Il libro: un pericolo
o una grazia?
Gianfranco Ravasi
Credo che molti abbiano seguito la trama, a prima vista sconcertante, dell’ultimo fi lm di Ermanno Olmi, Centochiodi. La scena iniziale è quasi da mozzafiato e certamente indimenticabile: quella distesa di codici miniati e di incunaboli “crocifissi” negli spazi solenni di una biblioteca non può non far sobbalzare e rimandare a un intento dissacrante e provocatorio. Eppure, con buona pace di qualche interprete sbrigativo e superficiale, il regista non voleva creare un’apologia del disprezzo della lettura, purtroppo tipico nell’attuale orizzonte “televisivo”. Olmi, infatti, evocando nella trama del suo film la vicenda di quel Libro per eccellenza che è il Vangelo, in realtà voleva piuttosto mostrare l’ambiguità insita all’idolatria di un sapere estraneo alla vita, alle persone, all’esistenza.
Il libro, strumento “pericoloso”
Il libro effettivamente può essere uno strumento ambiguo non in sé quanto piuttosto per l’uso che l’uomo ne può fare. Dopo tutto, il famoso pensatore inglese del ’500 Francesco Bacone nei suoi Saggi ci ammoniva che «alcuni libri vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e digeriti».
Sta di fatto, però, che la lettura è sempre più marginalizzata e questo fenomeno, a quanto pare, era iniziato ben prima dell’era televisiva se già il 5 febbraio 1828 Leopardi nel suo Zibaldone annotava: «Ormai si può dire in verità, massime in Italia, che son più di numero gli scrittori che i lettori giacché gran parte degli scrittori non legge e legge men che non iscrive». Questa bulimia di autori (meglio sarebbe dire di “produttori” di testi) si scontra ancor oggi con un’anoressia di lettori (o “consumatori”).
Eppure continuiamo ad assistere sui giornali o nei dibattiti alla solita querimonia fatta di domande di questo genere: il libro è ancor oggi rilevante? La tanto osannata o deprecata civiltà dell’immagine l’ha reso del tutto inoffensivo e marginale? Molti, nonostante le geremiadi sulla fine del libro e del lettore, rimangono convinti che la pagina scritta sopravviverà anche ai vari tentativi di eutanasia passiva e attiva nei suoi confronti e questo accadrà senza nessun accanimento terapeutico perché è nella sua stessa natura una sorta di “immortalità”. Noi ora vorremmo solo – in modo emblematico e quasi “testimoniale” – documentare storicamente l’energia distruttiva e costruttiva del libro, nella certezza che essa perduri anche nel nostro presente e nel futuro informatico.
C’è un verso indimenticabile che Dante mette in bocca a Francesca da Rimini: «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» (Inferno V, 137). Forte è la consapevolezza della capacità tentatrice insita nelle pagine, una consapevolezza che ha fatto sì che le opere scritte costituissero talora un oggetto oscuro e pericoloso da maneggiare con cautela, quasi fosse materiale esplosivo. Naturalmente questo aspetto reale ha generato prevaricazione e abusi; il libro “pericoloso” per il potere politico, economico, intellettuale, religioso è stato ostracizzato, ferito, annientato.
Pensiamo alla storia dei roghi e delle censure che corre praticamente parallela a quella della pubblicazione dei testi. Ne evochiamo solo qualche esempio significativo. Il generale arabo ’Amr (VII sec.) – stando, in questo caso, alla leggenda – rappresentato con la torcia in mano, pronto a incenerire la biblioteca di Alessandria d’Egitto sulla base dell’asserto dogmatico: «Se questi libri contengono le stesse verità del Corano, sono inutili e quindi da bruciare; se contengono asserti diversi sono nocivi e quindi da bruciare», è, pur nella astoricità dell’evento, una figura simbolica.
Figura che ha una genealogia di discendenti, anche in buona fede, come Girolamo Savonarola e i libri “futili” arsi a Firenze, come l’Inquisizione che, ad esempio, imponeva la distruzione degli scritti giudaici, escluse le Scritture, giù, giù fi no a Hitler e ai lugubri roghi nazisti.
Illuminante, al riguardo, è il famoso romanzo Fahrenheit 451 (1953) dello scrittore statunitense Ray Bradbury, trasformato in un intenso film da François Truffaut (1966), ove al potere che impone le pire per i libri si oppone una sorta di “monaci” della parola che imparano ciascuno a memoria un’opera così da trasformarsi in libri viventi o, per usare l’espressione greca che il cardinal Federico Borromeo aveva riservato ai Dottori della sua Biblioteca Ambrosiana, empsychoi bibliothecai, “biblioteche animate, viventi”. Accanto al rogo, sono naturalmente da collocare – sia pure con tutte le necessarie contestualizzazioni storico-culturali – i divieti e le proscrizioni, come il celeberrimo Index librorum prohibitorum, voluto da Paolo IV nel 1559 e che spesso ebbe però paradossalmente la funzione di trasformarsi in un “indice” di molte opere “significative” non solo negativamente ma anche per la loro originalità (l’ultima edizione ufficiale del 1948 comprendeva più di 4.000 titoli, tra i quali scritti di Sartre e Gide, ad esempio, ma anche alcuni di san Roberto Bellarmino, dei vescovi Fénelon e Bonomelli, e persino del cardinal G. Pecci, futuro Leone XIII).
La stessa vicenda fu ricalcata anche dal mondo protestante che impose il controllo su opere ritenute discutibili o devianti.
Espressione di questo atteggiamento di censura o di prevenzione è la nota Bibliotheca universalis di Konrad von Gesner che esce a Zurigo nel 1545 con ben 12.000 titoli, ai quali se ne aggregano altri 15.000 nell’“appendix” e nella successiva edizione del 1555: un oceano librario suddiviso in 21 mari, cioè, fuor di metafora, in 21 classi di generi e temi ma con questa stella polare ben fissa: «ut lectores moneantur de abstinendo ab eis», ossia con la funzione di monito ai lettori perché se ne astengano! Nella biografia di Goebbels, il losco protagonista della propaganda nazista, elaborata da R. Manvell e H. Fraenkel (Doctor Goebbels. His Life and Death), si cita una frase dello scrittore tedesco ottocentesco Heinrich Heine: «Chi brucia i libri, presto o tardi, arriverà a bruciare esseri umani».
Pur comprendendo che i giudizi devono essere calibrati sui contesti storici e non generalizzati categorialmente, è indubbio che il libro spesso è stato visto come una realtà pericolosa proprio per la potenza delle idee, per l’efficacia del suo influsso, per l’incidenza della parola.
È per questa via che dobbiamo riconoscere – procedendo sempre lungo la traiettoria “negativa” del nostro discorso – che le opere scritte possono avere una loro forza distruttiva, di taglio “bellico”, sia a livello teorico sia a livello pratico. Giustamente Paolo Sarpi in un “Consulto” del 18 novembre 1613, che ha poi trovato una sua autonoma edizione sotto il titolo Sopra l’ufficio dell’Inquisizione, affermava: «La materia de’ libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni nel mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati» (Scritti giurisdizionalistici, a cura di Giovanni Gambarin, Laterza, Bari 1958, p. 190).
L’esemplificazione è fin troppo facile e non ha bisogno di vasta documentazione. Basti solo citare il dualismo nella recezione di Platone e di Aristotele da parte della teologia cristiana, con le due figure emblematiche di Agostino e Tommaso, radice della sequenza dei veementi contrasti tra le due scuole, francescana e domenicana. Si pensi all’effetto dirompente dell’Encyclopédie non solo per l’Illuminismo ma per la stessa Rivoluzione Francese e per l’intera cultura occidentale. O ancora al rilievo tremendo e ai risultati diretti e indiretti nel bene e nel male prodotti dal Manifesto del Partito Comunista (1848) di Marx ed Engels o dal Capitale, per scendere giù, ben più in basso, fino al Mein Kampf di Hitler e al Libretto rosso di Mao… Per certi versi, le stesse Scritture Sacre, una volta che siano fondamentalisticamente o integralisticamente assunte, possono diventare vessilli di contrapposizione o di “guerre sante” ideologiche ma anche concrete.
E il trionfo di Internet può non solo generare perversioni ovvie ma anche condurre a quella Biblioteca di Babele descritta da Jorge Borges nell’omonimo racconto presente nella raccolta Finzioni (1946), ove la moltiplicazione bibliografica diventa via non di illuminazione ma di confusione e accecamento. Non si dimentichi, infatti, che il titolo originario del celebre romanzo di Elias Canetti Autodafé, nel quale il protagonista moriva arso vivo nell’incendio della sua idolatrata biblioteca, era appunto Die Blendung, ossia “l’accecamento” (1935).
Il libro, strumento prezioso
Tuttavia proprio l’efficacia comunicativa e operativa insita al libro fa comprendere quanto esso possa diventare soggetto prezioso di sviluppo umano e di condivisione sia a livello antropologico generale sia nell’ambito religioso. Nell’orizzonte della cultura universale non c’è bisogno di addurre argomentazioni. Basterebbe solo rimandare ai classici, come è stato sinteticamente attestato ad esempio dal volume collettivo, curato da Ivano Dionigi, Di fronte ai classici (ed. Bur-Saggi, Milano 2002).
«Senza l’Ulisse di Omero non avremmo il “folle volo di Dante” – scrive il curatore – né sapremmo dare un volto alla nostra cupido noscendi; senza l’Antigone di Sofocle ci sarebbe meno cara la supremazia delle leggi non scritte (agrapta nomima); senza l’Enea di Virgilio non avremmo cognizione del victor tristis», cioè dell’amarezza di fondo che conserva il destino glorioso ma violento, il trionfo lastricato di morte e sangue; senza il carpe diem di Orazio non riusciremmo a dare forma al nostro dolente sentimento del tempo; senza il lessico di Seneca non si darebbe il linguaggio dell’interiorità di Agostino e Petrarca. E proprio il Petrarca, l’intellettuale europeo ante litteram, coglieva in se stesso questa doppia anima, questa compresenza e divaricazione di futuro e passato (simul atque retroque prospiciens)» (p. 11).
Già il filologo e critico tedesco Erich Auerbach nella sua famosa Mimesis (1946) vedeva nel vascello di Odisseo e nel peregrinare di Abramo e Mosè, cioè nell’Odissea e nella Bibbia, l’archetipo genetico di tutta la letteratura occidentale, mentre Northrop Frye col suo Grande codice (1982) ribadiva la funzione insostituibile delle Scritture Sacre ebraico-cristiane per una corretta ermeneutica dell’arte e delle lettere dell’Occidente.
Giungiamo così nel cuore del nostro discorso. Le grandi opere rivelano una sorta di forma mentale aperta a tutte le declinazioni possibili; tendono di loro natura all’eterno e all’infinito; il loro universo non è posseduto da un pensiero gelidamente monolitico ma vitale e generativo; la loro è una pluralità feconda che non si isola nella sola coerenza, ma si apre all’armonia del contrappunto. La vera cultura ci sottrae al modello dell’aut… aut, che è sorgente di esclusione e di azzeramento dell’altro, di rigetto e di isolamento, ma ci conduce alla logica dell’et … et, ove il dialogo e l’osmosi non elidono l’identità e la coerenza.
Se volessimo solo evocare il Libro per eccellenza, la Bibbia (Biblia), la Scrittura Sacra (Grafè/Grafaì), che però è chiamata dagli Ebrei anche Miqra’, cioè la “Lettura” per eccellenza, ci accorgeremmo che in essa transitano – senza per questo creare sincretismo o inquinamento – mitologie mesopotamiche per la creazione e il diluvio, contributi egizi nel “Cantico dei cantici” o nella teologia sapienziale, elementi cananei per la simbolica nuziale di Osea, idee e stimoli del pensiero greco ed ellenistico in “Qohelet” e nel “Libro della Sapienza”, componenti stoiche e misteriche nell’elaborazione teologica paolina e così via, in uno scambio creativo e positivo, anticipazione di quel dialogo che caratterizzerà in modo costante la tradizione filosofi ca e teologica cristiana che, ad esempio, non temerà di ricorrere alla mediazione araba per acquisire Aristotele. Certo è che nella comunicazione e nel dialogo è capitale conservare un delicato equilibrio.
Filone definiva suggestivamente il sapiente come l’uomo di frontiera, meth’orios, colui che sa stare su un crinale in perfetto equilibrio (De somniis II, 234).
Due sono, infatti, i versanti lungo i quali si può scivolare, quello del sincretismo che è alla fi ne relativismo indifferente o quello del fondamentalismo che è esclusivismo isolazionistico. È, invece, necessario tener insieme in armonia l’identità, cioè lo specifico, con la differenza che è specchio dell’universale. In questa oscillazione il pendolo della ricerca deve impedirsi di inchiodarsi su uno solo degli estremi. Come esortava Paolo, «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Tessalonicesi 5,21). Per stare all’ambito strettamente religioso, bisogna ricordare che Dio è l’Uno al di là del molteplice, è l’Uno che trascende i molti e deve spingerci sempre oltre nella ricerca, verso la Verità ultima e suprema, oltre le nostre singole verità. Ma Dio è anche l’Uno che è nel molteplice, si incarna nella storia, si rivela coi semina Verbi in verbis, cioè con i semi della verità divina effusi nelle varie ricerche umane, sia attraverso la Rivelazione storica specifica, presente nella Bibbia, sia nella “Rivelazione cosmica” (per usare l’espressione coniata dal famoso teologo Jean Daniélou), destinata a tutta l’umanità.
In questa prospettiva e tenendo conto di un contesto travagliato com’è quello contemporaneo, vorremmo citare un passo significativo del Corano che, da un lato, riconosce come volere divino la molteplicità e la diversità dialettica del presente ma, d’altro lato, fa balenare la condivisione e la piena comunione finale verso cui dobbiamo tendere. Si legge nella sura V: «A ognuno di voi Noi (Dio) abbiamo assegnato una regola e una via. Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quello che vi ha dato.
Gareggiate, dunque, nelle opere buone perché a Dio voi tutti tornerete e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (V, 48). La forza della cultura e dell’autentica spiritualità non è nel duello, cioè nello scontro fatto di ripulsa e di incomprensione, ma nel duetto che è fonte di dialogo e di incontro, pur nella diversità delle voci perché, nel duetto appunto, possono coesistere e creare armonia anche un basso e un soprano in sintonia tra loro.
(Notiziario della Banca Popolare di Sondrio, 104, AGOSTO 2007, pp. 146-149)