Modernità ed esclusione

Erri De Luca

Incontro con i giovani


DE LUCA: Mi chiamo Erri De Luca. Il motivo per cui mi trovo qua é che faccio lo scrittore e non l’operaio. Dunque non sono un professore. La puntata di oggi é intitolata al tema Modernità ed esclusione. Vediamo il contributo filmato introduttivo al tema.
COMMENTATORE: Povertà ed emarginazione non sono condizioni nuove, forse accompagnano l’uomo da sempre e non c’è mai stata un’età dell’oro in cui la miseria, la fame e la sofferenza non c’erano. Ma é solo con la modernità che si é sancita l’idea che tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti. Diritti come quelli alla vita, all’integrità, alla dignità. L’era moderna è l’età in cui il cerchio del rispetto e del diritto si allarga sino a comprendere tutta l’umanità. Ed é solo con la modernità che i poveri e gli emarginati diventano propriamente degli esclusi. Sono gli esclusi dal godimento di quanto spetterebbe loro semplicemente in virtù dell’essere umani. L’età dei diritti ha fatto cambiare volto alla povertà e all’emarginazione. Non sono più solo condizioni sfortunate, frutto della sorte in cui alcuni si trovano a nascere e a vivere. Sono divenute uno status, quello di chi subisce un’ingiustizia, di chi vede un proprio diritto calpestato. Se per Aristotele gli schiavi erano tali per natura, essere schiavi oggi significa subire un torto, significa avere il diritto che l’abuso venga sanato e lo schiavista punito. Ma a chi chiede soddisfazione il diritto negato dell’escluso? Non c’è forse una responsabilità anche di chi ha il proprio diritto soddisfatto? Godere per sé dei benefici di un diritto, che si proclama universale, cioè per tutti, non implica forse assumersi la responsabilità che quell’universalità divenga realmente tale?
STUDENTE: L’esclusione sociale cambia con il tempo. I principali esclusi di una volta erano anzitutto gli schiavi, i quali ereditavano la loro condizione con la nascita. Oggi, secondo Lei, quali sono i principali esclusi?
DE LUCA: In Italia gli schiavi, per esempio, erano tutti gli "esclusi" del primo Novecento, che non trovavano pane e vita nel proprio Paese ed emigravano nelle Americhe o in giro per il mondo. Definirei quelli gli "esclusi" a viva forza. C’è stata e c’è una vasta tipologia di "esclusi". Gli ultimi "esclusi" sono quelli che giungono nel nostro Paese dal Terzo Mondo e dai Paesi dell’Est, perché costretti da miserie o da condizioni politiche insopportabili. Attualmente la maggior parte della popolazione carceraria é composta da extracomunitari, gli ultimi "esclusi" appunto. L’aggravante è costituita da quei "centri di prima accoglienza" in cui questi "esclusi" vengono rinchiusi, che spesso diventano "centri di ultima accoglienza" perché vi imperano condizioni di morte e desolazione. Li si ritiene responsabili solamente di avere calpestato senza autorizzazione il nostro suolo sacro.

STUDENTESSA: Oggi per "esclusi" si intendono le persone di colore, gli immigrati, o anche gli individui che soffrono di problemi psichici. Tuttavia io penso che in Italia non siano questi emarginati ed "esclusi" che facciano grande numero. Secondo Lei, non sarebbe prima necessario prendere in esame le situazioni delle famiglie disagiate, cioè di quelle famiglie che non riescono a soddisfare i bisogni di tutti i membri, e in particolare di bambini ed anziani?
DE LUCA: Certamente, ma questi ultimi sono ancora degli "inclusi", ossia appartenenti ad una cerchia di censiti, di nominati, di contati. Coloro che vivono in queste condizioni di disagio sono ammessi in quanto ancora cittadini italiani, non sono gli ultimi. Li potremmo semmai chiamare "penultimi", ovvero "esclusi a metà", mezzi "inclusi" e mezzi "esclusi".

STUDENTE: L’esclusione, secondo Lei, é propria solo dell’età moderna? Intendo dire che con le Proclamazioni dei diritti dell’uomo "esclusi" possono essere considerati solo coloro che non godono di tali diritti, mentre un tempo la completa assenza di Dichiarazioni e Convenzioni sui diritti umani non faceva di queste persone ancora degli "esclusi"?
DE LUCA: La differenza rispetto al passato é che oggi queste Dichiarazioni esistono, sono state scritte, ma non vengono applicate. Un tempo, per esempio, la schiavitù era "legale". Ogni generazione ha avuto i suoi "esclusi". Quando ero giovane io, gli "esclusi" di cui si occupava la gioventù "ribelle" di allora erano i "senza casa". E’ indubbio che gli "esclusi" delle epoche che precedevano o immediatamente precedenti la Rivoluzione Francese fossero ancora maggiormente "esclusi" dato che, non godendo di alcun diritto, non potevano neanche denunciare la propria disparità. Tuttavia io dico che gli "esclusi" di oggi, che sbarcano sul nostro suolo sprovvisti di una origine e di una identità, sono addirittura gli "ultimi degli ultimi". Sono rifiutati o accolti in posti in cui si cerca di riconoscere la loro identità prima di rispedirli indietro, sempre che non ci sia qualche ragione politica particolare che li accompagni, come é nel caso dei Curdi. Secondo me pertanto oggi ci sono di quelli che non hanno nemmeno lo statuto di "ultimi".

STUDENTESSA: A mio modesto parere, i più grandi "esclusi" nella società di oggi sono i detenuti, i quali spesso non possono godere dei più elementari diritti dell’uomo e sono costretti a vivere in condizioni disagiate e dolorose. Volevo un Suo parere.
DE LUCA: Io ho molti amici in carcere, e pertanto sono al corrente di quelle condizioni. In Italia abbiamo più detenuti che "posti letto". Mi riferisco a quella moltitudine di gente che non sta scontando pene definitive, ma che é in attesa di giudizio. Ecco perché le carceri sono sovraffollate e si vive uno addosso all’altro. I detenuti devono dare prova di una grande pazienza fisica, che non ha nulla a che vedere con la pena della detenzione. La strettezza degli ambienti "carcerari", dei gabinetti, delle celle, dei "loculi" - mi si passi il termine! - non è che un supplemento di pena, a mio avviso "insopportabile". C’è anche da dire che i detenuti appartengono alla massa socialmente più debole, quella più facilmente acciuffabile.
STUDENTESSA: Sempre per quanto riguarda i detenuti, quali possono essere le condizioni per una loro eventuale risocializzazione? E’ forse importante la loro presa di coscienza? Ma come avviarla? Attraverso lo studio e la lettura? E, soprattutto, in che modo si può renderla fruttuosa?
DE LUCA: Si tenga presente che per taluni reati, cosiddetti di "minore gravità", che non comportano lunghe detenzioni, si prevedono anche "pene alternative". Il detenuto che ha un curriculum di modello può essere ammesso ad altri benefici, come il "lavoro esterno", la "semilibertà", o addirittura l’"affido". Insomma, occorre sempre riconoscere delle gradazioni. Io prima mi riferivo ai reati più grossi, ad individui che sono responsabili di reati di sangue. Io ritengo che queste persone con il tempo possano cambiare e cambiano. Diventano altre persone, riescono a trasformarsi dentro le realtà del "carcere". Persone che si scoprono improvvisamente poeti e scrittori, o che si avviano ad attività istruttive. A queste persone va offerta una possibilità, e non soltanto a quelli ammucchiati dentro spazi angusti e che scontano pene detentive molto ridotte. Ogni essere umano, alla lunga, ha diritto ad essere riabbracciato. Persino condanne definitive come l’ergastolo non devono essere un modo di disperare della persona umana.
STUDENTESSA: Lei non pensa che i detenuti abbiano determinato la loro esclusione, si siano un po’ autoesclusi da una società che li avrebbe accettati in un certo modo?
DE LUCA: Vorrei ricordare che esiste tutta un’ampia casistica di soggetti che devono subire tre gradi di giudizio per essere considerati innocenti . Direi anzi che questa rappresenta una percentuale consistente dell’intera casistica. Con questo non nego che ogni individuo debba affrontare le proprie responsabilità e, quando sussistano, pagarle. Questi individui devono risarcire la società. E’ vero anche che dentro le carceri le possibilità di un lavoro sono ridotte al minimo. Si verifica dunque una sorta di "ozio penale", che non rende affatto produttivo il percorso del detenuto nel carcere, anzi, determinando solo indolenza, quando non é sofferenza, non fa scattare quella "risocializzazione" di cui prima si parlava.
STUDENTESSA: E’ giusto quindi, secondo Lei, che i detenuti che siano riconosciuti colpevoli dei reati siano "esclusi", tenuti ai margini?
DE LUCA: Occorre ad un tempo che il soggetto colpevole rimborsi il danno inferto alla società con la detenzione e che la società si faccia carico di non perdere le proprie risorse, rappresentate anche dai detenuti, recuperando e riqualificando questi soggetti. In Italia succede invece un fatto curioso: una volta scontata la pena, il soggetto ex detenuto mantiene il timbro di fabbrica della maledizione, non venendo mai riammesso nella società.
STUDENTE: Al di là delle risoluzioni dei singoli problemi, secondo Lei, si può totalmente eliminare il fenomeno dell’emarginazione sociale?
DE LUCA: C’è e ci sarà sempre in ogni società una quota di inadeguati, di spaesati, di scontrosi e ribelli sociali, o di renitenti alla società. Non si danno società senza suicidi. Ognuno di noi é costretto ad ammettere che, nell’essere società, forza la natura e i limiti di molti altri individui.
STUDENTE: Quindi, secondo Lei, é quasi necessaria una "forma" di marginalità impressa dalla società?
DE LUCA: Fa parte della fisiologia stessa di una società. Persino la quota dei "sabotatori" sociali viene comunque messa in condizione di dare un suo minimo contributo, grazie alle libere e solerti iniziative dei tanti organismi preposti al recupero e all’assistenza di questi giovani e meno giovani "disadattati".
STUDENTESSA: Primo Levi, in un contesto sicuramente diverso, chiedeva se era giusto rispondere ad una offesa o ad un dolore ricevuti con una offesa ed un dolore ulteriori. Secondo Lei, é possibile applicare questo tipo di discorso alla detenzione?
DE LUCA: La detenzione é "penale", costituisce una "pena". La detenzione é pertanto la risposta del male al male. In più la detenzione dovrebbe e deve, per costituzione civile del nostro Paese, essere atta al recupero del soggetto. In realtà in Italia si affida questo recupero alla buona ed esclusiva volontà del singolo, che decide, quando ci riesce, e nella mancanza di mezzi, di recuperarsi lo stesso.
STUDENTESSA: Lei ritiene che anche il soggetto che si sia macchiato di un reato come l’omicidio, che ha privato un altro essere del dono più grande che é la vita, abbia diritto ad essere recuperato?
DE LUCA: Lo penso. Il mondo é pieno di gente che ammazza e che viene ammazzata. Li vogliamo buttare? Li vogliamo escludere una volta per tutte? Molti di loro sono cambiati profondamente dentro il carcere; sono altre persone e, proprio perché cambiate in seguito all’esperienza del carcere, rappresentano risorse umane insostituibili.
STUDENTE: Sono state lette da alcuni di noi parti di un libro che raccontava di un soggetto, che, entrato nelle carceri da semplice rapinatore, ha iniziato a fare il killer dei detenuti. Questa stessa persona oggi gode di un programma di "risocializzazione". Mi ha colpito in particolar modo la frase del libro che dice: "Il carcere toglie qualsiasi tipo di fantasia". Io non dico che questo individuo fosse una "bestia", perché le bestie, quelle vere, se non altro uccidono o per difendersi o per mangiare, e non per sentirsi più grandi o più forti, ma doveva proprio fare quello che ha fatto perché il carcere priva di ogni fantasia?
DE LUCA: Concordo appieno con Lei. Io aggiungerei che il carcere priva non soltanto della fantasia, ma anche della gioventù, del sangue, della vita. Nelle "carceri speciali" degli anni Ottanta regnavano condizioni di privazione ancora più intense e spinte. Il carcere di quegli anni era un vero e proprio aizzamento alla bestialità. Lui é entrato in carcere non da omicida, ma da rapinatore. E’ diventato omicida in carcere. Tuttavia oggi quell’individuo, che viene da così lontano, che viene da quel confine, é qualcuno che ha fatto molta più strada di me, perciò é migliore di me, per tanto. E’ indubbiamente una questione di interpretazioni. Sta di fatto che bisognerebbe anche vedere da vicino le persone, incontrarle. Se le mura delle carceri fossero un po’ più porose, si potrebbe anche conoscere questi soggetti e rendersi conto di tante altre cose.
STUDENTESSA: Noi, come oggetto, abbiamo scelto per questa puntata la "gabbia" con dentro dei "soldatini". La "gabbia" "simboleggia" le chiusure e le convenzioni della massa sociale. Inoltre funge da limite tra coloro che si trovano all’interno, gli "integrati", e quelli che sono all’esterno, gli "esclusi" dalla società. Lei cosa pensa di questa scelta?
DE LUCA: E’ indubbiamente molto precisa. Oltre che i "soldatini" avrebbero ben figurato persone in abiti borghesi, i "civili" insomma, quelli ammessi ai diritti che offre una società, alla Scuola, alla Sanità. In realtà coloro che sono dentro questa nicchia di diritti sono sempre intenti a proteggere la "gabbia" in cui stanno cercando di non farci entrare gli altri. E’ proprio quella "gabbia" a stabilire il confine del "privilegio". La "gabbia" potrebbe rappresentare un supplemento di "consistenza". I cosiddetti "integrati" si sentono più forti dentro la "gabbia". Noi siamo dentro una "gabbia". L’Europa é dentro una "gabbia-mondo", che preme per l’affermazione di razze e specie diverse.
STUDENTE: E’ facile individuare il limite fra "inclusi" ed "esclusi"? E’ sempre così netto? Chi sono, secondo Lei, i veri "inclusi"?
DE LUCA: I cittadini italiani sono garantiti da una residenza e dunque da un passaporto. Per il fatto che i cittadini stanno dentro una "comunità" come l’Unione europea é come se fossero rinchiusi in una di quelle "gabbie" porose a cui prima accennavamo. Gli altri, gli "esclusi", tentano di entrarci. Il mondo oggi é in continuo movimento. E’ una immensa macchina mobile. Si assiste continuamente a un considerevole fluire di masse da una parte all’altra del mondo, e non solo per il Giubileo. Le "gabbie", o "nicchie", non potranno più funzionare né avere una ragion d’essere. Io mi sono portato un "binocolo", questo straordinario strumento ottico, costituito da due cannocchiali accoppiati, che non serve soltanto all’ingrandimento degli oggetti lontani ma, se rovesciato, anche ad aumentare la distanza focale dell’oggetto guardato e, di conseguenza, la sua lontananza. Noi "privilegiati" siamo dunque persone che usano il "binocolo" alla rovescia nei confronti dei nuovi "esclusi". Ci sembrano così lontani, remoti. Attualmente li vediamo lontani, ma tra poco dovremo levare il "binocolo" dagli occhi per guardarli in faccia.
STUDENTE: Assodato che é giusto e doveroso dare una seconda possibilità a chi ha sbagliato, devo però considerare che il carcere nasce sostanzialmente come luogo di allontanamento ed isolamento degli elementi "pericolosi" della società. Questa é la principale funzione del carcere, non certo quella della rieducazione del detenuto. Deve essere non solo attivato ma anche, secondo me, "attualizzato" un progetto di riforma dell’istituto carcerario che muova alla "risocializzazione" di questi soggetti. Lei cosa propone?
DE LUCA: Io ho poco da proporre. Le possibilità, le leggi delle opportunità cui Lei si riferisce già esistono. Già, per esempio, sono in vigore le leggi per il lavoro in carcere. Non sono purtroppo applicate a dovere.
STUDENTE: Fuori del ristretto ambito carcerario, Lei come crede che possano essere rieducati al sociale questi soggetti?
DE LUCA: Lavorando, suppongo, avendo la possibilità di imparare un mestiere o di approfondirlo. Ritengo importante che i detenuti impegnino il loro tempo in maniera utile, operosa, a leggere e a studiare per esempio.
STUDENTE: Ma allora quale "pena" subirebbero i detenuti che lavorano, studiano, leggono, e si prendono la laurea?
DE LUCA: Quella di essere internati in un carcere.
STUDENTE: C’è poca differenza a questo punto?
DE LUCA: Non basta, secondo Lei, stare in un carcere da "reclusi"? Senza alcuna possibilità di vedere e incontrare persone o di avere contatti con l’esterno?
STUDENTE: E se queste possibilità vengono offerte, la "pena" viene meno?
DE LUCA: La "pena" viene meno, certamente. Una minore "pena" in questo caso si accompagna a una maggiore possibilità di rendersi utili socialmente. Noi non possiamo essere dei fustigatori, dei castigatori. Non ne abbiamo il diritto, e sarebbe anche inopportuno "socialmente parlando". Ricordiamoci che, secondo il dettame costituzionale, le "pene" devono tendere "alla rieducazione del condannato". Si tratta unicamente di riportare le risorse perdute ad un loro "riutilizzo" sociale.
STUDENTE: Nel secolo scorso gli Italiani sono stati considerati "esclusi" perché emigravano all’estero in cerca di nuove ricchezze. Come si spiega allora l’attuale operato di così scarsa sensibilità dello Stato italiano nei riguardi di questi nuovi "esclusi" che arrivano nel nostro territorio?
DE LUCA: Vorrei precisare che il nostro Stato considerava "perduti" quei milioni di italiani che emigrarono all’estero. Di conseguenza i figli dei figli dei figli di quelle generazioni parlano oggi altre lingue. In Italia non si é pensato di dare il voto ai nostri emigranti proprio e soltanto perché il nostro Stato li ha dati per "persi". Da parte nostra attualmente c’è un orgoglio di essere proprietari di una lingua e di un posto che ospita. Gli Italiani "ospitanti" dunque mostrano oggi un atteggiamento di esclusione, pur essendo stati per secoli un popolo "fecondato" dalla pluralità delle genti che lo hanno attraversato. Il nostro sangue é un incrocio di "innesti". Noi siamo un meraviglioso giardino della genetica. Rappresentiamo attualmente una grandissima "varietà tropicale", dal punto di vista genetico, giacché per l’Italia sono passati i popoli più remoti e lontani. Questo "corredo" genetico dovrebbe maggiormente approntarci all’accoglienza - parlo specialmente per noi del Sud d’Italia. Ricordo soltanto che per i popoli antichi era un onore "ospitare il viandante".
STUDENTESSA: Concordo con Lei quando sostiene che non bisogna "escludere" le popolazioni di immigrati nel nostro territorio. Tuttavia il nostro Stato ha ancora da risolvere numerosi problemi legati ai posti di lavoro che mancano. Come si concilia la "non esclusione" di questi immigrati con il "non lavoro" degli Italiani?
DE LUCA: Io ho lavorato per lungo tempo nei cantieri. A lavorare con me c’erano molti operai e figli di operai italiani. Oggi prevale una latitanza di mano d’opera italiana nei cosiddetti "lavori pesanti". Il lavoro ci sarebbe, in campagna, in fabbrica, nei cantieri. Oggi l’Italiano che si accosta al "mondo del lavoro" pretende un rango superiore. Gli immigrati dall’estero, gli extracomunitari, costituiscono una importante "risorsa di lavoro", specialmente al Nord, perché altrimenti nel nostro Paese non si riuscirebbe a soddisfare il bisogno continuo di mano d’opera.
STUDENTESSA: Io non penso che l’Italiano che abbia una famiglia e carico, e sia senza lavoro, si preoccupi se fare l’avvocato o fare l’operaio. Se c’è il lavoro di operaio, se lo prende. Perché allora si registra tanta disoccupazione?
DE LUCA: E’ strano - lo so - ma é così. L’Italiano non ama cambiare la propria sede per andare a lavorare al Nord, ed occupare posti di lavoro da operaio che intanto si son resi disponibili. L’immigrato che si butta a dormire in qualunque stamberga, che é pronto a qualunque sacrificio, perché considera quello soltanto un periodo della sua vita, ammucchierà un po' di soldi e poi tornerà a casa con qualcosa e lì potrà star meglio. Il lavoro dunque non mancherebbe, ma sarebbe un lavoro che comporta dei sacrifici, degli spostamenti, la lontananza, problemi legati all’ambientazione e alla sede. Questo a me non succedeva. Mi fiondavo dovunque mi si offrisse un lavoro. Attualmente prevalgono esigenze diverse, peraltro comprensibilissime. E’ chiaro che così si formano "nicchie di lavoro", "offerte di lavoro" riservate esclusivamente alle centinaia di migliaia di immigrati. Penso soprattutto alle necessità di coprire il fabbisogno italiano della mano d’opera, alle previsioni in tal senso del ministero dell’Industria, al lavoro nei campi. Per questo sarei portato a non dire che nel nostro Paese ci sia una "disoccupazione integrale". C’è piuttosto una disoccupazione di altro tipo.
STUDENTESSA: In base a una ricerca che abbiamo condotto su Internet, abbiamo soffermato la nostra attenzione su un sito che tratta del debito economico dei Paesi più poveri nei confronti dei Paesi più ricchi. Dalla lettura di questo sito emerge che, man mano che la società "progredita" avanza, aumenta anche il divario economico che la separa da quella povera. Che rapporti dovrebbero esistere e che invece non esistono tra queste due realtà?
DE LUCA: Gran parte del "debito" che questi popoli detengono nei nostri confronti é purtroppo il frutto della penetrazione delle nostre industrie nei loro territori. I "prestiti" degli Occidentali sono stati volti a favorire delle "preferenze", per così dire, industriali, a stabilire delle connessioni di vantaggio reciproco. Il fatto che oggi si chieda che quei "debiti" vengano azzerati apparterrebbe a un minimo senso di decenza. Gli Occidentali sanno benissimo che quei "debiti" non potrebbero mai essere "onorati". Ritengo allora l’eliminazione del "debito" dei Paesi più poveri una misura di minima decenza economica, oltre che morale. Non risolverebbe certo i tanti problemi legati al divario economico e politico tra i due poli, ma almeno consentirebbe a quei Paesi di stringere nuove alleanze, di maturare una maggiore forza di volontà per ripartire e ricominciare da zero, o di accendere nuovi "debiti" con i Paesi che più prediligono.