e Pace (Roma ,11-12 aprile 2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, p. 9. Sull’evoluzione del pensiero della Santa Sede sulla guerra e sulla pace, vista dai Gesuiti de «La Civiltà Cattolica», si legga F. Occhetta, Jesuitas y Papas, la guerra y la paz, Ediciones Endymion, Madrid 2007.
[19] Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019.
[20] Cf Francesco, Discorso all’Incontro interreligioso, Piana di Ur, 6 marzo 2021.
[21] Francesco, Discorso sulle armi nucleari presso Atomic Bomb Hypocenter Park (Nagasaki), Domenica, 24 novembre 2019.
[22] Cf Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla fondazione «Gravissimum Educationis», Sala Clementina, 18 marzo 2022.
[23] Cf Francesco, Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace, Solferino – Libreria Editrice Vaticana, Milano-Città del Vaticano 2022, p. 8.
[24] Cf Francesco, Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace, pp. 7-21.
[25] Su questo diritto si va riflettendo da tempo. Basti pensare a E. Mounier e a Giorgio La Pira (cf a. Lamacchia, Il diritto alla pace. Mounier e La Pira testimoni del nostro secolo, Ecumenica Editrice, Bari 1995). Ma si veda anche R. Ranjeva, Disarmo e diritti umani: sfide per un diritto umano alla pace, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Prospettive per un disarmo integrale, Atti del Seminario Internazionale su disarmo, sviluppo e pace (Roma, 11-12 aprile 2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 83-102.
[26] Cf GS, n.79.
[27] Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 61.
[28] Cf ib. In questa linea si è mosso il messaggio di papa Francesco alla «Conferenza dell’ONU finalizzata a negoziare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari, che conduca alla loro totale eliminazione», la cui prima parte si è svolta a New York dal 27 al 31 marzo 2017. In tale messaggio si rilevano alcune ragioni che fanno capire come la pace non si possa reggere sul perno della deterrenza nucleare. «Se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide. Siffatte preoccupazioni assumono ancor più consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio. Simile motivo di preoccupazione emerge di fronte allo spreco di risorse per il nucleare a scopo militare, che potrebbero invece essere utilizzate per priorità più significative, quali la promozione della pace e dello sviluppo umano integrale, così come la lotta alla povertà e l’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli. La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere. La pace deve essere costruita sulla giustizia, sullo sviluppo umano integrale, sul rispetto dei diritti umani fondamentali, sulla custodia del creato, sulla partecipazione di tutti alla vita pubblica, sulla fiducia fra i popoli, sulla promozione di istituzioni pacifiche, sull’accesso all’educazione e alla salute, sul dialogo e sulla solidarietà. In questa prospettiva, abbiamo bisogno di andare oltre la deterrenza nucleare: la comunità internazionale è chiamata ad adottare strategie lungimiranti per promuovere l’obiettivo della pace e della stabilità ed evitare approcci miopi ai problemi di sicurezza nazionale e internazionale. In tale contesto, l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario» («L’Osservatore romano», mercoledì 29 marzo 2017, p. 8).
[29] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 43.
[30] Chi scrive ha predisposto un Commento su tale Messaggio: M. Toso, La nonviolenza stile di una nuova politica per la pace, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2017.
[31] Si tratta di una letteratura molto vasta. Qui, ci limitiamo a rimandare ai seguenti volumi: S. J. Pharr- R. D. Putnam (a cura di), Disaffected Democracies. What’s Troubling the Trilateral Countries, Princeton University Press, Princeton 2000; G. Zagrebelsky, La democrazia e la felicità, a cura di E. Mauro, Laterza, Roma-Bari 2011; C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011.
[32] Cf, ad esempio, Francesco, Discorso al II Incontro dei Movimenti Popolari (9 luglio 2015).
[33] Francesco, Laudato si’, n. 14.
[34] Cf, ad esempio, Francesco, Discorso ai Rappresentanti della Confederazione Cooperative Italiane (28 febbraio 2015).
[35] GS 79. Cfr. anche: S. Lazar - H. Frowe [edd.] The Oxford Handbook Ethics of War, Oxford, Oxford University Press 2020.
[36] Cf Francesco, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace  (1 gennaio 2017), n. 3.
[37] Ib., n. 4.
[38] Cf Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio (=RM), Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1990, n. 20.
[39] Cf Giovanni Paolo II, Discorso alla FAO in occasione della Conferenza Internazionale sulla nutrizione (5 dicembre 1992), in «L'Osservatore romano» (6 dicembre 1992), pp. 4-5. L'ingerenza umanitaria si trova al confine tra non violenza e violenza. Essa diviene violenza quando le armi siano adope­rate per minacciare la morte o per aggredire. La non violenza non minaccia e non usa la violen­za.
[40] Cf Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 67. A proposito del passaggio in contesto internazionale e nella Dottrina sociale della Chiesa dall’intervento umanitario alla responsabilità di proteggere si legga G. Sale, Dall’intervento umanitario alla responsabilità di proteggere, in «La Civiltà Cattolica» (2014), pp. 474-486.
[41] Cf art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana che, analogamente al Magistero sociale, testualmente recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
[42] Su questo aspetto si veda quanto afferma Vladimiro Zagrebelsky secondo cui va lumeggiato un punto sul quale spesso non si riflette a sufficienza: «[…] il ripudio della guerra dichiarato nella prima parte dell’art. 11 della Costituzione non comporta l’esclusione di ogni tipo o occasione di guerra. Non è vietata la guerra difensiva da parte della sola Italia o collettiva nel quadro della partecipazione ad organizzazioni che agiscono a quello scopo», (V. Zagrebelsky, Il governo dichiari che armi invia a Kiev, in La Stampa, 8 giugno 2022, p. 29).
[43] Circa la forma di autorità politica mondiale, regolata dal diritto, come afferma la Fratelli tutti, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria, la difesa dei diritti umani fondamentali. È in questa prospettiva, precisa sempre papa Francesco, che diventa necessaria una riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Popoli. Senza dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, per impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale», (Cf Fratelli tutti, nn. 172 – 173).
[44] Su questo si legga S. Zamagni, Oltre il dualismo bellicismo-pacifismo: una via per costruire la pace, in «il Cantico», Marzo-Aprile 2022 on line, pp. 7-8.
[45] N. Bobbio, Pace, Treccani, Arti Grafiche La Moderna, Guidonia Montecchio (Roma) 2022.
[46] Nel 2005 l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza dell’ONU hanno creato la Commissione di Peace Building (PBC) come organismo intergovernamentale, con una composizione mista che coinvolge gli organismi principali delle Nazioni Unite, gli Stati che contribuiscono maggiormente in termine di fondi o di personale militare e gli Stati usciti dai conflitti.
[47] Cf Francesco, Laudato sì’, n. 189.
[48] PAOLO VI, Populorum progressio, n. 30.


* S. Ecc. Mons. MARIO TOSO è vescovo di Faenza-Modigliana. Già Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana e Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha al suo attivo numerosi saggi e scritti. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2006; Per un’economia che fa vivere tutti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015; Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016; La non violenza, stile di una nuova politica per la pace, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa Legatoria Corti di Fabrizio, Roma 2017; Cattolici e politica, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa Legatoria Corti di Fabrizio, Roma 20193; Ecologia integrale dopo il coronavirus, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa Legatoria Corti di Fabrizio, Roma 2020; Dimensione sociale della fede. Sintesi aggiornata di Dottrina sociale della Chiesa, LAS, Roma 20222.