Datemi una casa

Che cosa dice la vita comune alla Pastorale giovanile?

Giordano Goccini

Datemi una barca, disse l'uomo.
E voi, a che scopo volete una barca, si può sapere, domandò il re.
Per andare alla ricerca dell'isola sconosciuta, rispose l'uomo.
Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più:
sono tutte sulle carte.
Sulle carte geografiche ci sono solo isole conosciute.
E qual è questa isola sconosciuta di cui volete andare in cerca.
Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta.
José Saramago

Le esperienze di vita comune descritte in queste pagine [l] pongono domande nuove alle nostre abitudini ecclesiali e ai nostri affanni pastorali. Interrogano soprattutto quel groviglio di attività specificamente rivolte alle nuove generazioni che vanno sotto il nome di Pastorale giovanile, un'attenzione molto cresciuta in questi decenni, in modo proporzionale all'abbandono della pratica ecclesiale dopo l'iniziazione cristiana. Ma qui non è la distanza crescente tra la Chiesa e i giovani l'oggetto della nostra analisi. È piuttosto la fede dei giovani a interrogarci, molto più della loro indifferenza. Quest'ultima infatti può essere semplicemente il rifiuto di un certo modello religioso degli adulti, troppo abitudinario, superficiale, costrittivo e, in fondo, sospetto di scarsa autenticità. Ma i giovani che credono, come hanno raggiunto l'esperienza della fede? Quali tracciati stanno percorrendo per abbracciare una credenza sempre meno plausibile agli occhi dei loro coetanei? Quale terreno si è rivelato così fertile da far maturare la loro fede?
C'è stato un tempo, fino ad alcuni decenni fa, in cui la fede in Italia faceva parte del bagaglio culturale che veniva trasmesso quasi naturalmente, da una generazione all'altra. Bastavano il quadernino del catechismo e la pazienza della nonna. Benché anche nella società tradizionale la vita cristiana avesse le sue complessità, possiamo dire che in quell'esperienza ecclesiale non sì avvertiva il bisogno di una specifica Pastorale giovanile. L'iniziazione cristiana ai bambini e la vita liturgica-sacramentale della parrocchia costituivano il nutrimento essenziale della vita di fede.
Dalla seconda metà del secolo scorso si è progressivamente allungato il passaggio dall'infanzia alla vita adulta, creando lo spazio ampio della giovinezza che l'intraprendenza pastorale di tante comunità ha saputo riempire di esperienze nuove, riflessioni profonde e azioni audaci. Si apre una frattura nella trasmissione della fede che assume dapprima i tratti della contestazione, in nome di un Vangelo vissuto più autenticamente, poi dell'indifferenza nel tempo dell'ubriacatura del consumismo che soddisfa ogni desiderio, fino a sfociare nella ricerca individuale di un "Dio a modo mio" (Bichi - Bignardi, a cura di, 2015). Questi passaggi segnano le scelte e le proposte specifiche che le comunità hanno fatto ai giovani nelle diverse epoche: dall'esperienza dei gruppi di impegno sociale alle Giornate mondiali della gioventù; dalla lettura della Bibbia, alla riscoperta del monachesimo; dal servizio ai poveri alle esperienze missionarie.
Da una ventina d'anni l'emergere di esperienze dì vita comune è una novità rilevante. Soprattutto perché assume forme diversificate – adattandosi a esigenze, contesti e possibilità – e nasce dal basso, dall'esperienza pastorale, prima che dai progetti dei piani alti. Proveremo ad esplorare queste esperienze con lo sguardo di chi ha a cuore la crescita nella fede dei giovani. Quindi – è bene dichiararlo fin dall'inizio – con un atteggiamento scarsamente scientifico e distaccato, anzi, volutamente condizionato dalla passione evangelizzatrice che caratterizza l'impegno pastorale della Chiesa.
Cercheremo tuttavia di non cedere al fascino delle idee preconfezionate e dí leggere le esperienze di vita comune dei giovani con sguardo di meraviglia, quasi con atteggiamento mendicante, per cogliere cosa suggeriscono al nostro impegno ecclesiale nei loro confronti. Non andremo alla ricerca di risposte, né di ricette o so-luzioni. La Pastorale giovanile in questi decenni è stata già troppo ammorbata dalla pretesa di trovare un modello che funzioni, una strategia di successi garantiti. Ci lasceremo piuttosto interrogare dalle domande che queste esperienze ci consegnano, a volte mettendo in discussione certe convinzioni consolidate.

1. L'emergere della vita quotidiana

Il primo aspetto che balza agli occhi nelle esperienze dì vita comune è la rivincita del quotidiano. Dopo che li abbiamo accompagnati in altri Paesi e continenti per le Giornate mondiali della gioventù, temprati nelle esperienze di frontiera con i poveri nel Terzo mondo, immersi nelle sfide delle periferie esistenziali, accarezzati con le consolazioni della spiritualità, questi giovani, cosa ci chiedono? Di vivere insieme, nella normalità del quotidiano, mentre vanno a scuola o al lavoro. Ci chiedono di avere una casa da accudire, di sperimentarsi nel bucato, nella spesa e cimentarsi nella preparazione della cena. Ci chiedono una tavola dove ritrovare il gusto del cibo condiviso insieme, un divano sul quale ridere, discutere, guardare un film, una camera con qualcuno vicino per le confidenze a luce spenta.

1.1. Dal brivido delle grandi sfide all'ordine nelle piccole cose

Non c'è nulla di eroico nella vita comune. Anzi i più piccoli inciampi a volte diventano difficoltà enormi, fonti di fatica e di frustrazioni. Qui non c'è la mamma ad appianare ogni cosa, non c'è il papà a risolvere i problemi. Ci sono gli altri, alla pari, con la Toro presenza corporea nella versione più totale e faticosa. Ci sono i loro odori, i loro disordini, i loro difetti in bella vista. C'è una montagna di diversità da accettare per potersi incontrare, un oceano di differenze in cui si rischia ogni giorno di affondare. La vita comune è una sfida ardua, ma non ha i tratti di ciò che normalmente associamo a questo termine. È un'impresa grandiosa, ma costruita su cose banali; una rivoluzione copernicana le cui traiettorie si giocano nei pochi metri quadrati tra la cucina e il bagno con la sola forza della fraternità.
Stupisce, nei racconti dei giovani, il desiderio dichiarato di ritrovar, un Mino: nei ritmi, nelle cose, nella vita. Non solo sembra ormai tramontata la ricerca di una vita spericolata, ma appare chiaro che il disordine sottrae pienezza all'esistenza, la insipidisce, la scolora. Nello stesso tempo i giovani si sentono vittime dei loro scompigli in una spirale da cui è difficile uscire. Prendiamo un'esperienza quotidiana come guardare la televisione: un tempo era legata all'ordine precostituito del palinsesto, oggi invece alla proliferazione dei canali si è aggiunta la possibilità di guardare qualsiasi programma in qualsiasi momento. Le serie sono costruite appositamente per questa fruizione compulsiva che ubriaca e genera frustrazione.
Questa aspirazione ad un ordine nella quotidianità interroga una Pastorale giovanile spesso incline alle cose grandi: nella costruzione di eventi di massa, nella ricerca dei personaggi famosi e delle esperienze straordinarie. Molti giovani ammettono di essere approdati al desiderio di una vita comune prolungata dopo aver, per così dire, "esaurito" l'esperienza dell'oratorio, perché avvertivano l'aspirazione a qualcosa di più grande. Se l'oratorio è stato per loro luogo di incontri ed esperienze forti, il di più che stanno cercando sembra stare nel segno del quotidiano.

1.2. Dal festivo al feriale

Ogni esperienza culturale e religiosa tende a definire il tempo attraverso queste polarità: il feriale dedicato alla scuola, al lavoro, agli impegni importanti; il festivo dedicato al riposo, alle passioni, alle relazioni, a Dio. La nostra Pastorale ha sempre trovato terreno fertile nel festivo, che ha cercato di occupare con molte proposte, spesso subendo la concorrenza con altre attività, come quelle sportive. Per i ragazzi e i giovani c'è poi il tempo delle vacanze scolastiche che offre ampie possibilità di esperienze straordinarie. Il risultato è che l'impegno pastorale ha finito per occuparsi poco – tranne qualche lodevole eccezione – degli impegni della vita quotidiana, come la scuola, il lavoro e l'economia, la casa e le relazioni familiari, per occuparsi principalmente delle attività eccezionali possibili nei giorni di festa, quasi suggerendo l'idea che Dio abiti il festivo e lo straordinario più che il feriale e l'ordinario.
Nella vita comune invece i giovani ci chiedono di vivere la, erialità, di gestirla e condividerla, di aiutarli a coglierne il valore e assaporarne il gusto. Ci chiedono di ritrovare il tempo per le piccole cose che contano: la relazione, la cura, la preghiera, Intravedono nelferiale uno spazio abitato da Dio, che tuttavia, a causa della fretta e delle distrazioni, ci sfugge di mano. Ecco che nasce l'esigenza di imporsi dei tempi, come quelli dei pasti comuni la mattina e la sera, o quelli della preghiera comunitaria e personale, vigilando e aiutandosi perché non vengano calpestati.
Ma è soprattutto il tempo del lavoro e dello studio che chiede di trovare un grembo accogliente, uno spazio di condivisione, per sottrarlo all'imperativo della prestazione e restituirgli il senso di realizzazione della propria identità. Ci torneremo più avanti parlando del discernimento, qui ci basta cogliere l'ambiente comunitario come spazio necessario per comprendere se stessi e la propria personalissima – forse a volte solitaria – sfida di realizzare una vocazione unica e irripetibile. Per dare un senso al proprio esistere e portare il fardello della definizione di sé, i giovani sentono il bisogno di uno sguardo altro – plurale e comprensivo – nel quale affondare le proprie fragilità e sentirsele restituire riconciliate.

2. Il valore degli interstizi

La Pastorale giovanile è per sua natura interstiziale. Si inserisce cioè negli anfratti, penetra nelle fessure, abita le faglie della vita, tra il non più e il non ancora. L'oratorio è spazio educativo non più piazza, ma non ancora Chiesa e il protagonismo che vi sperimentano gli adolescenti è quello di chi non è più bambino, ma non è ancora adulto. Gli spazi interstiziali sono preziosi perché permettono di sperimentare, rischiare e a volte anche cadere, senza farsi troppo male. Sono i periodi di passaggio da una condizione che diventa stretta ad un'altra non ancora affrontabile.
La vita è fatta di spostamenti da un luogo all'altro e da una condizione all'altra. E non è detto che il tempo del viaggio sia sempre tempo perso. Anzi, alle volte è un tempo che diventa necessario per lasciarsi alle spalle il passato e prepararsi ad accogliere il futuro. Non si tratta soltanto di fare i conti con la paura di sbagliare, decisamente acutizzata in una cultura che non concede fallimenti ed eleva continuamente gli standard delle prestazioni. Si tratta di cogliere la preziosità della vita anche nei tempi di attesa, di sospensione, di tregua. Concedere legittimità a questi tempi interstiziali tra una fase e l'altra (tra lo studio e il lavoro, tra la casa in cui si è nati e la costruzione della propria, ira l'essere figli e il diventare genitori)
significa accettare la precarietà come cifra dell'esistenza umana, contemplare i percorsi tortuosi come modalità di discernimento, accogliere i fallimenti come esperienze che fannó crescere.

2.1. La casa e la strada

Nel 1957 Jack Kerouac pubblicava On the road che ben presto divenne il manifesto della Beat generation. Alla società americana imborghesita e puritana sbatteva in faccia un modo diverso di concepire l'esistenza: non più una casa e una famiglia, ma la strada e tanti incontri occasionali; non più un lavoro e un reddito, ma una vita di espedienti e di sostanze; non più il matrimonio, ma la liberazione sessuale. Una decina di anni dopo queste idee attraverseranno l'Atlantico e animeranno la più grande frattura generazionale della storia.
Mezzo secolo dopo, i giovani della generazione Erasmus hanno una grande possibilità di muoversi, studiare all'estero e vivere esperienze in altri ambienti e culture. Eppure, sembrano avere nostalgia di una casa. Non di quella dei genitori, dove hanno vissuto fin troppo e spesso senza particolari conflitti. Ma nemmeno quella della scelta definitiva, della loro futura famiglia, di cui ancora non intravedono chiaramente i contorni. Una casa interstiziale, provvisoria, temporanea, ma fatta di relazioni autentiche. Una convivenza di persone che vogliono vivere insieme, condividere un cammino e prendersi cura le une delle altre. Non la coabitazione degli studenti per risparmiare sull'affitto, con gli spazi ben definiti per limitare il fastidio reciproco. I giovani sognano una convivenza piena di valori, una vita comune di qualità, con relazioni impegnative e soddisfacenti, spesso anche legata alla bellezza del luogo e all'armonia con la natura e gli animali. Una casa provvisoria, ma autentica, ricca di fraternità.

2.2. Il discernimento

Il bisogno di uno spazio e di un tempo dedicato al discernimento prevale nelle attese dei giovani e ancor più in quelle dei pastori o delle realtà ecclesiali che hanno dato vita a esperienze di vita comune. Forse con il rischio di qualche fraintendimento. Nei primi il termine rischia di nascondere il timore di fare i passi decisivi e il bisogno di prendere tempo e dilazionare le scelte. Nei secondi aleggia l'attesa di un recupero In chiave vocazionale per rinforzare le truppe dei consacrati sempre più evanescenti e invecchiate. In comune c'è la percezione che i percorsi vocazionali sono sempre più complessi ed esigenti, perché le aspettative di autorealizzazione si fanno più intense e soprattutto più interiori. Emerge l'imperativo di scoprire i propri desideri, senza lasciarsi schiacciare dalle aspettative sociali, né ammaliare dalle sirene di un successo effimero. Ma appena si tenta di varcare la soglia della propria interiorità più profonda si avverte quanto sia esigente il "me stesso" che abita dentro di noi e con cui bisogna fare i conti. Prendere come riferimento per le scelte di vita i propri sogni più autentici e originali non è meno impervio che cedere alle convenzioni sociali e abbandonarsi alla corrente del momento.
Questo desiderio di discernimento nasce da una pressione molto più forte che in altri tempi, quando le scelte avevano spazi di libertà assai ristretti e appariva già una buona realizzazione la progressione nella scalata dei ruoli sociali. L'ascesa dagli strati umili a quelli più elevati da una generazione all'altra era un buon risultato che poteva soddisfare sia le aspettative sociali sia quelle interiori. Ora invece un fardello evolutivo piuttosto pesante e contraddittorio viene caricato sulle spalle degli adolescenti e dei giovani, con la melliflua rassicurazione che potranno scegliere liberamente la loro strada nella vita, ma anche con la pretesa che realizzino qualcosa di originale e straordinario. Così può accadere che il figlio del notaio, piuttosto che accodarsi alla tradizione di famiglia, si avventuri a fare il cuoco e la figlia del primario apra un allevamento biologico. I percorsi lineari si sciolgono, si intersecano, mischiandosi a nuovi valori e possibilità, ma questo affatica i percorsi di discernimento dei giovani, che si fanno stentati e procedono per tentativi, cadute, slanci e riprese.

2.3. La parola

In questo laboratorio di sperimentazioni "zigzaganti" si sente tuttavia il bisogno di fare tesoro di quanto si sta collaudando. Cresce così l'importanza della parola e delle relazioni: raccontare e raccontarsi. Non più la parola razionale che scandaglia l'esistente con rigore filosofico, alla ricerca di evidenze paradigmatiche. Semmai è la parola che si fa narrazione e che nei mille rivoli delle esistenze possibili scorge una luce, un colore, un frammento che ravviva, illumina, comunica. L'attesa di discernimento non si esprime (soltanto) nel tempo dedito alla solitudine pensosa, ma nel calore delle relazioni, nella reciproca accoglienza comprensione, nell'offerta reciproca di una narrazione di sé senza reticenze, libera e liberante.
Serve qualcuno che si metta in ascolto con pazienza e fiducia. Il ruolo dei formatori acquista consistenza in questa dinamica e i contorni delle loro figure si fanno più nitidi. Non più il ruolo di chi organizza e prende in carico ogni cosa, di chi sta davanti e guida le truppe da condottiero. Piuttosto l'atteggiamento di chi lascia andare e rimane un passo indietro, di chi accoglie le sperimentazioni anche quando debordano dai programmi, di chi accetta le persone e i loro travagli. È bene che i formatori siano plurali, nel numero e nella varietà delle scelte di vita. Non per dare testimonianza a tutte le possibili "soluzioni" vocazionali come se dovessero essere rappresentate in egual misura, ma per realizzare un ascolto e un accompagnamento compiutamente poliedrico, maschile e femminile, adulto e giovanile, religioso e laico, spirituale e concreto.
In questo contesto acquista una luce nuova anche l'approccio con la Parola di Dio, spesso desiderata e accolta proprio per la sua forza narrativa capace di illuminare il presente. propri
È una Parola letta non più alla ricerca di un fondamento teologico alle convinzioni di fede, ma nel gusto della freschezza che sgorga dalle sue pagine, della vitalità dei suoi racconti, della forza delle immagini. Si legge la Parola per sentire la vibrazione della voce di Dio, più che per scandagliare i meandri dei suoi voleri eterni. È un approccio molto interessante e sorgivo, ma che gli operatori pastorali – educati ad un approccio più razionale e talvolta moraleggiante – faticano ad accogliere con fiducia.

3. La rivincita della casalinga

Mia mamma ha sempre fatto la casalinga (e anche un po' la sarta, per passione). Non l'ho mai vista fare un giorno di ferie, se non costretta dalle esigenze familiari a qualche settimana di mare, ma anche lì le faccende quotidiane l'accompagnavano nel piccolo appartamento preso in affitto. Se dovessi scrivere il curriculum vitae di mia mamma starebbe tutto in una parola: casalinga. Come si potrebbe scrivere su un curriculum quanto ci ha amati ed accuditi fin da piccoli? Quanto sia capace di comprensione, di pazienza e di cura? A chi potrebbe importare la passione con cui prepara un pranzo per i figli e i nipoti nei giorni di festa, o l'accoglienza dei poveri che bussano alla porta di casa? Come spiegare il valore del lavoro umile e quotidiano nella cura dei nonni e nell'accoglienza dei bambini che l'hanno impegnata per decenni?
Nella nostra cultura il lavoro casalingo è espressione di vita incompiuta, di competenze non espresse, di capacità non realizzate. È fatto soltanto di piccole cose, ripetitive e nascoste. Nemmeno chi gode del suo servizio ne riconosce il valore. Non è la carriera che sogniamo per i nostri figli impegnati in banchi di prova ben più impegnativi di biancheria e fornelli. Ora però, questi figli cresciuti a filosofia e inglese, a musica e arti marziali, ci chiedono di mettersi alla prova nella quotidianità. Di fare a gara nella cura delle piccole cose che rendono bella la casa e la vita. Nel preparare una torta o una cena per gli amici, nell'arredare una stanza perché sia più accogliente, nel sobbarcarsi i lavori di casa per permettere ad un altro di dedicare il giusto tempo alla preghiera. E una piccola rivincita di tutte le casalinghe e del loro lavoro nascosto. Una sorta di riscossa della capacità di cura rispetto a quella di prestazione, della dedizione e della condivisione, rispetto al profitto e al successo. Si insinua una nuova antropologia che ha dei bei tratti evangelici.

3.1. La ricerca dell'armonia perduta

Il riscatto delle piccole cose della quotidianità è un aspetto molto interessante. Ridare valore alla preparazione dei pasti e alla cura del pollaio, alla pulizia degli ambienti e all'accoglienza delle persone, per i giovani significa mettersi in ricerca di un'armonia compromessa dalla corsa alla realizzazione e al successo. O meglio: è un'altra via di realizzazione che apre spiragli nuovi anche ai propri progetti di vita. È l'atto di accusa verso una mentalità produttiva che – dobbiamo ammetterlo – è penetrata anche negli stili pastorali improntati talvolta ad una attività frenetica e compulsiva.
Nella vita comune i giovani cercano quest'armonia con se stessi, con gli altri, con l'ambiente e anche con il cielo, con Dio. Ne parlano come un valore assoluto, un metro per valutare per ogni esperienza, il criterio decisivo di bontà delle cose. Così che i valori morali sono ricercati con impegno, ma non discendono più da principi universali per poi essere applicati alle situazioni particolari della vita. Semmai il contrario: dalle situazioni concrete si percepiscono i valori e si cerca di ricostruirne delle traiettorie che possano orientare l'esistenza. La sfida, per una Chiesa che solo da pochi anni ha accantonato l'astruso linguaggio dei valori non-negoziabili, è molto alta. Si tratta di accompagnare percorsi di scoperta parziali e talvolta soggettivi, ma che possono aprirsi all'universale attraverso il dialogo e il confronto con gli altri.

3.2. Soggettivismo e individualismo

A nessuno sfugge quanto possa farsi scivoloso un approccio etico di questo tipo: empirico, sperimentale, parziale. Ogni esperienza può mettere in discussione la precedente, ogni conquista può essere travolta dalla successiva, ogni passo avanti può sfociare in un ritorno all'indietro. I percorsi morali, spirituali e religiosi diventano intermittenti, soggettivi e individuali. Ne sono ben coscienti i formatori coinvolti nelle esperienze di vita comune: aiutare i giovani ad uscire dalla logica dell'individualismo esasperato è uno degli obiettivi ricercati con impegno. Dentro a questa istanza c'è la consapevolezza dell'ambiguità radicale della sfida che concerne le scelte di vita nel contesto della nostra cultura attuale. La pretesa cioè di realizzare se stessi avendo come metro di misura nient'altro che se stessi e il flusso discontinuo delle proprie sensazioni.
La sfida per la Pastorale giovanile qui raggiunge una vetta impegnativa. Si tratta di accogliere questi giovani così come sono, con la pressione che si portano addosso per realizzare qualcosa di originale e autentico nella loro vita, dentro percorsi che si fanno tortuosi e insicuri. Si tratta di aprirli all'accoglienza di altri assoluti che sono oltre loro stessi: la vita degli altri, la storia del mondo, la forza illuminante del Vangelo.
Anche nell'esperienza religiosa non possiamo negare che la ricerca, spesso intermittente, di un Dio a modo mio sia molto distante dalle aspettative di appartenenza e di partecipazione alla vita ecclesiale che si attendono le comunità dai loro giovani. E tuttavia non possiamo non accoglierli nella loro ricerca effettiva, rinunciando alle scorciatoie di una religiosità standard che vada bene per tutti o ad un Vangelo ridotto a principio etico senza il vigore dell'esperienza personale di Dio, della stia presenza, del suo calore, del suo profumo. ll Dio che i giovani cercano nelle esperienze di vita comune ha la fragranza del pane condiviso e il profumo del bucato, il calore degli abbracci e la serenità di sentirsi accolti e compresi. Non è molto diverso dal padre che Gesù invoca con il vezzeggiativo «Abbà».

4. La Pastorale giovanile [2]

C'è una Pastorale giovanile che cerca di rintracciare questi percorsi irregolari, di rileggerne le traiettorie, per comprendere l'inesauribile ricchezza della fede che non è solo frutto della trasmissione di conoscenze e valori, ma anche esperienza originale, inestinguibile e creativa. La fede dei giovani pone domande agli adulti, alle comunità, agli operatori pastorali. E la loro ricerca di nuovi modelli di vita comune è un filone di interrogativi molto interessanti. Abbiamo cercato di coglierne alcuni in questo contributo.
Ma c'è anche un'idea di Pastorale giovanile assillata dalle risposte, sempre alla ricerca della ricetta che funziona, del modello da copiare, della formula vincente. Più che una strategia, si tratta di un atteggiamento di fondo, che non riesce ad ospitare la realtà: i percorsi di fede dei giovani chiedono alle comunità adulte una conversione profonda. Non si tratta solo di cambiare le attività che proponiamo loro, ma di accogliere una nuova visione dell'esperienza credente che attraverso loro ci viene presentata. Credo sia quello che intenda Papa Francesco nella conclusione della esortazione apostolica Christus vivit.

Cari giovani, sarò felice nel vedervi correre più velocemente di chi è lento e timoroso. Correte attratti da quel Volto tanto amato, che adoriamo nella santa Eucaristia e riconosciamo nella carne del fratello sofferente. Lo Spirito Santo vi spinga in questa corsa in avanti. La Chiesa ha bisogno del vostro slancio, delle vostre intuizioni, della vostra fede. Ne abbiamo bisogno! E quando arriverete dove noi non siamo ancora giunti, abbiate la pazienza di aspettarci. (2019a, n. 299)


4.1. Datemi una casa

L'isola misteriosa che i nostri giovani chiedono non è più distante ed esotica, non appartiene all'immensità dell'oceano e ai suoi misteri inesplorati. La casa, la vita quotidiana, la fraternità sembrano oggi le isole che i giovani non trovano sulle carte dei grandi esploratori e di cui sono alla ricerca. La Chiesa può essere un interlocutore credibile di questa ricerca, non solo perché mette a disposizione dei giovani una casa, ma perché si fida di loro, del loro intuito, della loro fede.
Nelle esperienze di vita comune narrate in queste pagine c'è in fondo un investimento di fiducia. La fiducia dei giovani di trovare qualcuno che li accolga, li ascolti e sia disponibile a relazioni di autentica fraternità. La fiducia delle comunità nei confronti del loro continuo incespicare e rialzarsi, tentare e ripartire. La fiducia nelle piccole cose, nell'esperienza della vita quotidiana, nel suo appello a stringere legami. E questo gioco di fiducie che si intrecciano il miglior terreno dove seminare il Vangelo e attendere che porti frutto.

NOTE

1 La presente riflessione fa seguito all'indagine "Giovani e vita comune", promossa da ODL. (Oratori Diocesi Lombarde) realizzata dall'Osservatorio Giovani, con il contributo economico di Regione Lombardia (Introini - Pasqualini, a cura di, 2021).
2 Mentre stavamo scrivendo questo contributo usciva in libreria il corposo lavoro di Salimele Marciti (2021), del quale, purtroppo, non abbiamo potuto tenere conto in queste pagine, ma che consigliamo ai lettori che intendano approfondire l'argomento.

(Paola Bignardi - Fabio Introini - Cristina Pasqualini, Oasi di fraternità. Nuove esperienze di vita comune giovanile, Vita e Pensiero 2021, pp. 221-232)