L’urgenza dell'evangelizzazione

nella cultura, nella società,

nel mondo giovanile,

oggi e domani

Gianfranco Ravasi


 

Vorrei proporre una riflessione – che sia anche una condivisione – molto semplice, nell’auspicio che, al termine di questo percorso paolino, ci sia un dialogo soprattutto attorno ai temi che rientrano nel campo dell’incontro e del confronto con la cultura contemporanea.

Parte prima: caratteristiche dell’annuncio paolino: necessità e grazia

Il mio discorso si muove, naturalmente, nell’orizzonte di Paolo, partendo da un versetto molto suggestivo dalla Prima Lettera ai Corinzi (9,16): «Annunciare il Vangelo per me non è un vanto, perché una necessità mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!». Va sottolineato 1’aspetto intenso e suggestivo presente nella parola necessità. In greco c’è un vocabolo forte, anánke, che per il mondo ellenico era qualcosa di trascendente e misterioso, che incombeva sopra tutto il genere umano. L’anánke era il fato, la necessità che reggeva tutto l’essere. Per Paolo, invece, sopra di noi c’è una grande presenza divina, la quale lo manda, quasi lo obbliga ad evangelizzare.
Desidererei cominciare proprio da questo primo elemento: «…non è un vanto, ma è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!», sottolineando una componente che è capitale nel pensiero di Paolo: il primato divino, ossia il primato della grazia. Paolo lo precisa nel versetto successivo, con un gioco di parole che colgono quelli che conoscono il greco; ma anche chi non lo sa è in grado di accorgersi che Paolo sta usando in modo allusivo questa lingua, dandoci così un esempio dell’adattamento sapiente che egli fa di tale idioma dominante – come più o meno l’inglese oggi – ai suoi tempi. Dice Paolo: «Se lo faccio di mia iniziativa ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato (9, 17)». In greco l’espressione di mia iniziativa suona ekón, mentre non di mia iniziativa si dice ákon. Ne risulta quasi un gioco di parole per illustrare due cose radicalmente diverse. L’Apostolo sembra dire: mi trovo avviato su questa seconda strada, perché è un incarico che mi è stato affidato.
Proviamo, allora, a riflettere su questo elemento sottolineato due volte: prima 1’anánke, una sorta di grande impegno che scende dall’alto; poi la non mia iniziativa, ma 1’incarico affidato. Ebbene, il punto di partenza che evidentemente Paolo ha in mente, sottilmente, è l’esperienza della via di Damasco che ha trasformato radicalmente la sua vita, ma di cui non parla mai nelle sue Lettere se non in maniera allusiva e mediante frasi e richiami brevi e folgoranti.
Sarà san Luca a narrare per tre volte questo episodio, nei capitoli 9, 22 e 26 degli Atti degli Apostoli.
Alla radice c’è il tema della grazia, della gratuità, del primato dell’epifania di Dio, più che dell’opera dell’uomo.
Pensiamo a Filippesi 3,12, nella Lettera ai cristiani della comunità di Filippi in Macedonia, che Paolo amava in particolar modo. A questi cristiani Paolo dice: «Io sono stato afferrato, ghermito da Cristo».
Ma il verbo greco a cui ricorre, katalambáno, suggerisce l’atto di prendere dal basso e tirare su, quindi impugnare «Io sono stato afferrato, impugnato da Cristo».
Tale sottolineatura dev’essere sempre tenuta presente in ogni nostro impegno pastorale, missionario, ma anche personale: in principio c’è Dio, c’è la Parola, come dice Giovanni, in principio c’è la teofania.
Volendo usare il linguaggio di Paolo, si può affermare: in principio c’è la cháris, la grazia. E su questa linea si riesce a capire come il termine cháris abbia dato origine alla parola latina charitas. Quindi, in principio c’è un atto di amore. Sempre la parola cháris ha generato, a sua volta, in italiano due altre parole che vanno in questa stessa linea: caro e carezza.
Pertanto, in principio c’è un atto di amore che va inteso anche in senso profondamente vivo e appassionato.
Nelle lingue europee cháris, infatti, ha portato al termine inglese charm e al francese charme, con un’idea di fascino, di qualcosa di mirabile. Perciò, il vocabolo non indica soltanto una categoria teologica, ma esprime anche il fatto che questo “essere impugnato” è una realtà forte che contiene in sé tutta l’intensità, la bellezza della luce e, quindi, la bellezza dell’amore.
Nella Lettera ai Romani (10,20) si nota una frase veramente suggestiva, alla quale forse non sempre si bada. È curioso osservare che Paolo si stupisce di quello che sta scrivendo.
L’Apostolo, citando un versetto di Isaia, nella traduzione greca lo introduce così: «Isaia arriva a dire: – Paolo stesso si stupisce di questa frase che desume dall’Antico Testamento – Dice il Signore: Io sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano». Dio per Paolo è agli angoli delle strade, balza fuori all’improvviso, la sua epifania può essere anche sulla via del peccato, su un cammino che non reca nessun segno religioso, può essere anche nel cuore di coloro che non hanno nessuna intenzione di invocare Dio.
È, questo, il grande mistero di quel primato della grazia che Paolo sottolinea con insistenza all’interno delle sue Lettere, contro la tentazione di mettere in primo piano l’opera dell’uomo.
Noi diciamo di voler cercare Dio, di voler incontrare Dio. Paolo, invece, ci ricorda che è anzitutto Dio che cerca noi. A noi, invece, spetta rispondere.

Due testimonianze: Jung e Barth

La casa natale di Carl Gustav Jung, uno dei padri – insieme a Freud, prima amico e poi avversario – della cosiddetta psicanalisi o psicologia del profondo, casa situata a Küsnacht, sul lago di Zurigo, possiede una piccola torre con una scritta in latino medievale: «Vocatus atque non vocatus, Deus aderit (cioè: chiamato o non chiamato, Dio comunque sarà sempre presente)». Ecco l’importanza di ritornare, anche all’interno della nostra pastorale, del nostro impegno, ad avere più fiducia nell’opera di Dio, ad affidarci di più a lui, ad invocarlo perché sia lui ad avere sempre il primo posto anche nell’annuncio.
Nel secolo scorso, uno dei più celebri e massimi teologi protestanti, Karl Barth, nel fare una considerazione sul filosofo francese Cartesio il quale, come è noto, occupa un posto assai rilevante nella cultura filosofica dell’Occidente, rimanda a una sua frase che è un po’ la semplificazione del suo pensiero: «Cogito, ergo sum» (penso, quindi esisto).
Cartesio era un grande credente. Diceva di aver avuto la visione globale del progetto del suo pensiero attraverso un’apparizione della Madonna di Loreto nel corso di una campagna militare invernale. E fu così che andò pellegrino al santuario di Loreto.
Ebbene, secondo Barth, Cartesio era convinto di aiutare il cristianesimo col suo pensiero: voleva fare addirittura un catechismo cristiano. In realtà, egli è stato il primo a introdurre in filosofia la modernità, la cultura moderna tutta incentrata sul primato assoluto dell’uomo. E difatti, se si guarda bene e si cerca di ripensare quella frase, «Cogito, ergo sum», si vede che l’autocoscienza, il pensare che costituisce la persona nell’essere, diventa quasi una forma di autocreazione.
E proprio questa era la direzione logica del suo pensiero, anche se la filosofia di Cartesio è straordinariamente complessa e in alcuni punti felice. Barth, perciò, sostiene che se si deve tornare alla concezione biblica, alla concezione paolina, alla famosa frase di Cartesio occorre aggiungere una sola lettera, non già un’intera parola, se si vuole per così dire “battezzarla”, farla diventare cristiana: «Cogitor, ergo sum» (sono pensato, amato, quindi esisto). Ecco la differenza radicale: non sono più io che mi autopongo; io, sì, esisto, ma perché sono stato pensato, sono stato costituito nell’essere.

La Parola come sacramento

Si capisce, così, quanto affermato durante il recente Sinodo dei Vescovi, tenutosi nell’ottobre 2008. Una delle propositiones – ossia quei desideri formulati dai Vescovi, che adesso la Commissione generale sta elaborando per presentarli al Papa affinché diventino un documento, dopo il Messaggio al popolo di Dio a conclusione del Sinodo – invitava ad approfondire il concetto di sacramentalità della Parola di Dio. Tale espressione teologica un po’ sofisticata vuol dire in pratica che, come esiste il sacramento col suo intreccio tra il divino efficace e la risposta umana – ad esempio, l’Eucaristia con la parola che costituisce la presenza divina e poi la comunità –, così c’è una sacramentalità nella Parola di Dio. In parole più semplici, il fatto di annunciare la Parola di Dio non dipende solo da noi, ma in noi opera anche, e fondamentalmente, la presenza di Dio.
Pertanto, non dobbiamo diventare un ostacolo, uno schermo opaco alla grazia, alla Parola che agisce in noi.
Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (2,1) definisce la predicazione apostolica mart?rion toû Theoû, ossia testimonianza di Dio. Gli esegeti dicono che il primo significato attribuito da Paolo a questa espressione è: testimonianza che Dio dà di se stesso (in linguaggio tecnico si tratta di “un genitivo soggettivo”). Ora, se tale è la nostra predicazione, grande è, di conseguenza, la nostra responsabilità.
L’Apostolo, perciò, ci ammonisce a non adulterare la parola di Dio, per non andare contro Dio stesso che in noi vuole annunciare il suo messaggio. E qui concludo questa prima parte, svolta attorno alle due parole anánke (necessità) e ekón/ákon. Si potrebbero, a tal proposito, citare numerosi passi paolini, ma basta riferirsi a Romani (1,1) che è il titolo della Lettera: «Servo di Gesù Cristo, chiamato (kletós) ad essere apostolo, prescelto per annunciare il Vangelo di Dio». Questa è la definizione di Paolo; l’elemento fondamentale è la sua vocazione ed elezione che stanno alla base della sua esistenza e della sua missione.

Parte seconda: i contenuti del messaggio paolino

Il secondo elemento della riflessione che desidero ora sviluppiamo è legato al tema dei contenuti del messaggio.
Siamo chiamati, una voce parla dentro di noi: che cosa dobbiamo annunciare? La terza parte, invece, riguarderà il tema della cultura.

Paolo, il grande sconosciuto

San Paolo va sempre approfondito, dato che rimane ancor oggi nella stessa comunità cristiana come un grande estraneo, un grande sconosciuto.
Con buona pace dell’anno paolino, è ancora difficile trovare un predicatore che la domenica spenda qualche parola sulla seconda lettura (di solito paolina) della liturgia.
Inoltre, nei confronti dell’Apostolo ci sono sempre stati dei preconcetti tuttora diffusi non soltanto tra gli stessi credenti, ma addirittura tra gli atei. Nell’Ottocento, ad esempio, il celebre filosofo Nietzsche, fieramente anticristiano, avversava Paolo in modo particolare perché lo considerava il riorganizzatore del cristianesimo, destinato altrimenti a morire come una delle tante sette giudaiche. Nietzsche definiva san Paolo disangelista, cioè il contrario di evangelista che è colui che “annuncia una buona notizia”, mentre, in greco, il prefisso dys ha valore negativo. Disgrazia, ad esempio, è il contrario di grazia, così disangelista è chi “annuncia una cattiva notizia”.
Diversamente da Cristo, varie persone vedono in Paolo un freddo teorico, privo di compassione, con un sistema di pensiero distaccato, insensibile e volto a dominare gli spiriti.
Tale concezione deve essere schiodata dalle menti, sia pure con un comprensibile sforzo.
Un altro esempio di come sia stato interpretato erroneamente – o comunque in maniera eccessivamente personale – il messaggio di Paolo, ci viene fornito da Antonio Gramsci che ha lasciato una singolare definizione dell’Apostolo, chiamandolo “il Lenin del cristianesimo”. Come Lenin è stato un teorico implacabile, divenendo il vero padre – più dello stesso Marx – dei vari sistemi comunisti, così allo stesso modo viene letta la figura di Paolo, considerato la sorgente della Chiesa come una struttura, visto come un intellettuale astratto, arduo da leggere, le cui opere sono destinate ai soli teologi, non già ai semplici cristiani. Eppure, l’Apostolo, iniziando la Lettera ai Romani, non si rivolge affatto ai teologi di Roma o ai capi di quella Chiesa di Roma, ma «a tutti quelli che sono in Roma, amati da Dio (1,1)», quindi a tutti i cristiani.
Da una parte, perciò, Paolo vorrebbe stimolare il popolo cristiano ad avere una qualità teologica, cioè una comprensione e una conoscenza forte del messaggio cristiano. Dall’altra – come si può notare nella prima Lettera ai Corinzi – è un pastore, e tutte le sue lettere sono anche “pastorali”, perché in esse vengono affrontate tutte le questioni – anche le più marginali – dell’esistenza di una comunità cristiana, complessa e in grave difficoltà, come accade per quella di Corinto.

Elementi principali del messaggio paolino

Ora cerchiamo di cogliere il cuore del messaggio paolino con i suoi elementi principali.
Ne vorrei ricordare due in modo particolare.

1. Il Crocifisso e la risurrezione
Questo primo elemento è espresso molto bene in una celeberrima pagina della prima Lettera ai Corinzi (1, 22 ss.). Si tratta di una frase lapidaria, che ha il pregio di esprimere chiaramente la parte centrale del messaggio cristiano e paolino, escludendo ciò che non è essenziale o antitetico.
Mentre i Giudei cercano segni (seméia, le prove, i SPUNTI E SUGGESTIONI DAL CONVEGNO PAOLINO 6 Dossier n. 3 - Eco dei Barnabiti 4/2009 miracoli), mentre i Greci cercano la sapienza (sophía, cioè un sistema intellettuale), noi invece annunciamo Cristo crocifìsso. Gesù crocifisso, messo in rapporto con i due destinatari (Giudei e Greci/pagani), risulta essere skandalon per i Giudei (“scandalo” in greco è la pietra di inciampo) e moría per i pagani. Di solito moría si traduce con “follia”, come si ha in un famoso testo di spiritualità del passato: La follia della croce. Ma non è del tutto giusto, perché “follia” può indicare anche qualcosa di nobile, mentre moría in greco vuol dire stupidità, stoltezza; per i Greci, cioè, è una cosa stupida mettere al centro Cristo, un crocifisso.
Infatti, la crocifissione era, come dice lo storico romano Tacito, il “servile supplicium”, ossia il supplizio degli schiavi, riservato anche ai rivoluzionari, per così dire, ai terroristi di allora. Quindi, una morte umiliante e un segno vergognoso. Non si tratta certo della croce che portano i vescovi, spesso di metallo prezioso, né della croce con cui si premiano eminenti personalità o di cui vengono insigniti i cavalieri. Se oggi la croce è un segno d’onore, a quei tempi era solo un terribile segno di infamia. Si deve dire, perciò, che l’annuncio cristiano è paradossale, per la sua componente storica estremamente scandalosa e vergognosa da un punto di vista intellettuale. Eppure, tale realtà, per Paolo è «potenza di Dio e sapienza di Dio». È la dynamis, cioè la forza, l’energia di Dio. È la sophía, cioè la sapienza di Dio, ma non la sophía dei greci. Ecco, dunque, la grandezza della croce di Cristo, la grandezza del mistero centrale del cristianesimo che la spiega, vale a dire l’Incarnazione.
Nei Vangeli, la parte più lunga dal punto di vista narrativo è stata riservata ai racconti sulla passione e morte di Gesù, un avvenimento tutto sommato di poche ore che, però, ha meritato uno spazio notevole. Il motivo va ricercato nel fatto che si è voluta sottolineare l’Incarnazione nel suo vero e completo significato, come autentica fraternità con noi. Non si può non notare, ad esempio, che gli evangelisti cercano di presentare nella descrizione della passione di Cristo quasi tutta la gamma delle sofferenze umane, che hanno poi nella croce il loro riassunto. Anzitutto, si vede Gesù che ha paura di morire («Padre, se è possibile, passi da me questo calice»). Il calice, nel linguaggio della Bibbia, è il destino che Dio lascia a ogni uomo; tante volte è addirittura il destino riservato ai peccatori, come si dice nel Salmo 75,9: «Il Signore tiene in mano una coppa colma di vino drogato. Egli ne versa: fino alla feccia lo dovranno sorbire, ne berranno tutti i malvagi della terra». Cristo, in quei tremendi istanti, sembra quasi dire: Padre, ho paura di morire. Ecco, poi, il Cristo abbandonato e tradito dagli amici, ossia la solitudine, per giungere, infine, alla sofferenza e alla morte fisica sulla croce, vertice supremo e il simbolo più eloquente del dolore.
In quegli attimi capitali c’è un altro elemento importante, il silenzio del Padre che porta Gesù a gridare: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Salmo 21). Non si tratta, tuttavia, di una preghiera disperata, perché questo stesso Salmo termina con un inno di lode al Signore, una sorta di Te Deum o Magnificat.
Ma all’inizio c’è pur sempre il silenzio di Dio. Soprattutto Matteo e Marco, dopo aver messo sulla bocca di Gesù quella frase, fanno seguire una descrizione della morte di Cristo affidata soltanto a poche parole, che rendono bene l’idea di una brutta morte: «E lanciato un forte grido, spirò». Luca e Giovanni, invece, introdurranno una prospettiva meno drammatica. In definitiva, nell’Incarnazione è presente la dimensione tutta intera dell’umanità: Cristo è veramente nostro fratello in quel momento; è come noi, non è il Dio-imperatore, impassibile, che stende la mano per sollevare l’uomo. Al contrario, egli cammina spalla a spalla con noi, diventa cadavere. La morte, che è la nostra vera carta di identità, è condivisa pienamente anche dal Figlio di Dio.
In questa luce, risultano veramente suggestive le parole di Dietrich Bonhoeffer, il teologo martire, impiccato nei campi di concentramento nazisti il 9 aprile 1945, quando ormai il mostro hitleriano stava rantolando, eppure ancora in grado di eliminare una voce fastidiosa, testimone del cristianesimo. Bonhoeffer scrisse nel lager di Flossenburg, vicino a Monaco, il suo diario – tradotto poi anche in italiano col titolo Resistenza e Resa – che riporta una frase a prima vista scandalosa, ma che va interpretata all’interno del discorso che stiamo facendo adesso: «Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza.
Dio in Cristo ci salva in virtù della sua impotenza». Il concetto è davvero paradossale: se Dio fosse rimasto onnipotente, sarebbe intervenuto salvandoci con qualche miracolo, ma in tal modo non avrebbe mai sperimentato personalmente il nostro dolore, la nostra morte, la nostra impotenza, come è avvenuto invece in Cristo. Si comprende, allora, perché il Crocifisso costituisce la realtà centrale della nostra fede. E allo stesso tempo si capisce che colui che soffre e muore è pur sempre il Figlio di Dio, un essere che è rimasto eterno e infinito perfino quando è entrato così profondamente nella nostra umanità soffrendo, morendo e sentendo il limite da vivere nello spazio umano.
È per questo che, in intima connessione con l’annuncio del Cristo crocifisso, troviamo la Pasqua di risurrezione, la quale rappresenta l’altro volto della salvezza. Il Cristo, Figlio di Dio, diventa completamente uomo, come noi, passando attraverso le prove della vita con quella carta d’identità propria di ogni uomo, che è la sofferenza e la morte. Dio, per definizione, non soffre e non muore. Il soffrire è un limite, il morire è segno del fatto che l’umanità è legata al tempo, alla contingenza, alla caducità, alla fragilità. Dio, in Cristo, entra in questo orizzonte, ma non cessa di essere Figlio di Dio. Perciò, con la sua morte, egli ha deposto dentro di noi, dentro il nostro soffrire, il nostro morire, una scintilla di infinito, di eterno. Vi ha messo un seme di salvezza radicale, passando in mezzo all’oscuro limite del nostro dolore, del nostro male, del nostro peccato e della nostra morte, per farci giungere infine all’alba della Pasqua.
San Paolo insisterà appunto su questa dimensione della salvezza, legata alla risurrezione di Gesù. Se c’è il Cristo crocifisso, c’è anche il Cristo risorto. Senza la risurrezione, Gesù rimarrebbe uno come noi. Lui è stato, sì, uno come noi, ma non è soltanto come noi: ecco la realtà del Cristo, sia pure di difficile comprensione.
Alla risurrezione, come grande liberazione, l’apostolo Paolo dedica il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi, concludendo con un inno trionfale, teologicamente molto ricco, espresso in una suggestiva sintesi: «Dov’è, o morte, la tua vittoria?».
In breve, questo primo elemento che abbiamo illustrato è un invito per tutti a ritornare sempre al cuore del messaggio cristiano, contro ogni tentazione di forme spicciole di spiritualità, di predicazione o di letture che facilmente si allontanano dalla sostanza del kérygma. Ed è lo stesso Paolo a ricordarlo, quando scrive che noi predichiamo Cristo crocifisso e glorioso. Così dev’essere il nostro messaggio, senza le mille divagazioni spirituali o quelle numerose devozioni – pur necessarie, se si vuole, all’interno di un panorama molto complesso – che, tuttavia, non hanno alcun senso se vengono staccate da questo cuore profondo, da questa radice decisiva e fondamentale.

2. La salvezza
Il secondo elemento o tema della nostra riflessione è la salvezza, argomento che volutamente semplifico, passando in rassegna alcuni termini del greco che Paolo usa. Si tratta di parole abbastanza significative per la comprensione della sua teologia, ma anche della sua operazione culturale.
L’Apostolo, infatti, ricorre alla lingua greca, plasmandola, facendola diventare anche lingua della teologia e del pensiero cristiano, dandole perciò nuovi significati. Servendoci di un’immagine, pensiamo ora a due campi, a due orizzonti nel cielo, nei quali collochiamo alcune stelle. Paolo comincia con tre stelle “nere”, che sono luci paradossalmente oscure, quindi una negazione della luce.
1) C’è prima di tutto sárx, la “carne”, che per Paolo è una sorta di terreno presente in noi, un terreno malsano, inquinato, sassoso, arido, quasi delle sabbie mobili che abbiamo dentro di noi. L’Apostolo, inizialmente, ha dunque una visione molto pessimistica dell’uomo, proprio a motivo della nostra realtà di peccatori.
2) Ecco subito la seconda parola, la seconda stella: hamartía, il “peccato”, ossia su quel terreno cresce in continuazione la zizzania, per usare l’immagine del Vangelo (cfr Matteo 13, 25 ss.). Il nostro tragico bagaglio è questo: carne e peccato. Per Paolo la carne non è intesa nella sua attuale accezione sessuale, né come la intenderà Giovanni («il Verbo si è fatto carne», cioè ha assunto la nostra umanità). Paolo dice che Cristo è venuto en omoiómati sarkós, “in una similitudine della carne”. Sembrava peccatore, ma non lo era. Quindi, in noi convivono carne e peccato, sárx e hamartía, come base della nostra condizione e del suo dinamismo perverso. Allora, che cosa si può fare in tale condizione? 3) Si giunge, così, alla terza parola negativa di Paolo: nómos, la “legge”.
Noi tentiamo di salvarci da soli, con le sole nostre opere, con le opere della legge. Teniamo presente l’immagine proposta sopra, quella delle sabbie mobili. Quando si cade nelle sabbie mobili, il primo gesto spontaneo che si fa è quello di alzare le braccia, illudendosi, quasi sperando, di tirarsi su da soli, mentre si continua a sprofondare. La stessa cosa avviene per l’autosalvezza. Si crede, ci si illude di potersi salvare con le sole proprie forze, con le proprie opere, con le opere della legge, che sono, sì, opere giuste, riconosce Paolo, ma non possono salvare da sole. Riassumendo, abbiamo parlato di tre stelle: sárx, cioè la nostra radicale miseria; hamartía, ossia il peccato che agisce dinamicamente in noi, seminando la sua zizzania e, infine, il tentativo di autosalvezza mediante le opere del nómos, della legge, tentativo destinato al fallimento.
A questo punto ben altre stelle si accendono. Esse sono quattro; perciò, con le tre precedenti, abbiamo sette parole, sette stelle che formano una “costellazione di salvezza”.
1) La prima stella luminosa è cháris, la “grazia”, che potremmo rappresentare come una mano protesa a salvare chi sta sprofondando nelle sabbie mobili. È la mano di Dio, roccia sicura, che afferra e solleva l’uomo, ma non come un oggetto inanimato, come una pietra. E qui Paolo offre la sua visione dell’uomo sempre più positiva.
2) Ora, l’uomo, dal canto suo, deve rispondere con pístis, la “fede”, che vuol dire lasciarsi abbracciare, con la propria libertà, da quel Dio che salva. Si tratta, quindi, della fede salvifica che consente all’uomo di afferrare quella mano che gli viene tesa, senza la quale continuerebbe a sprofondare. Da soli non ci si salva, ma si ha la possibilità di accogliere il dono offerto per mezzo della fede.
3) Ecco, allora, la terza parola positiva, un termine difficile che Paolo accoglie e trasforma nel suo significato; parola diventata famosa per il dialogo con i fratelli protestanti e di facile comprensione anche per coloro che non conoscono la teologia, cioè dikaiosune, la “giustificazione”.
Noi non diventiamo giusti per merito nostro, ma solo per la fede e la grazia. È quella mano protesa che è stata accolta e ha permesso di uscire dal gorgo, dalla melma del nostro male.
4) Infine, ecco la parola che esprime il nostro statuto di creature nuove, come dice Paolo, uomini nuovi divenuti figli adottivi di Dio. Parliamo di pneuma, lo “spirito”: Dio ha posto in noi uno spirito non da schiavi, ma da figli, per questo chiamiamo Dio non re, non sovrano, ma semplicemente abba’ che nella lingua di Gesù, l’aramaico, è l’espressione spontanea del figlio rivolta al padre, ossia babbo. In noi, perciò, c’è un respiro, pneuma, diverso dal comune respiro fisico che esce dalle nostre labbra, quello che abbiamo avuto con la creazione e con la nostra generazione, ed è il respiro donatoci dal battesimo che ci fa, appunto, figli adottivi di Dio.
Concludendo questa seconda parte, vorrei riassumere i contenuti della fede e del suo messaggio: Cristo crocifisso e risorto, da una parte, e la salvezza, dall’altra. Vista nel suo insieme, la salvezza presenta la nostra profonda miseria – carne, peccato, illusione di salvarsi da soli, legge –, ma al tempo stesso essa contiene la grazia, la fede, la giustificazione e quello spirito di figli nei confronti del Padre che è nei cieli.

Parte terza: Come annunciare. Le modalità dell’annuncio

È, questa, la parte più specifica del discorso che intendo sviluppare, dal momento che riguarda soprattutto il rapporto con la cultura, il che porta, inevitabilmente, a porsi alcune domande su come annunciare il messaggio di salvezza del Cristo. Da questo punto di vista, la figura di Paolo è veramente emblematica, in quanto figlio di tre culture: l’ebraica, la romana e la greca.

a) Paolo era, anzitutto e profondamente, ebreo, un’identità che lui stesso dichiara apertamente e ripete con orgoglio. Di se stesso dice (cfr.
Filippesi 3, 4-6) di essere stato circonciso l’ottavo giorno, di appartenere alla tribù di Beniamino, la stessa tribù del primo, sfortunato re di Israele di cui porta il nome. In ebraico, infatti, il nome di Paolo è Saul, come quello del primo re d’Israele.
Apparteneva, inoltre, alla corrente farisaica che si distingueva per la sua grande spiritualità. Dei farisei in genere non si ha una buona opinione, perché il giudaismo è noto ai cristiani attraverso i Vangeli che offrono del mondo ebreo una lettura fondata, purtroppo, su una iniziale separazione o piuttosto su una lacerazione tra cristianesimo e giudaismo. All’inizio, invece, questi due mondi erano profondamente intrecciati e su questa base comune il fariseismo costituiva una corrente di alta spiritualità, anche aperta socialmente, almeno rispetto ad altre correnti molto più conservatrici e chiuse come, ad esempio, quella dei sadducei.
San Paolo, perciò, è intimamente ebreo, e di questo oggi gli studiosi sono fermamente convinti, come dimostrano molti lavori tesi a sottolineare il legame profondo con la matrice giudaica presente nelle argomentazioni di Paolo e nella sua teologia della salvezza. Per l’Apostolo, infatti, le opere sono buone, sono importanti, ma vengono dopo la fede, rappresentano il frutto della fede. Non bastano per la salvezza, ma sono comunque necessarie per vedere se si ha veramente fede. Le opere non sono condannate da Paolo, ma sono il prodotto, non la causa della salvezza, stanno cioè a dimostrare l’autenticità della stessa salvezza. Senza le opere, la fede e la salvezza sarebbero solo dichiarazioni esteriori.
In conclusione, Paolo nasce nel contesto giudaico ove vivrà, parlerà e scriverà.

b) In secondo luogo, Paolo è cittadino romano, essendo nato a Tarso che a quel tempo era una colonia romana. Egli insiste molto sull’importanza e sulla dignità di essere un cittadino e, se si legge il capitolo 13 della Lettera ai Romani, si può vedere in che modo egli si batta per la questione fiscale, per il rispetto della legge, per l’obbligo di pagare le tasse all’Impero, quindi per il compimento di tutti i doveri civili verso una società nella quale si è immersi. Paolo stesso farà appello al tribunale romano – in pratica alla cassazione suprema di Roma – e lì vorrà essere giudicato.
Sebbene, poi, in questo suo ricorso non abbia avuto fortuna, tuttavia l’Apostolo rivela la sua profonda convinzione e il suo sincero orgoglio di essere cittadino romano e, in quanto tale, rivendica il diritto di ricorrere alle strutture proprie della società civile.

c) Paolo, infine, è greco per formazione e lingua, ed è il primo a tentare di costruire e trascrivere in greco il messaggio cristiano. E qui si arriva a un nodo veramente fondamentale, che condurrebbe a un discorso lungo, con riflessioni complesse che potremmo sviluppare parlando dell’inculturazione del messaggio cristiano. Quest’ultimo era prima radicato, abbarbicato alla roccia di Gerusalemme, cioè al mondo ebraico, alla sua lingua, alla sua cultura e alla sua visione del mondo. Cristo parlava secondo quelle caratteristiche. Paolo comincia un’operazione di trascrizione dell’intero messaggio cristiano, con coordinate del tutto nuove, ossia quelle dell’Impero. E non è solo una traduzione ciò che ne risulta. I Vangeli sono stati scritti in greco, sulla base della predicazione orale fatta probabilmente in lingue come l’aramaico e altre contemporanee. Se, quindi, il messaggio evangelico era stato tradotto, in Paolo, invece, si assiste al tentativo di rielaborare e di riorganizzare tutto il messaggio cristiano partendo dal suo stesso cuore: il Crocifisso, la risurrezione e, via via, tutta la salvezza, secondo le nuove linee e le nuove coordinate di quella grande cultura che allora abbracciava tutto il mondo. Paolo, perciò, fa anche un’operazione culturale, cioè un’inculturazione, una trasformazione globale che richiede sempre uno sforzo grande e complesso di duttilità e di rigore.
Ai nostri giorni, in un mondo scandito dalla multiculturalità, l’opera di Paolo acquista un significato notevole, proprio perché l’annuncio del Vangelo avviene con modalità molto delicate e articolate.
Infatti, uno dei grandi problemi della Chiesa odierna è quello del linguaggio: la Chiesa non riesce tante volte a farsi capire, data la rivoluzione avutasi nella comunicazione attuale. Basti pensare soltanto al linguaggio dei giovani o a quello informatico. Di conseguenza, è inevitabile che, passando a un altro linguaggio, occorra cercare di conservare il più possibile la sostanza; e se qualcosa si perde, nello stesso tempo qualcosa di nuovo si acquista. Si tratta di una operazione di confronto non facile che la Chiesa, tuttavia, ha dovuto realizzare nel corso dei secoli, con i grandi Concili come, ad esempio, quello di Calcedonia, importante dal punto di vista cristologico che adottò le grandi categorie della filosofia greca per esprimere la sostanza del messaggio cristiano espresso in forme semitiche. Infatti, il concetto di “natura” e il concetto di “sostanza” non si trovano nella Bibbia che, invece, è ricca di simboli. Pertanto, è stato necessario ricorrere ad un linguaggio più teorico e preciso.
Un’operazione del genere va fatta tutte le volte che bisogna annunciare il Vangelo in una società multiculturale, ossia in un mondo che nel suo seno contiene numerose e diverse culture.
Oggi si parla tanto di globalizzazione, che però sta già cedendo il posto al termine glocalizzazione, nella convinzione che, se esiste un filo comune, c’è anche nell’attuale società una realtà di colori e sfumature continuamente mutevoli. Di qui la difficoltà a coniare un linguaggio, cioè uno strumento di comunicazione che sia rigoroso, ma anche estremamente mobile, che si collochi nel punto di partenza e che riesca, però, a raggiungere orizzonti tanto diversi.
Ma san Paolo va addirittura oltre, dichiarando che un simile modo di annunciare, cioè l’inculturazione, l’adattamento dell’annuncio ad ambiti ben differenti, compreso quello della cultura, deve implicare un’operazione che parta dal basso e dev’essere basato sulla con-vivenza e sull’ascolto attento.
Per questo, nella Prima Lettera ai Corinzi (9, 19.22) dice: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno». E ancora (9, 20): «Mi sono fatto giudeo con i giudei», e così via. L’Apostolo è fermamente persuaso della necessità di entrare pienamente nel mondo, come aveva fatto Cristo, ossia all’interno della società, non restandone fuori, rimanendo chiusi entro la propria identità solitaria per lanciare messaggi in un linguaggio circonfuso di luce. Alla stessa maniera di Cristo, bisogna andare a sporcarsi i piedi e impolverarseli sulle strade del mondo.
La presentazione dell’annuncio è indubbiamente una modalità intellettuale, una elaborazione culturale modulata tra l’altro sulla complessità della situazione in cui ci si trova, ovvero la multiculturalità segnata dalla continua diversità e dalla mutevolezza dei linguaggi. Non si tratta, però, di un’operazione compiuta all’interno di una sorta di laboratorio teologico. È qualcosa che deve essere ininterrottamente sperimentato sul campo, come faceva Paolo che prendeva la nave – come oggi si prende l’aereo – e si metteva su tutte le strade del vasto impero romano, tentando di arrivare persino nelle regioni più remote.
Il suo progetto comprendeva, infatti, anche la Spagna, considerata allora quasi l’estremo confine del mondo, in armonia con quanto egli diceva, cioè di essersi fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo anche soltanto qualcuno. Il risultato, forse, potrà essere scarso, in ogni caso è necessario che la Chiesa continui a conservare, col suo annuncio, la presenza nel terreno della storia.

Conclusione

Concludiamo questa riflessione, ricordando che il percorso fatto è stato dopo tutto molto semplice: siamo partiti da Dio per giungere alla terra, al territorio concreto, nella nostra società, nel mondo in cui siamo. Abbiamo suggerito alcune vie adatte per poter annunciare il messaggio del Vangelo, che ha al centro il Cristo crocifisso, risorto e glorioso, fonte di salvezza sull’orizzonte della nostra vita.
San Paolo ci ha proposto il cuore del cristianesimo, che egli ha cercato in tutti i modi di elaborare. Per questo, è indubbiamente un pensatore che costringe tutti i cristiani a divenire consapevoli della propria fede. E ciò costituisce per ognuno un invito a studiare, ad entrare nel vivo dei problemi e ad approfondirli.
Termino con le parole di uno studioso – medico, teologo e musicista – che ha avuto una vicenda religiosa un po’ particolare e in seguito a una crisi profonda si è fatto testimone della carità, abbandonando la strada della conoscenza e degli studi. Si tratta del famoso “Dottor” Albert Schweitzer, autore tra l’altro di un libro interessante sulla mistica di Paolo, dal quale attingo le seguenti parole che mi sembrano assai pertinenti.
«Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare (diritto e dovere di pensare). Egli non è un rivoluzionario; parte dalla fede della comunità; ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce, custodendola come se fosse un tesoro freddo (come se dovessi avere una eredità, una pietra preziosa che metti in uno scrigno, e tutto finisce lì)». «Egli fonda per sempre la fiducia che la fede» – notate bene questa frase, perché a volte per un discorso sulla cultura è importante – «non ha nulla da temere dal pensiero.
Paolo è il santo protettore del pensiero».
Naturalmente, ribadiamo che Paolo è stato anche un pastore, anzi, è stato soprattutto un pastore e allo stesso tempo un apostolo, ma egli ci invita a pensare e a ripensare sempre il cristianesimo. In questa nostra epoca nella quale è forte la tentazione di lasciarsi intimorire dalla scienza e dalla filosofia, per adagiarsi sulla devozione, sul sentimento, nella continua paura di un confronto, Paolo ci ricorda, come protettore del pensiero, quello che sant’Agostino, più tardi, in maniera forse paradossale, dirà nel De praedestinatione sanctorum: «La fede se non è pensata, è nulla». Proprio Agostino, che pure celebrava la forza dell’adesione totale dell’uomo a Dio, affermava, dunque, che la fede, se non entra nell’elaborazione compiuta dalla razionalità umana – che poi è molto più della semplice ragione, perché noi non conosciamo solo con la ragione, ma anche per altre strade: la strada dell’amore, della poesia, dell’intuizione, tutte vie di conoscenza – se non è, quindi, frutto del pensare, è vuota. Allo stesso modo san Paolo ci rammenta la necessità della cultura, della conoscenza, dell’approfondimento, per saper essere consapevoli della propria fede così da renderne ragione anche a chi incontriamo.

Conferenza del 18 febbraio 2009
Dossier n. 3 - Eco dei Barnabiti 4/2009