Curare le persone,
non le malattie
Maura Bianchi *
È il mio terzo anno di medicina, ma il primo giorno di tirocinio in un reparto di geriatria; i posti letto sono interamente occupati e il personale sanitario è coinvolto nel difficile lavoro di curare e salvare vite.
Io, giovane studentessa alle prime armi, assisto al briefing dei medici e mi concentro su quello che viene detto in quella sala illuminata dal neon: patologie, esami strumentali, diagnosi, terapie e complicanze.
“Sì, me la ricordo questa patologia, l’ho già studiata. Ah, questo esame per indagare quel sintomo, non lo avevo considerato”.
Totalmente concentrata a ricordare le pagine studiate, attenta ad imparare quante più cose nuove posso.
Assorta in queste riflessioni, mi trovo inaspettatamente in mano due cartelle cliniche; la voce della mia tutor mi manda ai letti 114 e 115 per rilevare i parametri dei pazienti. La mia testa ripete con lei: temperatura, pressione, frequenza, saturazione e stato generale dei degenti.
Percorro il corridoio sfogliando le cartelle, mi preparo al compito che avrei dovuto svolgere da lì a poco. Arrivo ai letti e finalmente i miei occhi assegnano delle facce a quei numeri.Temperatura e saturazione nei limiti, un po’ di tachicardia e pressione alta; mentre svolgo queste mansioni gli sorrido. Per mettere a proprio agio loro, e me stessa.
Aggiorno il foglio parametri, tornando allo studio dei medici la mia attenzione non è più focalizzata soltanto sui dati ma sul valore dell’incontro con Vittorio e Giuseppe.Il primo è un nonno di tre nipotini appassionati di calcio e l’altro, quello che era il 115, un ex cuoco originario della Puglia.
Nelle settimane successive ho svolto diligentemente tutti i piccoli compiti che mi venivano assegnati.Ho osservato il meticoloso lavoro dei medici e conosciuto sempre meglio tutti i pazienti del reparto, imparando tutto degli hobby e dei ricordi più cari di ciascuno di loro. Ho compreso che la guarigione passa anche attraverso la cura e l’attenzione che noi, medici e operatori sanitari, rivolgiamo al paziente. Piccoli gesti, atteggiamenti, parole di conforto, sorrisi, sguardi, ascolto e dialogo possono davvero fare la differenza.
Sono trascorsi altri due anni tra lezioni, ore di studio, esami e tirocini.È proprio in questi momenti che ripenso alla me adolescente; che tra scuola e pomeriggi in oratorio pensava al proprio futuro e al lavoro che le sarebbe piaciuto svolgere.
Forse non siamo così lontane io e lei. Mentre cammino nei lunghi corridoi cosparsi di porte vedo la ragazzina di un tempo; con il desiderio di fare del bene, ma senza la consapevolezza di come farlo. Ora lo so, e so che grazie a questa, e tante altre prime volte, potrò mettermi al servizio del prossimo. Non come un automa o perché sia semplicemente il mio lavoro, ma è guardando negli occhi di chi mi viene affidato che ritrovo la mia vocazione, e so di non essere sola nell’inseguirla.
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